Lo sceneggiatore americano Chris Claremont sarà presente come ospite a Lucca Comics & Games 2019 (30 ottobre – 3 novembre), in collaborazione con la casa editrice Panini Comics.
Quando ero un ragazzino alle prime armi con l’universo Marvel, c’era una particolarità ricorrente nelle storie degli X-Men di Chris Claremont che mi faceva entusiasmare: le grandi vignette (che a volte diventavano splash page) in cui i personaggi della storia – sia eroi che antagonisti – venivano messi in scena tutti insieme e presentati, attraverso la “voce” di un qualche personaggio o piccole didascalie.
Questa soluzione narrativa, molto teatrale nella messa in scena, mi dava l’idea di essere il benvenuto in quel mondo. I personaggi venivano presentati per rendermi più confortevole la permanenza e garantirmi famigliarità, in un periodo in cui molti fumetti americani erano composti da lunghissime saghe in stile soap-operistico dove non era sempre facile, e forse nemmeno gradevole, ‘entrare’. Con quelle pagine riuscivo a sentirmi spettatore di uno spettacolo, nonostante gli X-Men di Claremont furono per anni – ben 16, dal 1975 al 1991 – l’esatto paradigma di questa modalità iper-diluita di racconto.
Da Londra alla Marvel
Nato nel 1950 a Londra in una famiglia di origine ebraica, Claremont aveva vissuto i suoi primi anni in un kibbuz israeliano, prima di trasferirsi con i genitori negli Stati Uniti, per la precisione a Long Island, all’età di tre anni. Crescendo, i suoi passatempi preferiti divennero da una parte i fumetti – Superman e Batman in particolare – e dall’altra la narrativa, soprattutto fantascientifica.
Dopo il liceo, iniziò a studiare scienze politiche e recitazione. Giovanissimo, nel 1969 trovò lavoro in Marvel come assistente di redazione – con mansioni da “tuttofare” –, grazie a un amico di famiglia, ma il suo obiettivo restava la recitazione. Così, di giorno preparava il caffè per editor e autori, di sera calcava occasionalmente qualche palco: «Interpretai John Hancock in 1776 in un teatro-ristorante di Charlotte», avrebbe ricordato l’autore, pur specificando che «in realtà, io ero il sostituto».
La carriera da attore non decollò mai, mentre quella nel mondo del fumetto sì, e anche in modo piuttosto repentino. Nel 1973 pubblicò la sua prima sceneggiatura, per il numero 102 della serie Daredevil and the Black Widow, per poi diventare nel 1975 lo sceneggiatore regolare di Iron Fist su una collana durata 15 numeri e incentrata sulle arti marziali.
Quel lavoro fu importante anche per un altro motivo: lì Claremont collaborò per la prima volta con il disegnatore canadese John Byrne, che avrebbe ritrovato pochi anni dopo sugli X-Men, segnando una delle collaborazioni più importanti della storia del fumetto americano di supereroi. Anche se la relazione professionale tra i due sarebbe stata progressivamente tormentata dai continui scontri (creativi) fra le loro forti personalità: «Il mio rapporto con Chris è cordiale e professionale, ma non voglio più lavorare con lui» avrebbe affermato più volte in seguito lo stesso Byrne.
Intanto, nel febbraio di quello stesso 1975, nelle edicole statunitensi uscì Giant-Size X-Men #1, un albo che rilanciava il super-gruppo mutante creato da Stan Lee e Jack Kirby con personaggi nuovi di zecca: Tempesta, Colosso, Nightcrawler, un certo Wolverine. Il tutto era molto più colorato e dall’aspetto più internazionale (ogni personaggio proveniva da un luogo del mondo differente) ma i temi di fondo erano sempre gli stessi: l’emarginazione sociale, la paura del diverso.
Len Wein, co-creatore di quella nuova formazione insieme al disegnatore Dave Cockrum, fu costretto a lasciare i compiti di scrittura dopo un solo albo, essendo stato nominato nuovo caporedattore di Marvel Comics. E la responsabilità di scrivere le storie dei nuovi X-Men ricadde proprio su Claremont, all’epoca assistente di Wein, a partire dalla storia immediatamente successiva, uscita su X-Men #94 del maggio 1975.
