Seduto su una sedia che doveva essere costata più del suo ultimo stipendio, Matt Groening teneva sulle ginocchia una cartelletta con dentro i disegni di Life in Hell, la striscia che lo aveva reso una celebrità nel mondo del fumetto losangelino. La scorreva con le dita, sentendo la sicurezza diminuire a ogni foglio che superava con i polpastrelli. Quell’incontro avrebbe dovuto convincere il produttore James L. Brooks a realizzare un adattamento animato della sua striscia, da mandare in onda come intermezzo al Tracy Ulmann Show, uno show comico condotto dall’eponima protégée di Brooks.
Gli Oscar di Brooks, il mobilio del suo ufficio, la nozione stessa di stare nell’anticamera di un produttore che aveva creato alcune delle più importanti serie della tv americana (The Mary Tyler Moore Show, Taxi, Rhoda) e che poi era migrato al cinema con eguale successo ed era, in quel momento storico, un nome potente di Hollywood non gli sembrava più l’idea sensata che gli si era prospettata all’inizio. Life in Hell parlava di un coniglio anaffettivo con un figlio illegittimo, Bongo, una coppia di gemelli (e amanti), Akbar e Jeff, intenti a vivisezionare i rapporti amorosi nelle loro conversazioni, di angoscia e ansie sociali. Come avrebbe mai potuto funzionare in televisione un prodotto che parlava di morte, sesso e mestizia?
Preso dal panico, Matt tirò fuori un foglio bianco e scarabocchiò cinque personaggi, una famiglia apparentemente tradizionale che sarebbe dovuta rientrare nei canoni di uno show televisivo per tutti. Con l’assistente di Brooks pronto a convocarlo, Matt non ebbe tempo di pensare ai dettagli e assegnò al gruppo i nomi dei propri familiari. Poi gli mise il cognome di un personaggio secondario di Life in Hell, Mr. Simpson.
Come ogni storia che si rispetti, le vicende dei Simpson iniziarono con questo aneddoto dal gusto leggendario, ma sfortunatamente falso. E a corroborare questi e tanti altri passaggi mitologici di uno degli show più influenti della tv americana c’è lo stesso creatore, Matt Groening, che ha capito fin da subito il potere di un buon racconto e di una bugia ben piazzata. Di dire la verità, o di seguire le regole, a Groening non è mai importato.
Origini segrete
Nato a Portland, in Oregon, nel 1954, terzo di cinque figli, Matt Groening passò l’infanzia tra le urla dei leoni del vicino zoo locale e quelle dei programmi televisivi. Tra i suoi preferiti, gli show che idealizzavano la vita suburbana del Dopoguerra come Il carissimo Billy o Papà ha ragione.
Studente discreto, perfino eccelso a sentire i racconti della madre («Forse non vuole che si sappia in giro» disse nel 1990 al Seattle Times), Groening malsopportava le convenzioni del sistema scolastico e rifiutava di prendere parte agli obblighi sociali pensati per i suoi coetanei.
Questa duplice natura, sovversiva eppure in accordo con le consuetudini, avrebbe caratterizzato tutta la sua vita professionale. Lui che dei boy scout disse «vanno bene se non hai altro da fare, o ti piace far finta di essere nell’esercito e adori fare il saluto alla bandiera», diventò uno di loro, perché forse non aveva altro da fare, e durante una funzione religiosa scappò dal gruppo per visitare il Psychedelic Shop, un negozio dove scoprì Zap Comix.
Grazie al lavoro del padre, pubblicitario e regista con un passato da vignettista politico, in casa non mancavano mai New Yorker, Esquire e Punch, riviste alternative che Groening accompagnava con la lettura di Zio Paperone, Peanuts e gli altri fumetti del fratello maggiore, pronti a rimpiazzare una televisione piena di show smussati agli angoli e rivestiti di certezze confortevoli.
Con i suoi amici fondò un club che si ritrovava per leggere fumetti e riviste, e disegnare. Qui, Matt disegnò Joe, una versione deformata di Charlie Brown: labbro sporgente, nasone e occhi enormi posti sullo stesso lato della faccia. A Matt e ai suoi amici quest’ultimo dettaglio faceva molto ridere.
