E allora sono sul treno di ritorno da Como e accanto a me c’è una signora pasciuta e serena che si è stufata del suo Sally Rooney. Mi rivolge la parola nonostante io abbia l’aspetto di un cattivo di James Bond poco prima di venire bollito a morte (rischiavo di perdere il treno, che poi ha tardato; è una storia lunga) e la faccia di uno che ha la cordialità sulle labbra, e negli occhi la supponenza di potersi sottrarre agli altri. Cerco di dare risposte poco porose e spero che la signora non trovi altri incavi per dialogare.
Non le dico che sono reduce dal Lake Como Comic Art Festival, la due-giorni dedicata a un aspetto preciso del fumetto: i suoi disegnatori e le tavole originali, vendute dai mercanti o dagli autori stessi. Non le dico che questo festival si è svolto a Villa Erba, in una località che non è proprio Como bensì Cernobbio, sempre affacciata sul lago ma sulla parte inferiore del ramo lariano. Non le dico nemmeno che, più che un “art festival”, è una festa su invito. La signora potrebbe tuttavia farsi un quadro generale della situazione andando sul sito della manifestazione, dove scrivono che «una tendenza deprecabile è la continua espansione di molte convention in cerca di sempre più partecipanti, al punto che gli spettacoli sono così affollati che in pochissimi riescono ad avere accesso a panel e creatori. LCCAF eviterà questo mare di umanità limitando rigorosamente il numero di biglietti a soli 1000». Un business plan miratissimo che per funzionare dovrà – immagino – fare quantomeno il suo, di pienone.
E allora sono sul treno di ritorno da Como, mentre la playlist-triste-per-i-viaggi-di-ritorno tamburella contro il vetro del telefono come a dirmi di tagliare corto. La signora ha mollato il colpo e io quasi mi addormento cullato dal dondolio del vagone.
Vietato l’ingresso ai cosplayer
Il Lake Como Comic Art Festival è una artist alley senza quartiere ibridata con una sezione di stand di venditori di tavole. Un’impostazione inedita per il panorama italiano e non. Negli ultimi quindici anni i festival – o convention, o fiere, o raduni (potrei scendere la scala dei sinonimi fino ad arrivare a “sagra”, e se qualcuno avvertisse un senso d’inferiorità nell’uso di questo termine non sarebbe un problema mio) – si sono contaminati e, seguendo il modello americano, ospitano cinema, televisione e tutte le altre declinazione dell’intrattenimento di massa.
Quando San Diego, il più longevo e imponente fra questi eventi, ha cominciato a vedere i propri spazi invasi dal cinema – e quando quest’ultimo ha capito che tipo di vetrina avesse a disposizione – le due industrie hanno cominciato a darsi la spinta a vicenda. La conseguenza è che, attirando un bacino di pubblico maggiore, l’audiovisivo si è imposto come il motore di queste manifestazioni.
All’interno, le anime minoritarie – e il fumetto è una di queste – si sono mosse nel tentativo di depurarsi di tutti gli aspetti che le inquinavano, ovvero che non portavano nuovo pubblico. Un gruppo di amici che va a Lucca Comics & Games perché la vede come una sagra del sabato in cui farsi un giro e comprarsi una maglietta di Iron Man difficilmente andrà ad ascoltare un Comics Talk – a meno che non vi presenzi qualcuno che già conosce (uno youtuber, magari). All’ultimo Comicon di Napoli, un ragazzino che voleva farsi una foto con il Guanto dell’Infinito, avrà tirato dritto quando ha attraversato la mostra dedicata a Casimiro Teja. Chi vorrà discutere di fumetti, popolari o di ricerca, non vedrà vantaggi da questa compresenza e scapperà ad Arf!, Treviso Comic Book Festival, BilBOlbul.