Wein era rimasto molto colpito in particolare dall’entusiasmo e dalla partecipazione che quel giovane sceneggiatore metteva nelle riunioni creative. In realtà, va detto, la testata non era considerata tra quelle importanti per la casa editrice: «nessuno si sarebbe infuriato, se uno scrittore relativamente giovane avesse avuto l’incarico», avrebbe ammesso lo stesso Claremont. «Era un titolo come un altro» disse invece Wein. «Non mi sembrava particolarmente diverso da Brother Voodoo o dal paio di altre serie nelle quali ero coinvolto» (da Marvel Comics – Una storia di eroi e supereroi di Sean Howe, traduzione di Aurelio Pasini).
E invece quella decisione presa per necessità, o forse alla leggera, da Wein, avrebbe avuto conseguenze profonde. Avrebbe cambiato la vita di Claremont, certo. Ma soprattutto avrebbe segnato una pietra miliare nella storia del fumetto americano, con effetti che si sarebbero propagati nei più lontani recessi della cultura pop.
Il successo degli X-Men
Avendo grande libertà creativa, lo sceneggiatore lasciò la propria impronta fin da subito, applicando un metodo “recitativo” alla scrittura dei personaggi e cercando di immedesimarsi il più possibile in essi, a partire da questioni tanto esistenziali quanto ordinarie: «Quali sono i loro obiettivi di vita? Chi lava i piatti? Quale tipo di musica ascoltano?». Il metodo di lavoro di Claremont sarebbe stato descritto in modo preciso anche dal suo editor Bob Harras: «Scriveva interi paragrafi su quello che le persone indossavano. Entrava davvero nei pensieri, nelle speranze, nei sogni di quelle persone». Nel 1979, il Comics Journal coniò per lui forse la definizione migliore possibile, definendolo un “character writer”, uno scrittore di personaggi.
L’approccio di Claremont alla saga mutante fu da “grande romanzo americano”, ma con protagonisti individui che indossano costumi sgargianti, volano e sparano raggi laser dagli occhi. «Gli X-Men hanno sempre parlato del trovare il tuo posto in una società che non ti vuole». Intorno a tutto questo, però, c’era bisogno di una cornice fatta di grandi scene d’azione e battaglie affollate: «Cercavamo di fare fumetti in 70 millimetri, produzioni wide-screen cinematografiche su storie intimistiche».
Nel corso dei successivi 16 anni, Claremont avrebbe collaborato con tutti i più importanti disegnatori dei suoi tempi, dal già citato John Byrne a Frank Miller, da Barry Windsor-Smith a John Romita Jr., da Marc Silvestri a Jim Lee, realizzando saghe fondamentali – e ancora ricordate e celebrate tra le migliori di sempre di casa Marvel, tanto dai critici quanto dai fan – come La saga di Fenice Nera, Giorni di un futuro passato o Massacro mutante.
La lista dei personaggi co-creati da Claremont in quell’arco di tempo è impressionante. Da questo punto di vista era e rimane uno degli autori più prolifici nella storia Marvel, giusto qualche gradino sotto Stan Lee e Jack Kirby: Fenice, Rogue, Psylocke, Kitty Pryde, Mystica, Emma Frost, Moira MacTaggert, Sabretooth, Legione, Sinistro, Gambit, oltre a tutti i Nuovi Mutanti, solo per citarne alcuni tra i più famosi. Sebbene non creati direttamente da lui, anche personaggi come Wolverine, Tempesta, Colosso e Nightcrawler devono molto del loro carattere – se non proprio tutto – allo sceneggiatore di origine britannica.
In un certo senso, si potrebbe dire che Claremont è stato tra i pochi in grado di creare un proprio pantheon all’interno del più vasto universo narrativo Marvel. Sotto la sua cura, gli X-Men sono diventati un grande successo commerciale, e l’universo narrativo dei mutanti si è espanso con il lancio di numerose testate spinoff o collaterali, da New Mutants a X-Factor, passando per Wolverine ed Excalibur.
«Il novanta percento di quello che oggi è collegato agli X-Men fuoriesce dal mio lavoro» ha affermato nel 2000. Inoltre, a tutt’oggi, gli appartiene il record (certificato dal Guinness dei Primati) per il fumetto più venduto della storia dei comics, ovvero X-Men #1 dell’ottobre 1991, disegnato da Jim Lee, con le sue oltre otto milioni di copie. Naturalmente a Fumettologica siamo in molti ad averlo, in qualche angolo delle nostre librerie.