Ad affascinarlo, in particolare, era la serie di Ronald Searle St. Trinian’s School, ambientata in un collegio femminile dove gli insegnanti sono aguzzini sadici e le alunne delinquenti in gonnella. «Ci si preoccupa molto di come l’immaginario possa influenzare i bambini, io ero affascinato da questa impresa umana e dai suoi estremi negativi, morte violenza e cose morbose. Mi piacevano le cose che innervosivano le persone.»
La violenza e la cupezza di Searle furono di enorme ispirazione per Matt Groening. In Life in Hell una delle situazioni ricorrenti vedeva il coniglio Bongo chiuso in una stanza mentre da una piccola fessura delle generiche autorità lo monitoravano, commentando le sue reazioni. «Il piccoletto non sembra reagire all’amore» dicevano dopo aver appeso nella stanza un cartoncino con sopra disegnato un cuore. Sono vignette che trattano quasi sempre l’abuso infantile e il potere autoritario, nonché «dei plagi di Ronald Searle», come ha commentato Groening nel documentario della BBC My Wasted Life.
Al college, l’Evergreen State College, un istituto fondato l’anno prima dell’immatricolazione di Groening che vantava un’impostazione progressista fatta di lezioni libere e assenza di voti, diventò l’editor del giornale del campus, il Cooper Point Journal, e conobbe Charles Burns, Jim Chumpa e Lynda Barry. Con quest’ultima strinse una profonda amicizia, maturata sulla comune passione per Joseph Heller, l’autore di Comma 22, a cui Barry aveva scritto una lettera.
Barry lo portò a scoprire un nuovo modo di intendere il fumetto alternativo: metteva su carta la sua vita, i suoi lavori erano personali e divertenti ed erano un approccio alternativo a quello di Robert Crumb e dei «fumettisti della stessa risma che combattevano battaglie diverse», secondo Groening.
Dopo la laurea, il suo futuro di adulto gli appariva nebuloso. «Avevo alcuni amici dalle grandi ambizioni con cui avevo in comune un sacco di scuse sul perché non stavamo ottenendo ciò che volevamo» spiegò al Daily Nexus. Ispirato dalla canzone dei Talking Heads Artists Only, in cui vengono accampate una serie di scuse “da artisti” («You can’t see it ’til it’s finished / I don’t have to prove that I am creative!»), «decisi che non potevo più permettere a quelle scuse di definirmi».
Vita all’inferno
Nel 1977, Groening si trasferì a Los Angeles con la fidanzata. Era un venerdì di agosto e l’ispirazione per Life in Hell fu immediata: «La mia auto andò in panne sull’autostrada di Hollywood mentre ascoltavamo un deejay ubriaco che stava conducendo il suo ultimo show e insultava il manager della stazione radio».
Nei mesi successivi accumulò una serie di lavori scadenti come tuttofare di un vecchio regista di serie B − che gli affidò i compiti di autista e ghostwriter della sua autobiografia − e copywriter per un’agenzia che pubblicizzava film horror. Sfogò le sue ansie in un fumetto autoprodotto con protagonista il coniglio Binky, la sua ragazza Sheba, Bongo, figlio illegittimo di Binky, e la coppia di fratelli/amanti Akbar e Jeff.
Iniziò a distribuirlo, a due dollari ad albo, nel negozio di dischi in cui lavorava, il Licorice Pizza, finché un editor di Wet, l’eclettico magazine fondato da Leonard Koren, lo volle a bordo della rivista. Da lì passò al Los Angeles Reader, che nel 1980 assunse Groening nel proprio staff come redattore, fumettista e critico musicale.
«I suoi disegni erano semplici ma pensati benissimo» commentò Gary Panter, fumettista con cui Matt Groening strinse amicizia negli anni Ottanta. «Erano chiari, che è la caratteristica fondamentale per comunicare visivamente, nei fumetti. E Matt è un grande scrittore, comprende la psicologia umana».
Tra gli aspetti peculiari che emersero con forza nella striscia ci fu il formato quadrato − ripreso dai fumetti di Barry −, il linguaggio (la serie “parole proibite”) e le formule narrative che si ripetevano nel tempo, come il già citato Bongo chiuso nella stanza, Bongo beccato in qualche marachella da Binky o la dissezione di aspetti della realtà tramite liste, grafici o freccette su un personaggio che ne indicavano difetti e idiosincrasia, uno stratagemma che sarebbe stato riutilizzato nel miglior oggetto editoriale targato Simpson, la Guida alla vita di Bart Simpson.