Il mercato d’arte fumettistica e le sue infrastrutture specifiche esistono dagli anni Novanta. Nacque dopo l’esposizione mediatica vissuta dai fumetti post-1986 che ha trasformato ogni sua emanazione in un bene prezioso, dalle nuove uscite agli albi d’epoca, passando per le tavole originali. Così, se negli anni Settanta gli originali di Jack Kirby venivano mandati al macero o utilizzati come poggiacaffè, alla fine del millennio si vendevano a peso d’oro pure le pagine interne di fumetti Valiant. Alla speculazione seguì l’esplosione della bolla che calmierò i prezzi (non senza vittime: quelle stesse tavole Valiant, a distanza di mesi, erano buone per incartare il pesce).
I mercanti e gli appassionati di questa specifica evoluzione del fumetto come merce e/o come arte, in cui si è passati da un John Romita che regala copertine di Amazing Spider-Man al suo editore italiano, Luciano Secchi, a disegnatori che ingaggiano agenti o “artist representative” affinché si occupino delle vendite (molte volte sono le mogli dei disegnatori, a Como assai presenti e agguerrite), fino ad ora non avevano una casa tutta loro.
Il Lake Como Comic Art Festival vorrebbe colmare questo vuoto, istituzionalizzando l’artist alley, prendendo una componente delle fiere fumettistiche e mettendola a sistema, aggiungendoci un parterre importante, in un’ambientazione lussuosa, e con cui poter interagire senza resse. Per fare ciò gli organizzatori hanno attuato una selezione all’ingresso composta da: limite di presenza (mille biglietti) e costo d’entrata. 125 euro per il giorno singolo, 200 per entrambi i giorni e 450 per l’intero fine settimana, festa d’inaugurazione inclusa. Si aggiungono al pacchetto un portfolio e una copertina variant di Frank Cho, acquistabili anche singolarmente allo stand di LCCAF.
Dove vengono a girare i film ora ci sono i fumetti
Sul treno che mi porta a Como, solo la scoperta che i miei calzini hanno la stessa fantasia stampata sui sedili mi rovina la soddisfazione di occupare in solitaria un posto da quattro. Mi appunto mentalmente di cambiarli. Dall’altra parte del corridoio, un uomo dal fare manageriale (sguardo “niente stronzate”, computer aperto sul tavolino) ma dagli abiti paterni – un maglione color carta di zucchero, che non so perché mi dà sempre una sensazione genitoriale – chiama ogni mezz’ora il figlio, controllando che non resti a letto. Non dev’essere un giorno qualunque, perché gli dice in bocca al lupo.
Invece io, per documentarmi, vado sul sito ufficiale di Villa Erba. Scopro che, costruita tra il 1898 e il 1901, la villa in stile neorinascimentale fu voluta da Luigi Erba, fratello di Carlo Erba, fondatore dell’eponima azienda farmaceutica (che è attualmente tra i cespiti della statunitense Johnson & Johnson). Luigi, un musicista, voleva dimostrare il prestigio e la potenza economica della famiglia. L’affinità con il festival non è casuale: c’entra il prestigio, c’entra il potere e c’entrano gli americani.
Oggi Villa Erba è di proprietà di un consorzio pubblico che la affitta per le ragioni più varie. La ghiaia all’entrata scoppietta di frequente sotto i tacchi di qualche sposa, delle scamosciate dei partecipanti al World Manufacturing Forum o degli scarponi di troupe cinematografiche (quasi tutta la zona fa a gara per fare da set a qualche megaproduzione, e qui ci hanno girato Ocean’s Twelve). Pensare che questo luogo stia flirtando con un mondo pericolosamente vicino a un ecosistema di magliette di Deadpool e cosplayer di Lamù, ammetto, mi fa venir voglia di organizzarci una fiera vera e propria. Solo per vedere che effetto farebbe. Non mi sfugge l’ironia che i fumetti vengano a colonizzare un territorio cinematografico, quando di solito avviene il contrario.