Le storie e i personaggi
Il lungo primo ciclo di Claremont sugli X-Men è stato spesso definito come un’unica, lunga “soap-opera mutante” («Una storia infinita… la vita. Tutto avviene come se i personaggi vivessero realmente» avrebbe dichiarato l’autore in un’intervista a cura di Marco M. Lupoi e Dario Fonti per il n. 22 di Star Magazine, nel 1992). Nelle saghe complesse, talvolta con risvolti sci-fi cosmici, che si susseguirono una dietro l’altra per 16 anni, si trovavano spesso incastonati piccoli momenti privati, dei cambi di passo e di respiro del racconto che suonavano insoliti al punto da finire per essere emozionanti. Emergeva qui il gusto dello scrittore per la prosa più letteraria e teatrale, con monologhi da palcoscenico davvero strani per i lettori abituati al ritmo action dei supereroi ‘standard’. Eppure funzionavano, e il rischio del melodramma era semmai sfiorato: la barra dritta della trama sapeva tenerla bene, Claremont, da buon praticante della narrativa fantastica e di fantascienza. In particolare amava inserire piccoli particolari – incontri, viaggi, pause solitarie all’apparenza insignificanti – da sviluppare con il tempo.
Questa struttura narrativa orizzontale, mescolata al tradizionale plot verticale del singolo episodio, aveva iniziato ad essere sviluppata anche altrove – ma con minor successo – da autori come Paul Levitz, su Legion of Super-Heroes di DC Comics, o Roger Stern, su Avengers della stessa Marvel. Ma nessuno riusciva a tenere quell’equilibrio fra il micro e il macro, e a tenerlo così a lungo, su orizzonti temporali pluriennali. In un’epoca ancora lontana dalla professionalizzazione delle tecniche di storytelling seriale più moderne, Claremont era un faro nella notte. E non solo nel suo mondo di riferimento: il regista e autore televisivo Joss Whedon ha dichiarato più volte – tra i primi professionisti della tv a farlo – che gli X-Men di Claremont erano stati «l’influenza più grande sul mio lavoro». Già:
Buffy l’ammazzavampiri, un cult tra i più influenti della serialità tv (una miccia che accese community di fan adolescenti come non se ne erano mai viste), era raccontato non solo con una cadenza vicina a quella delle storie mutanti, ma la stessa protagonista era inizialmente ricalcata sul personaggio di Kitty Pryde.
Il primo vero apice della gestione mutante di Claremont fu rappresentato da La saga di Fenice Nera, pubblicata nel 1980 su Uncanny X-Men #129-138 per i disegni di John Byrne e incentrata sulla corruzione di Jean Grey – una dei membri fondatori degli X-Men – da parte di una potente entità cosmica nota come Fenice.
Nonostante sia oggi celebrata tra le migliori storie Marvel di tutti i tempi, la saga fu oggetto di controversie, e il suo finale non fu quello desiderato dagli autori (con Jean Grey che avrebbe dovuto perdere tutti i suoi poteri ma restare in vita). L’allora caporedattore Marvel Jim Shooter non volle infatti che Jean Grey restasse impunita dopo aver distrutto un pianeta e sterminato un’intera razza aliena: «Far distruggere a un personaggio un mondo abitato da miliardi di persone, fargli spazzar via una nave spaziale e alla fine, be’, togliergli i poteri e farlo ritornare sulla Terra… mi sembra un po’ come se, alla fine della Seconda guerra mondiale, Hitler fosse stato catturato vivo e gli avessero tolto il controllo dell’esercito tedesco, lasciandolo però libero di andare a vivere a Long Island» (non è chiaro se il riferimento al luogo in cui Claremont era cresciuto fosse voluto o casuale).
Shooter così fece pressioni su Jim Salicrup, editor della testata, perché il finale della storia venisse modificato (nonostante fosse già stato disegnato) e il personaggio si suicidasse per espiare le proprie colpe. Sul momento, Claremont e Byrne accettarono mal volentieri l’imposizione di Shooter, dato che avevano progettato per filo e per segno quella saga per ben quattro anni.