Gary Panter fu un altro fumettista che Matt Groening prese a modello, facendo sue le idee del Rozz Tox Manifesto, una teoria dell’arte postmarxiana che rifiutava l’idea dell’artista che lavorava contro il sistema. Al contrario, gli artisti erano incoraggiati a provocare un cambiamento agendo dall’interno della società capitalistica.
Con i suoi fumetti, diceva Groening, «volevo solo offrire un’alternativa al pubblico e mostrare loro che esiste qualcos’altro oltre alla spazzatura generalista che viene spacciata come l’unica cosa possibile. È una pretesa egotistica dire che quello che offro abbia del valore, ma mi piace rendermi parte del mercato. C’è questo pregiudizio nel mondo underground che tutto il mainstream sia senza speranze. Quando mi trasferii a Los Angeles nel 1977 e feci amicizia con Gary Panter, ci piaceva sederci sulla Melrose, dividerci hambuger da Astroburger e pianificare la nostra invasione dei media. La nostra idea era che, invece che considerarci troppo bravi o raffinati o esoterici, dovevano muoverci per cercare di far passare le nostre idee».
«Se pensiamo al modo in cui Gary Panter spiegò le cose a Matt Groening è probabile che l’argomento usato sia stato “Fottitene”» commentò Douglas Rushkoff, teorico dei media tra i primi a trattare i temi di marketing virale e nativo digitale. «Tanto queste società non sono vive, non c’è mai nessuno in casa. Approfittiamone per farci pubblicità attraverso i loro canali.» Potevano cioè permettersi di essere sovversivi perché nessun altro sapeva cosa stessero facendo.
Life in Hell sarebbe però rimasto uno dei tanti compiti del Groening giornalista se non fosse stato per Deborah Kaplan, che del Reader era l’addetta alle vendite. Kaplan divenne prima la nuova fidanzata dell’autore (in seguito moglie, madre dei due figli Homer e Abe, e alla fine ex-moglie) e poi la sua manager, occupandosi di mettere ordine nella gestione bohemien degli affari di Matt Groening. «Gli uscivano i quarti di dollaro dalle tasche, li aveva sparsi per tutto il pavimento» ricorda Kaplan. «Teneva assegni non incassati sotto pile di vecchi giornali».
Tra la creatività di Groening e l’operosità di Kaplan, i due riuscirono a creare una piccola industria a tema Life in Hell comprendente raccolte, calendari e oggettistica varia che fecero intuire al fumettista le potenzialità della commercializzazione. «Tutti quelli che conosco mi dicono “Beh, se avessi una Deborah, sarei anch’io una persona di successo”» ammise Groening al Los Angeles Times Magazine nel 1990.
Homer, Bart, Fry, Bender
Sempre grazie a una donna Groening passò dal fumetto alla televisione. La scenografa Polly Platt, che aveva ricevuto una nomination all’Oscar per Voglia di tenerezza e voleva ringraziare il regista James L. Brooks per la collaborazione, comprò da Kaplan un originale di Life in Hell del 1982 intitolato The Los Angeles Way of Death, in cui vengono mostrati nove modi per morire nella città degli angeli, gli ultimi due dei quali sono il successo e il fallimento.
«Il mio consiglio a Jim: pensavo fosse carino fare uno special tv su quei personaggi» ricorda Platt. La scenografa acquistò un paio di disegni anche per il braccio destro di Brooks, Richard Sakai. Questi li mostrò poi a Ken Estin, produttore del Tracy Ulmann Show che dichiarò di essere stato lui a suggerire che fosse Groening a realizzare le brevi animazioni che servivano da interstizio tra uno sketch e l’altro.
John Ortved, autore di The Simpsons. La vera storia della famiglia più importante del mondo, ipotizza che entrambe le versioni possano essere vere (Platt suggerì uno special tv, Estin i corti per il Tracy Ulmann). È l’ennesimo episodio ambiguo all’interno di un racconto in cui ogni comparsa, anche la più insulare, vuole ritagliarsi un ruolo di prestigio.
E quindi eccolo lì, Matt Groening, a fare anticamera sperando che Brooks approvasse l’idea di un adattamento di Life in Hell. Come si diceva all’inizio, il lampo creativo che gli fece partorire i Simpson fu tutt’altro che fulmineo.
