di Massimo Galletti
Il 15 aprile 1919, esattamente cent’anni fa (a Montevideo, in Uruguay), nasceva Alberto Breccia. Il 15 aprile 1919 il fumetto moderno, quello che si ama datare con Outcault e l’apparizione delle sunday page sui quotidiani americani, ha già vissuto il suo primo quarto di secolo. Ha già fatto in tempo a celebrare il massimo della sua libertà creativa, i McCay, gli Herriman, l’epoca d’oro dei pionieri, e poi ad ingabbiarla nel meccanismo seriale dei Syndacate produttivi e distributivi.
Alberto Breccia muore nel novembre del 1993, quando il fumetto moderno ha quasi raggiunto i suoi primi cent’anni di vita. Nei restanti tre quarti di secolo del secolo dei fumetti, il Novecento, Breccia passa la sua vita a combatterla e liberarla, quella gabbia. Come forse nessun altro. Definitivamente. Per tutti.
Prima a lavorarla ai fianchi, costruendosi. Nei lunghi anni del fumetto come lavoro, come studio e anatomia, come emancipazione personale dalla povertà e dal lavoro di fatica, come pura professione. Poi ad aprire strade, a sperimentare, a dare dignità espressiva e contenutistica, a pretendere e ottenere dignità culturale senza compromessi, a insegnare, a farsi maestro di allievi futuri maestri, nell’età dei capolavori più celebrati e rivoluzionari.
Infine a regalarsi totale libertà espressiva, di scelta di cosa e come raccontarlo, di togliersi voglie personali a cui non servono più soggettisti e sceneggiatori, solo opere già scritte da riscrivere, reinventare, approfondire, annotare a margine, in un senza limite che ancora indica strade tuttora da esplorare, negli anni finali, suoi, e del secolo del fumetto: il Novecento.
Alberto Breccia nel 1962, da quel pezzo di mondo eternamente conquistato ed eternamente tenuto ai margini ed eternamente impoverito che è l’America latina, con Mort Cinder ha fatto la rivoluzione, quella vera. Quella che una volta che uno una cosa l’ha fatta, non si può rimuovere, è lì, ha dimostrato che si può, e allora altri verranno a imparare la lezione e portarla avanti a modo loro.
Vogliamo provare a pensare a cos’era il fumetto nel mondo, libertà di segni, profondità di temi, prima del Mort Cinder di Breccia e Oesterheld? Europa, Nordamerica, Giappone, maestri ne abbiamo tanti, segni espressivi, storie importanti, ma sempre varianti significative inserite in fumetti con loro forme classiche, di segno, di scrittura, di genere, di avventura.
Verrà il Sessantotto, ma il Sessantadue viene prima. Diamo a Oesterheld quel che è di Oesterheld, i due non si sono di certo scelti per caso, e diciamo che Mort Cinder è prima di tutto un corpus di storie in cui come mai prima il fumetto ha momenti di forza dolente e profonda, lontana dai generi e piena di quel reale che la letteratura più celebrata ha regalato al Novecento. Se quello che proprio nell’inizio del nuovo secolo chiameremo graphic novel non è tanto un formato editoriale ma soprattutto un affrontare col fumetto temi alti e altri, allora forse Mort Cinder, con certi suoi racconti, con il suo spirito più profondo, è la vera lezione d’inizio di una rivoluzione a venire.
E se lo è, non a caso nella collaborazione con lo scrittore che già ci aveva regalato quell’altro progenitore diversamente importante che è L’Eternauta, lo è anche e soprattutto nella scrittura, nei tempi, nella secchezza del racconto. E nella punteggiatura magistrale che le celebri rasoiate di china di Alberto Breccia donano al racconto, in quei volti e corpi scavati a rughe che sanno di carne viva.
Breccia in Mort Cinder porta per la prima volta in un fumetto la lezione di un secolo di pittura: nelle figure umane impressionismo ed espressionismo, senza nulla negare alla classicità del racconto; nei paesaggi di natura e città tutta la lezione dell’altro Novecento, iniziando a trovare momenti in cui inserire addirittura cose vicine all’astrazione a rendere il percepito più realistico del didascalico.
Sarà il decennio della collaborazione con Oesterheld, e mentre la seconda parte dei Sessanta nel mondo sarà l’inizio di fermenti culturali fecondi e stagioni nuove, anche il fumetto non sarà da meno. Per l’Argentina, dove Breccia e Oesterheld vivono, saranno anni di dittature feroci. Non è certo un caso se i libri di Breccia di quegli anni anni – sempre con Oesterheld – sono Vita del Che e una nuova scrittura di El Eternauta. Quando si può gli esperimenti continuano. I mostri alieni del nuovo Eternauta sono esperimenti grafici estremamente efficaci, che preparano a Cthulhu.
