All’inizio di agosto gli X-Men sono passati attraverso l’ennesimo terremoto narrativo. A questo giro la mano è toccata al fenomenale Jonathan Hickman che, con il suo consueto amore per le narrazioni enormi e fuori da ogni parametro misurabile, si è ritrovato a scrivere la «la scena più importante nella storia degli X-Men». Uno slogan foriero di enormi promesse, quasi impossibili da mantenere per la gran parte dei personaggi del comicdom statunitense. Eppure, se c’è una serie in grado di mantenere una simile aspettativa facile che si parli dei ragazzi del professor Xavier.
Dalla loro comparsa nel lontano 1963 i mutanti di casa Marvel sono sopravissuti a crisi di ogni tipo, sia all’interno della narrazione che fuori, passando da essere idoli assoluti a paria completi e viceversa per un sacco di volte. Una delle anomalie della loro storia che si ricorda con maggiore affetto è la gestione affidata alla strana coppia Joss Whedon/John Cassaday, di cui a luglio è ricorso il quindicesimo anniversario dalla pubblicazione del primo numero.
Un regista/showrunner televisivo messo alla guida di quella che per più di un decennio era stata la testata ammiraglia dell’intera Marvel, coadiuvato da un disegnatore in grado nello stesso anno di pubblicare un volume per Les Humanoïdes Associés e di dare corpo alle follie del Planetary di Warren Ellis. Eppure all’epoca non era così sicuro che tutto andasse per il verso giusto. Una coppia di autori simili al lavoro su di una testata strutturata come gli X-Men oggi sarebbe vista come una scelta facile – male che vada ne esce una storia scialba ma comunque ben scritta e disegnata – ma nel 2004 dovevano ancora succedere tante.
Tipo The Avengers, il primo crossover cinematografico, che avrebbe finito per incassare più di un miliardo di dollari. Un evento non da poco, ma che forse senza Whedon alla regia non sarebbe stato un tale successo. A rivederlo oggi, dopo il gigantismo esasperato e perfetto dei fratelli Russo, il film pare davvero una cosina da poco. Quattro grossi pupazzoni – più due ospiti – che bisticciano inguainati in costumi imbarazzanti.
Eppure, aldilà dell’aspetto produttivo già di per sé parecchio complesso, The Avengers rimane una delle sortite più autoriali di una macchina altrimenti genuflessa al produttore demiurgo. La ricetta per il disastro annunciato c’era tutta. Non un protagonista, ma sei. Immaginari piuttosto sopra le righe – dèi norreni, supersoldati, energumeni verdi – che convivono nella stessa pellicola. E poi la richiesta di consegnare al pubblico un qualcosa di spettacolare e che rappresentasse una pietra miliare del blockbuster.
Dei tre aspetti appena citati quest’ultimo probabilmente è quello che meno interessava all’uomo destinato a scrivere e dirigere la pellicola. E infatti visivamente non c’è nulla che renda la battaglia di New York in chiusura al film qualcosa di straordinario. Il folle Transformers 3 era uscito un anno prima e segnava un traguardo di barocchismo visivo ancora insuperato. Una sorta di frattale in CGI dove tutto è in costante movimento tranne il flusso della narrazione. Rispetto ad autori esperti come Michael Bay, Whedon veniva dalla televisione, e si vedeva.
Peccato che lui stesso avesse contribuito a cambiarla per sempre – con un paio d’anni di anticipo rispetto a una pietra miliare come I Soprano – con la sua Buffy. Come per il kolossal che veniva chiamato a orchestrare, anche in quel caso le premesse erano al limite del ridicolo: una sorta di teen horror a base di vampiri e amori adolescenziali, con toni da commedia e richiami a ogni genere cinematografico. Sembra la ricetta media del classico prodotto young adult impacchettato con quattro soldi dal network di turno, eppure quello che ne uscì fu una serie epocale. Adorata ancora oggi – e a ragione – da legioni di fan.
Ma qual’è il grande segreto di Whedon? Come riesce a partire da spunti di partenza così plasticosi e a trasformarli in opere che riescono a conquistare il loro pubblico come pochi altri riescono a fare? Sarà per la splendida alchimia tra dialoghi brillantissimi, per i grandi personaggi, per la capacità di parlare di temi profondi sfruttando senza nessuna forma di pudore la narrazione di genere, per il palpabile amore per il cinema fantastico o per il continuo fluire di idee e trovate che contraddistinguono le sue creazioni. O forse perché Joss Whedon è un nerd di una razza rarissima, uno di quelli a cui piacciono le persone e che si rifiutano di chiudersi in loro stessi giochicchiando con la lanetta del proprio ombelico.