La vulgata più vicina alla realtà è che Groening avrebbe dovuto cedere i diritti di sfruttamento di Life in Hell, ed essendo la striscia l’unica sua fonte di reddito, era riluttante a farla diventare il mainstream d’altri. Allora seguì il consiglio di Jay Kennedy, editor-in-chief della King Feature Syndicate, che gli aveva suggerito di puntare su personaggi umani, più spendibili. A mo’ di omaggio, Groening scelse “Jay” come secondo nome di Homer. Nell’ufficio di Brooks, Groening ci andò con le idee più che chiare sul suo pitch.
Dall’incontro tra Groening e Brooks si svilupparono I Simpson, serie nata come intermezzo nello spettacolo di Tracey Ullman (la comica, come molti altri, avrebbe rivendicato la paternità dello show una volta raggiunto il successo, dichiarando: «Ho allattato io quei piccoli diavoli»), e poi diventato programma di punta della neonata Fox.
La sofisticazione delle sceneggiature, la tenuta degli episodi a fronte di visioni ripetute, quel flusso magmatico di umorismo scemo e citazioni dotte hanno reso I Simpson un oggetto culturale esaminato fino allo spasmo (nelle librerie è possibile trovare saggi e volumi che declinano il cartone attraverso ogni ramo del sapere, dall’economia alla fisica, passando per la matematica, la politica, la religione, la filosofia). All’alba della sua trentesima stagione, è oggi uno show svuotato del fascino originale, ma è il prezzo da pagare per essere diventata la serie televisiva più longeva di sempre.
Nel 1999, su insistenza del network che agognava un altro successo firmato Groening, nacque Futurama, commedia fantascientifica in cui il giovane Philiph J. Fry finisce nell’anno 3000.
Grazie all’apporto del co-creatore David X. Cohen, Futurama è, se possibile, un prodotto tanto stratificato quanto lo erano i Simpson nelle prime stagioni. Nel calderone di ispirazioni in cui bollono gli episodi (Guida galattica per autostoppisti è il modello più evidente) c’è spazio per cinismo ma anche tanto cuore, in una ricetta che non fece altrettanta presa sul pubblico ma si guadagnò il sostegno di fedelissimi che la sostennero attraverso le numerose chiusure.
Problemi di paternità
Più si leggono le cronache più appare chiaro quanto I Simpson e Futurama siano figli di tanti altri padri e che Matt Groening, di questi padri, non sia stato nemmeno il più cruciale.
Come l’aneddoto iniziale dimostra, la storia de I Simpson è zeppa di storture e distorsioni che servono a rimettere nei ranghi vicende imperfette. Negli anni si sono aggiunte dichiarazioni che sono servite a modificare il passato o a ricontestualizzarlo, riempiendo di senso i gesti creativi più banali.
Succede in tutte le grandi imprese. Pensate a un grande marchio – Apple, Facebook, Marvel, Disney, Guerre Stellari – e dietro di esso vi sarà sempre una genesi articolata che mette in disparte i contributi di più persone in favore di un’unica figura accentratrice di tutta la creatività. Lo schema si ripropone identico nella carriera di Groening.
Ecco allora che Marge, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto nascondere sotto la cofana di capelli blu due orecchie da coniglio (idea subito cassata dalla writers’ room), la testa appuntita di Bart è così perché «come Topolino e Batman, volevo che il profilo dei personaggi fosse iconico e distinguibile da chiunque», e l’altrettanto peculiare color giallo della loro pelle fu scelto «per renderli immediatamente riconoscibili così che, facendo zapping in tv, lo spettatore non li avrebbe confusi con nient’altro» mentre invece fu Gyorgyi Peluce, una colorista in forze allo studio Klasky Csupo che animò lo show nelle prime stagioni, a scegliere il pigmento. In trent’anni di interviste, Matt Groening ha citato la donna soltanto in un’occasione, in un’intervista del 2007 a Playboy.
Sono stati James L. Brooks (da tutti indicato come colui che introdusse il sentimento nello show, spingendo più storie possibili su Marge e Lisa), ma soprattutto Sam Simon e il gruppo di autori chiamati da quest’ultimo a definire l’universo di Springfield.