Oesterheld viene ammazzato dalla dittatura, il lavoro innovativo di Alberto Breccia in patria non riscuote successo, né economico né di critica, ma c’è chi lo ama e lo riconosce maestro. E i suoi lavori iniziano a essere pubblicati e apprezzati in Europa, prima alcuni più tradizionali dove però l’eleganza del segno è già grande, poi, nell’era delle riviste, con dieci anni di ritardo arriva anche in Europa, e in Italia, Mort Cinder. E c’è da subito anche qui, in Europa e in Italia soprattutto, chi lo ama e lo riconosce maestro.
I libri di Alberto Breccia, faticosamente, escono anche in edizione italiana, già allora. Ed escono per case editrici episodiche, o di settore, che hanno dietro nomi che dicono molto della stima e dell’amore che la parte più attenta del fumetto italiano nutre per Breccia. Nomi come Luigi F. Bona per la prima edizione di Mort Cinder, o come Luigi Bernardi per I miti di Cthulhu e El Eternauta, o più tadi Perramus. O nomi come gli amici italiani ma un po’ argentini Dario Mogno o Alvaro Zerboni.
Sono libri (inseriteci pure molti anni dopo il Che della Topolin di Jorge Vacca) che ancora oggi presi in mano ad anni di distanza trasudano l’emozione di chi li ha costruiti e stampati. Sempre operatori illuminati, mai grandi editori (ma Milano Libri e le sue riviste, depositari storici della parola cultura accettata insieme alla parola fumetto nel fine Novecento italiano, a Breccia non potranno essere indifferenti, e ne pubblicheranno molti racconti brevi).
Sono i destini di un autore come Breccia, che sta sempre un passo avanti, o un passo da un’altra parte. Breccia rivoluziona i fumetti ma, negli anni in cui i fumetti iniziano a usare in mille modi le sue rivoluzioni, lui se ne va da solo per progetti suoi. I Settanta sono gli anni dei racconti brevi e del sodalizio con l’astro nascente della sceneggiatura argentina Carlos Trillo. Breccia li usa per abbandonare quasi definitivamente la figurazione classica. I personaggi iniziano a diventare macchie spesso grottesche e dilatate, i paesaggi giochi sbilenchi, il segno alterna campiture forti, riferimenti satirici, inserti grafici, veri e propri collage.
Ma le storie rimangono meccanismi perfetti di tempo e ritmo, e insieme ai suoi sceneggiatori Breccia sempre sceglie di raccontare storie di umanità e di deboli, a volte persino infami, ma umani.
Come umani sono i protagonisti delle storie e degli scrittori che Breccia si sceglie per i suoi adattamenti da opere letterarie, umani nei loro solitari labirinti di follia. Breccia sceglie questo registro per sfidare nei racconti a fumetti l’astrazione sempre più pura: protagonisti dei racconti che diventano sagome intuibili perse in labirinti a vignette di volumi, macchie, agglomerati tra i più diversi di neri e grigi in cui avanzare, narrarsi e perdersi.
Gli Ottanta sono il decennio del ritorno al grande romanzo politico. Satira e poesia si mischiano in un enorme affresco dell’eterno Sudamerica e delle sue contraddizioni. Le macchie di grigio si ricompattano quel minimo indispensabile in universi e character che devono saper essere anche iconici e narrativi. La collaborazione con lo scrittore Juan Sasturain lascia in gran parte a Breccia l’istinto del fumettare, e sono 500 pagine di invenzioni continue.
Gringos e capitalisti e dittatori e un circo fantasmagorico di potere e soldi e l’illusione di opporvisi di un gruppetto capitanato da un finto Borges e da un uomo, Perramus, che porta il nome della marca del cappotto che indossa. Un circo divertito e disilluso che è una inevitabile parabola finale, a cui è giusto che Breccia aggiunga invece un epilogo più intimo. Come se la sua vita fosse una sceneggiatura, un ultimo adattamento, Rapporto sui ciechi, da un capitolo di un libro di Ernesto Sabato, un’ultima storia di follia, un’ultima narrazione a perdersi in un percorso di vignette sempre più astratte, il testamento di un’ossessione.
«Il fumetto è bianco e nero.» Gliel’ho sentito dire. L’ha messo in pratica come nessuno, ma con infinite tonalità di grigi. Poi, in verità, quando ha provato i colori, le fiabe di Trillo, certi adattamenti, è stato enorme comunque.
Per raccontare il mondo ha scelto sceneggiatori e personaggi testimoni che si aggirano tra i potenti e i diseredati e la storia e l’attualità. Winston e Borges, L’acchiappastorie e Daneri e Perramus capitano, ascoltano, non giudicano, svelano.
Per esprimere segno a fumetti Breccia ha portato il Novecento artistico nella narrazione così compiutamente che leggiamo stupefacendoci e tirando via. Per ognuna di queste strade non ha mai scelto la strada semplice che desiderava il lettore, ha sempre, sempre, scelto quella complessa e che portava il lettore dove voleva lui.
Alberto Breccia.
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