Non a caso, negli Avengers c’è più attenzione ai siparietti che ci descrivono lo svilupparsi dell’alchimia tra i protagonisti rispetto alle scene catastrofiche. Perché da una parte ci sono individui in carne e ossa, dall’altra pixel che simulano palazzi che crollano. Sarà anche cinema di pupazzetti, ma l’attenzione è tutta per i personaggi che lo popolano. Whedon non è un mostro di tecnica e non ha un occhio cinematografico capace di farlo soprassedere alla sceneggiatura, eppure le sue opere hanno molta più concretezza di tanti giochetti messi in piedi da virtuosi shooter al soldo del produttore di turno.
Dopotutto è proprio Whedon che ha suggerito alla Marvel di scritturare un cane sciolto come James Gunn per i Guardiani della Galassia. Alla stessa maniera non ha avuto molti problemi a manifestare il suo fastidio quando la Marvel ha deciso di scaricare Edgar Wright dalla produzione di Ant-Man. Rispetto a un Alan Taylor qualsiasi si tratta di due autori nel senso più compiuto del termine, pagati per scrivere oltre che per dirigere il loro film.
Oggi come oggi tutti questi aspetti della personalità di Whedon sono chiari a tutti e anche nel mainstream più generalista il suo ormai è un nome di quelli masticati da chiunque. La cosa forse era meno scontata nel 2004 – sebbene la sua carriera televisiva fosse già al culmine – quando la Marvel decise di affidargli una run degli X-Men. Un compito non da poco, reso ancora più spaventoso dal fatto che le sue storie sarebbero arrivate immediatamente dopo quelle della gestione Morrison-Quitely. Forse il ciclo più profondo, cervellotico e visionario dell’intera carriera dei mutanti.
Per fortuna all’epoca la dirigenza Marvel non veleggiava a vista come quella odierna e l’operazione assunse subito i connotati di un piano ben congegnato. In primo luogo la serie fu definita fin dalla testata in copertina come qualcosa di completamente nuovo – da “New X-Men” si passava a “Astonishing X-Men” -, in secondo luogo le matite furono affidate, come detto, a Cassaday. Nel suo realismo forse il disegnatore stilisticamente più lontano dai grafismi dello scozzese che lo aveva preceduto, eppure altrettanto abile nel costruire tavole spettacolari e memorabili.
Con un partner simile Whedon si sarebbe potuto permettere di tutto, e invece scelse la via più basilare. Nella lunga run che aveva in testa non c’era spazio per voli pindarici o esperimenti astrusi. Spesso la parola professionista viene usata a sproposito, per indicare un lavoretto ben fatto, senza infamia e senza lode. Le sceneggiature tessute dallo scrittore danno invece autentico significato all’aggettivo.
Dopotutto parliamo di un ragazzotto passato dalla writers’ room di Pappa e ciccia a contribuire a Toy Story e arrivato a scrivere fumetti dopo aver fatto da showrunner a tre serie televisive per un totale di tredici stagioni, spesso e volentieri sovrapposte tra di loro. Come ci si aspetterebbe da uno abituato a portare avanti uno sforzo organizzativo e creativo in un contesto ultracorporativo come quello dei grandi network, l’approccio fu solido come un blocco di granito.
Sapendo di arrivare dopo una gestione di rottura come quella di Morrison, l’idea di un ritorno alle origini fu tanto scontato quanto funzionale. Così il primo ciclo di storie si pose subito come una specie di bigino della serialità: c’era una idea grossa e sorprendente a fare da motore a tutti gli snodi narrativi, il ritorno di un personaggio amato, tensione tra i soliti noti, spettacolarità quanto basta, la solita cura nei dialoghi e tutti gli agganci di rito con quello che sarebbe arrivato più avanti. Il tutto riassumibile in un pugno di parole: «E se la stanza del pericolo volesse uccidere DAVVERO gli X-Men?».