«Leggo libri su Star Trek in cui Roddenberry non è per forza la mente di tutto, oppure su Il padrino in cui c’è Coppola e un gruppo di altre persone. È una grande collaborazione» dice Jay Kogen in The Simpsons. La vera storia della famiglia più importante del mondo. «Ma è una versione difficile da raccontare alla stampa. A loro piace trasformare le persone in celebrità, e così prendono un tipo e dicono: “Questo è il tizio che l’ha fatto” e alla fine hanno una bella storia.»
Sam Simon si dirà estremamente risentito della situazione. Nonostante la sua cerchia tentasse di consolarlo – dicendogli, ad esempio, che chiunque, se fosse giornalista e dovesse scegliere tra due titoli, “Produttore di successo e rinomato sceneggiatore producono uno show divertente” o “Artista alla canna del gas vince la lotteria e ora è il re della televisione”, opterebbe per il secondo – la poca notiziabilità dei propri sforzi non era una faccenda che avrebbe accettato con qualche pacca sulla spalla. Molto più terapeutico era scriverne, magari coinvolgendo l’oggetto dello scorno, ovvero I Simpson.
Agli inizi degli anni Duemila, uno degli autori storici del programma, Mike Reiss, fu chiamato dall’università della Virginia a tenere una lezione sulla scrittura comica. In quel frangente raccontò che Flambé Boe, un celebre episodio della terza stagione in cui Homer inventa un nuovo drink che il barista Boe brevetta derubando l’amico di fama e ricchezza, era basato su fatti reali. Secondo lo sceneggiatore, Simon era Homer, il creatore di una miscela gustosissima, e Groening era Boe, un amico che, senza particolare malizia, si appropria della ricetta e del successo derivante. Quando gli chiesero in che modo Groening contribuisse alla serie Reiss rispose: «Come Walt Disney ha contribuito a Toy Story».
Non è nei dialoghi, nelle storie o nei disegni che risiede la sua influenza maggiore. Che si parli di Life in Hell, de I Simpson, Futurama o Disincanto, i lavori di Groening sono tenuti insiemi da una sfida al potere, da una ribellione intrinseca che sono il tratto più caratterizzante e, in ultima analisi, la cifra stilistica dell’autore.
«Quello che Matt Groening ha portato ai Simpson è l’idea di base – la versione distorta di un nucleo famigliare – gli elementi di design originali, e il suo sguardo del mondo» spiega a Fumettologica John Ortved. «Si può tracciare facilmente una linea che va da Life in Hell e arriva a Bart (irriverenza verso le istituzioni, tormenti esistenziali, sfiducia nell’autorità, scioltezza e disinvoltura)».
Matt Groening 30 anni dopo
Con tre show realizzati nell’arco di tre decenni e la propria firma scolpita a vivo nell’immaginario pop, è possibile per Groening essere ancora il ribelle che lavorava all’interno del sistema, come predicava il Rozz Tox Manifesto, o la patina rivoluzionaria è stata scalfita a colpi di cestini per il pranzo con l’effige di Homer?
È ancora in grado di scrivere quelle strisce piene di «rabbia e disperazione per la mia situazione esistenziale», realizzate in un appartamento «pulcioso», situato in una zona così malfamata della città che la fidanzata non lo passava a trovare dopo il tramonto e la notte era riempita dal suono degli elicotteri e delle sirene della polizia?
«Non è che le paure umane se ne vanno via solo perché il mio problema più grande è diventata l’infestazione di molluschi sotto lo yacht» disse a Mother Jones.
Life in Hell continuò fino al 2012, passando per un cambio di nome – Life is Swell, dopo le elezioni di mediotermine del 2006 – ma mantenendo lo sguardo desolato degli inizi. «Penso si debba intrattenere lo spettatore prima di sovvertirlo» spiegò in un’intervista del 1991 al The Comics Journal. «Anche se, invecchiando, la sovversione sta diventando un punto di domanda. Non so se questa roba sia in grado di cambiare l’opinione delle persone. Alla meglio, penso che dia conforto a persone con cui sei già d’accordo».
Se sia ancora viva quella scintilla di necessaria espressione non è dato saperlo, ma se c’è una cosa che trentacinque anni di Life in Hell, seicento e rotti episodi de I Simpson, sette stagioni di Futurama e la creazione di un nuovo show di fronte a una (supposta) sazietà creativa hanno dimostrato è che in tutta la sua carriera Matt Groening ha ostinatamente smentito il mantra che declamava David Byrne in Artists Only: «Non devo dimostrare di essere creativo!».