Anni dopo, Claremont avrebbe invece ammorbidito la propria posizione, convenendo sul fatto che quella decisione avesse migliorato la storia, pur continuando a ritenere la morte di Jean Grey un errore. «Purtroppo», avrebbe dichiarato, «si arriva a un punto in cui atteggiamenti e titoli differenti riflettono gli approcci morali e filosofici diversi dei singoli scrittori e disegnatori». In ogni caso, gli albi che composero La saga di Fenice Nera vendettero circa il doppio dei precedenti, e da lì in poi, per oltre un decennio, Uncanny X-Men sarebbe stato costantemente il comic book più venduto.
Negli anni successivi, la serie degli X-Men alternò momenti luttuosi ad altri più leggeri, così come lunghe narrazioni a brevi focus su singoli personaggi. Questi ultimi servivano per far respirare il lettore tra un grande evento e l’altro ma anche per far crescere i personaggi. Molti di questi episodi stand-alone hanno saputo imprimersi nella memoria dei lettori. Basti ricordare Il professor Xavier è un idiota! (disegni di Paul Smith, su Uncanny X-Men #168 dell’aprile 1983), che raccontava le difficoltà dell’adolescenza attraverso il personaggio di Kitty Pryde, o Vitamorte e Vitamorte II (illustrate entrambe da Barry Windsor-Smith e pubblicate rispettivamente su Uncanny X-Men #186 nell’ottobre 1984 e #198 dell’ottobre 1985), incentrate invece sulla crescita umana di Tempesta.
La predilezione di Claremont era in ogni caso per la drammaticità: «La cosa, con gli X-Men, è che vuoi mettere pressione sui personaggi. Vuoi scoprire le loro imperfezioni e sfruttarle per capire come essi rispondono» raccontava nel 1985 a Heidi MacDonald sul The Comics Journal. «La natura melodrammatica del genere richiede quasi che un conflitto negativo sia preferibile a uno positivo. Ci sono, in generale, pochi conflitti positivi. L’angoscia è molto meglio della felicità. Lo dico in parte scherzando, ma è vero. La prima regola del melodramma è far andare male le cose. E la seconda è farle peggiorare.»
Claremont amava davvero lavorare sui personaggi, e per lui era fondamentale che i lettori avessero famigliarità con essi, per cui li costruiva con molta minuziosità e arrivava anche a creare “catchphrase” e onomatopee ricorrenti per tutti loro (fu lui a coniare lo “Snikt”, il suono che emettono gli artigli di Wolverine quando vengono sfoderati). Come sottolineato in particolare da Sean Howe su Marvel Comics – Storia di eroi e supereroi, agli inizi della sua gestione, gli X-Men di Claremont «erano gli abitanti di una casa-famiglia, ognuno dei quali cercava di capire come vivere fianco a fianco con gli altri a dispetto del proprio bagaglio emotivo».
Forse per il background ebraico comune, tra i personaggi preferiti dello sceneggiatore c’era Magneto, il primissimo e principale antagonista degli X-Men, un terrorista sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti che sotto la sua penna trovò una lenta redenzione. Lo sceneggiatore vedeva il Professor X e Magneto come una sorta di versione Marvel di David Ben-Gurion e Menachem Begin: «Io vedo Magneto come il terrorista che un giorno potrebbe evolversi in uno statista». A un certo punto, Magneto sostituì Charles Xavier a capo degli X-Men e si sottopose a un processo per i suoi atti di terrorismo, ma i cambiamenti furono vanificati dalla Marvel, che proponeva il personaggio in altre serie con un’attitudine da malvagio puro, preferendo vederlo in questo modo.
Claremont non rinunciò a dire la sua ultima parola sul personaggio proprio nell’ultima breve saga della sua prima gestione, pubblicata nel 1991 sui primi tre numeri della nuova collana X-Men, con i disegni di Jim Lee. Una storia tutta incentrata sul libero arbitrio e sulla contrapposizione tra le ideologie di Xavier – convinto che l’integrazione tra umani e mutanti fosse possibile – e lo stesso Magneto – che predicava il predominio dei mutanti sugli umani –, in cui alla fine quest’ultimo decideva di sacrificare la propria vita, recitando parole simili a quelle di un testamento artistico: «Sono sopravvissuto a un olocausto. Non potrei tollerarne un secondo. […] Non ho avuto altra scelta che annoverarvi tra i miei nemici. Su questo, non coltivate illusioni» (traduzione di Andrea Plazzi).