Riuscite a immaginare un pitch migliore per la vostra prima storia sulle pagine della testata mutante per eccellenza? Dentro c’è tutto: un elemento ampiamente noto, radicato nella cosmologia dei personaggi e amatissimo dai fan, viene sovvertito nella maniera più elementare possibile, togliendo ogni ambiguità e lanciando il nocciolo della vicenda alla velocità di un proiettile verso i lettori. Al contempo si prepara il campo per speculazioni di ogni tipo, mentre lo scenario per il colpo di scena finale è pronto per essere sollevato al momento opportuno. Il tutto nascosto in una domanda da fan demente, quasi buffa nella sua basicità.
Non conosco modi migliori per vendere una storia al suo pubblico. Whedon sarà nato come super-appassionato di fumetti, ma la sua formazione è tutta televisiva, e lo si capisce dal rigore con cui portò avanti tutte le vicende dei mutanti. Quadrate, solide, dirette. Cassaday, da aspirante regista ed ex studente di cinema, capì l’andazzo e rincarò ulteriormente la dose. Se in una vignetta due tizi si menano, nella vignetta ci sarà solo quello. La scelta delle inquadrature era sempre calcolata e, nonostante la passione del disegnatore per anatomie e fisionomie realistiche, tutto era asciugato e privato di ogni distrazione. Questo ebbe due risultati: la narrazione già fluida dello sceneggiatore proseguì praticamente ad attrito zero e, quando irrompevano, le splash-page spettacolari risultavano davvero come tali.
La trama principale è praticamente priva di slanci visionari o di quelle soluzioni che ti fanno cadere la mascella a terra, ma procede semplicemente diventando sempre più grossa. Dalle battaglie nella X-Mansion mano a mano l’inquadratura si allarga e si finisce a combattere su altri pianeti, in una sorta di epopea galattica. Nel frattempo è tutto un susseguirsi di cliffhanger e di personaggi che sgranano gli occhi scorgendo qualcosa di sconvolgente fuori campo. Il lettore viene risucchiato da trame che si intrecciano tra loro in maniera organica, mentre il catastrofico gran finale appare sempre più vicino.
Whedon e Cassaday non volevano ribaltare la mitologia dei mutanti, ma consegnarne la migliore versione possibile senza allontanarsi un millimetro dal canone. Si tratta dello stesso iperclassicismo del Daredevil di Mark Waid e Paolo Rivera o del Superman di Grant Morrison e Frank Quitely. Dopo anni di revisioni coatte e spesso prive di un solido fondamento fu la squadra dietro ad Astonishing X-Men a capire che a tornare a contare dovevano essere le grandi avventure, ricche di emozioni e di divertimento.
Non c’è bisogno di dire che a tirare le fila di tutte le vicende erano soprattutto personaggi di sesso femminile, uno dei tratti più distintivi dello scrittore. Autentica protagonista di tutta la run è Kitty Pryde, andando a chiudere un cerchio iniziato dodici anni prima. Per stessa ammissione dell’autore la tormentata mutante era stata la principale fonte d’ispirazione per Buffy. Questo diede oltretutto all’autore la scusa per riallacciarsi alle storie di Chris Claremont, molto più vicine alla sensibilità di Whedon rispetto a quelle di Morrison.
Sulle pagine di Astonishing X-Men ritroviamo Kitty più adulta e indurita dal tempo, con un enorme peso sulla coscienza per essere sopravvissuta al genocidio di Genosha. Ideata da Chris Claremont e John Byrne come minorenne nel 1980, per anni era rimasta imprigionata in un corpo che non le consentiva – per ragioni legali – di concedersi completamente all’amore. Nella gestione di Whedon sarebbe stato impensabile limare un aspetto così fondamentale nella costruzione di un personaggio, così finalmente la vediamo acquistare una profondità e una femminilità che la elevano a qualcosa di più dell’eterna “migliore amica”.
Alla stessa maniera vediamo Emma Frost piangere, nonostante un tasso di stronzaggine ancora più elevato del solito, e dimostrarsi l’autentica leader della squadra mutante. Ciclope se la passa male in un paio di occasioni, sfoderando una pellaccia più coriacea di quello che ci si aspettava, mentre finalmente Wolverine è relegato sullo sfondo. Non me ne voglia il canadese, ma anni di iper-presenzialismo lo hanno spesso ridotto a una maschera di se stesso, svilendolo alla figura del personaggio “duro dal cuore tenero” con la battuta – scontata – sempre pronta.