Ciao, Marvel
Dopo anni in cui aveva avuto la possibilità di fare praticamente quello che voleva, grazie alla collaborazione con le editor Ann Nocenti e Louise Simonson, con l’arrivo di Bob Harras all’inizio degli anni Novanta arrivarono anche i problemi. Claremont ebbe con lui un rapporto molto turbolento fin da subito: «C’erano cose che io volevo fare, ma che non avrei potuto fare» sarebbe stato in seguito il laconico commento dell’autore. Il nodo della questione era che a Harras non piaceva la tipologia tipica della narrazione di Claremont, con sottotrame che si sviluppavano lentamente nel corso dei mesi, e voleva qualcosa di più esplosivo, in modo da sfruttare anche le capacità di disegnatori emergenti come Jim Lee e Whilce Portacio.
Harras pretendeva che Claremont si limitasse a scrivere i dialoghi delle trame ideate da Lee e Portacio, e inizialmente lo sceneggiatore cercò di fare buon viso a cattivo gioco, finché, nel 1991, la corda si ruppe definitamente, anche a causa di un cattivo funzionamento nelle dinamiche lavorative: «Succedeva che ricevevo sette tavole, poi più niente per una o due settimane, poi altre quattordici tutte insieme. A volte succedeva che mi arrivassero tavole che andavano dialogate e mandate in stampa nel giro di un giorno. Era una situazione da panico». Così, il rapporto ultraventennale tra Claremont e la Marvel arrivò a conclusione, in un modo che probabilmente lui non avrebbe mai immaginato, senza nemmeno un messaggio di commiato o un annuncio da parte della casa editrice.
«È successo che un impiegato e il suo supervisore siano entrati in disaccordo» commentò poi l’autore. «E, in un caso del genere, è tanto chiaro quanto inevitabile che possa accadere una cosa sola: che l’azienda d’istinto appoggi i suoi supervisori.»
«Penso sia inutile dirvi quanto il successo degli X-Men sia dovuto all’opera di questo scrittore di origini inglesi, e quanta importanza abbia avuto X-Chris nella creazione e nello sviluppo di personaggi ormai entrati nell’immaginario popolare americano» affermò invece nel 1994, nell’editoriale del numero 50 di Gli incredibili X-Men, Luca Scatasta – storico editor delle edizioni italiane dei fumetti con i personaggi mutanti dell’universo Marvel – al momento della traduzione delle ultime storie di quel primo, lunghissimo ciclo sugli X-Men.
Nuova (vecchia) vita
«Dopo essermene andato, all’improvviso scoprii di avere varie possibilità, creative e commerciali, che prima non c’erano» avrebbe raccontato qualche mese dopo a Kim Thompson del The Comics Journal. «Avevo idee, progetti, storie che avevo tenuto da parte per dieci anni, nei quali mi ero chiuso nel pensiero: “Be’, ho da fare un X-Men questo mese, quindi non posso concentrarmi su questo”.»
Per quasi tutti gli anni Novanta, Claremont girovagò tra DC Comics, Dark Horse e Image Comics, creando nuovi super-gruppi come i Sovereign Seven o mettendo mano a quelli di altri come i WildC.A.T.s di Jim Lee, alla ricerca di un’alchimia che però sembrava perduta. Nei primi anni del nuovo millennio si riappacificò con la Marvel, scrivendo per un certo periodo i Fantastici Quattro e tornando in due occasioni a pianificare le sorti degli X-Men, ma mai ritrovando il feeling con i personaggi, nel frattempo diventati vere icone pop grazie al successo dei film a loro dedicati (e basati sulle sue storie più classiche).
Nel 2000, nel corso di un’intervista, Claremont descrisse in poche parole il modo in cui gli X-Men erano cambiati sotto la sua gestione, e nelle parole conclusive era facile ritrovare anche un perfetto memoriale della sua carriera: «Dieci anni fa, gli X-Men si opponevano a forze oltre il loro controllo. Quello che sono ora trascende tutto questo: trovare un modo per vincere, non importa come. Persino di fronte alle avversità più grandi, l’importante è non perdere mai la speranza, non perdere mai il senso del sogno che ti guida. Qualsiasi cosa succeda, troveremo un modo per vincere».
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