Sempre in piena poetica whedoniana lo slot del tipo tosto viene invece occupato da un altro personaggio femminile, nato oltretutto proprio su queste pagine. Abigail Brand, comandante dell’organizzazione di difesa interplanetaria S.W.O.R.D., una sorta di S.H.I.E.L.D. su scala cosmica. Com’è facile immaginare, la donna alla guida di un apparato militare simile non poteva che essere una sorta di Nick Fury all’ennesima potenza. Una macchina da guerra capace di coordinare senza minima esitazione migliaia di uomini, di prendere scelte in situazioni critiche mantenendosi comunque fredda come un blocco di ghiaccio, di fronteggiare minacce proveniente dall’altra parte dell’universo e di sfoderare di volta in volta nuove competenze.
Un personaggio a dir poco bidimensionale, che si salva all’ultimo minuto, dimostrandosi tutt’altro che scontato. Se in un primo momento sembrerebbe di avere a che fare con la classica donna di ferro desessualizzata – uno dei cliché più terribili di tutto l’intrattenimento – lo sceneggiatore ribalta tutto prima della chiusura dell’ultimo numero. E così assistiamo a una delle dichiarazioni d’amore più strane di tutta la storia della Marvel, in cui la Nostra non solo non perde un grammo della sua durezza ma riesce anche a dimostrarsi molto più sanguigna e passionale di tante colleghe ammiccanti a tutti i costi. Si tratta di una scena minuscola nell’economia dell’intera run, ma l’intelligenza con cui viene giocata ci mette in condizione di ribaltare tutti i preconcetti su di un personaggio fino a quel momento piuttosto dimenticabile.
Peccato che la sua resa grafica rimanga invece una delle cose più sciatte di tutto l’arco narrativo, limitandola a una sorta di bellezza convenzionale da fumetto e limitando i tratti distintivi ai capelli verdi e a un paio di Oakley scadenti. Nonostante le belle parole spese poco sopra per il disegnatore texano va comunque fatto notare che la capacità di generare mondi capaci di stupirci non è proprio nelle sue corde. L’alieno Ord, uno degli antagonisti principali della storia, e il suo pianeta Breakworld sono esteticamente scialbi e tutt’altro che visionari. Se la regia non sbaglia un colpo, la direzione artistica della serie non riesce mai a graffiare come dovrebbe e spesso lo sfondo rimane tale.
Se si pensa alla potenza iconica emanata anche solo dalla prima copertina di New X-Men di Quitely il confronto è impietoso. In quell’occasione la nuova formazione del principale supergruppo di mutanti avanzava minacciosa in controluce, nascondendoci i tratti del volto ma mettendo in luce le anatomie dinoccolate e le nuove uniformi. Aggressive come non mai, oltre che innegabilmente fighe (bastino le x sul dorso delle mani, come se si trattasse di una band HC straight edge). Al confronto le tutine in latex di Astonishing X-Men hanno un che di naïf e romanticamente fuori tempo massimo, come se tutti gli agganci alla gestione Claremont non fossero sufficienti.
Sulla copertina del debutto della nuova testata i nostri eroi corrono verso il lettore, in una classica formazione da supergruppo. I volti tesi per la tensione, le braccia protratte in avanti. Unico autentico punto di interesse è la geometria del fascio rosso di Ciclope. Per il resto nulla che non si sia mai visto tante altre volte. In realtà l’unico momento di tutti e questi ventiquattro numeri dove una trovata grafica lascia il lettore a bocca aperta per lo stupore è proprio nello svelarsi della minaccia definitiva, che funziona proprio perché priva di immaginazione, fino al paradosso.
Nonostante tutto Astonishing X-Men rimane una gran serie, una di quelle che dovreste consigliare al vostro amico che vi chiede qualcosa per cominciare a leggere fumetti. Ha un inizio chiaro e una conclusione soddisfacente, preceduta da un grandioso climax costruito ad arte. Non c’è nulla che per essere goduto debba essere contestualizzato o riletto alla luce di chissà quale cultura pregressa.
Si tratta di una sequela lunga ventiquattro numeri di minacce sempre più grosse, battibecchi divertenti, svolte drammatiche mica da scherzo e una gestione del ritmo al limite della perfezione. Scritta bene, dando sempre la precedenza al cuore dei personaggi rispetto all’ego degli autori. Nulla di più, nulla di meno. Non vi aprirà gli occhi su nuovi universi, ne vi dimostrerà come i limiti di un linguaggio possano essere spostati un passo più in là di quanto credevate. Ma se vi interessano grandi avventure, piani rocamboleschi ed eroi dai costumi sfavillanti allora avete trovato quello che cercavate.
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