Il sito non manca di esaltare i concetti di esclusività, privacy, riservatezza e ci tiene a sottolineare i legami della villa con Luchino Visconti, che di Luigi era il nipote e che trascorse qui le estati d’infanzia (il fatto che il complesso stia al numero 4 di Largo Luchino Visconti, è un indizio che non ho saputo cogliere).
«Every bracelet comes with a price tag, baby face it»
A Como, il clima è da Mastino dei Baskerville. Dalla parte opposta dell’acqua fractocumuli interrompono il panorama. Sono a Villa Erba giusto in tempo per l’apertura. C’è una piazzetta con una fila ordinata di una quindicina di persone che punta a una minuscola reception. Vedo grosse buste di plastica sformate con stampati sopra Topolino o Wonder Woman. Mi tranquillizzo di non aver sbagliato luogo, come se lo striscione “Lake Como Comic Art Festival” appeso ai cancelli non fosse stata una rassicurazione sufficiente.
Superata la biglietteria, dove un distinto francese soddisfa la mia stupidera chiedendomi conferma della testata per cui scrivo con accento parigino («Fumettoloscicà?»), si accede al parco. Il silenzio dei giardini tende l’atmosfera. Non c’è un ciuffo d’erba fuori posto. I bordi dei prati sono merlettati da magnolie, aceri, faggi e ligustri. Si sentono gli schiaffi sul terreno bagnato, a muoversi è solo il rollio del fogliame.
La brochure di Villa Erba che ho letto in treno recitava «Above all expectations». Ora, la pioggia mi ha un po’ rovinato la cartolina, ma l’odore mieloso dell’osmanto riesce comunque a insinuarsi nell’aria umida e farmi capire che effettivamente, con il sole, quel posto strapperebbe facilmente il suffragio di chiunque.
Il Lake Como Comic Art Festival si tiene nel centro congressi Le Serre, dietro la villa che, affacciata sul lago, dà le spalle all’entrata per i visitatori. Lì, oltre ai matrimoni e alle scene in cui George Clooney parla con Vincent Cassel, c’è stata l’inaugurazione del festival, venerdì.
Era un ricevimento di apertura che mi è stato descritto come «magico». Non ho presenziato, e da quel che sono venuto a sapere il clima era quello rilassato di decompressione tipico di una fine, più che di un inizio. Il duro lavoro per questi autori non era ancora cominciato e già brindavano? Forse li attendeva del lavoro non molto duro?
Progettata da Mario Bellini nel 1988, Le Serre è una struttura a pianta centrale attorno a cui si sviluppano tre bracci di vetro e acciaio chiamati Lario (il più grande), Cernobbio e Regina (il più piccolo), per un totale di 11.000 metri quadri calpestabili, incastonati nel parco. Il polo è grande, è un non-luogo labirintico fatto di cubicoli e stanzoni in mattone grigio talpa. Scopro che non c’è bisogno che io organizzi alcuna fiera perché, cosplayer a parte, quelli che indossano magliette di Deadpool sono anche qui e a quanto pare il loro vestire alla zuava non era dettato da pauperismo ma una scelta di stile.
Pensavo ci sarebbe stata gente azzimata, di età avanzata. Ed è così, ma il target era tendenzialmente molto vicino a quello di una normale convention. Trolley, borsoni, t-shirt “gruppo sanguigno a-peritivo”; non giovanissimi e nemmeno giovaniadulti, ma ancora distanti per lo sconto del biglietto del treno. Sono italiani, per lo più, ma abbondano gli stranieri, francesi, tedeschi, inglesi, americani.
Il Lake Como Comic Art Festival si poggia sugli stessi concetti che il sito di Villa Erba teneva a sottolineare: elitarismo, lusso e privacy. L’ha capito anche Panini Comics, che qui ha voluto essere presente portando in anteprima un’edizione in 300 copie di Daredevil: Amore e guerra realizzata con gli standard di un libro d’arte, certificati, firme e pagine lucide, goffrate, tessutate a seconda del personaggio presente in quelle tavole (costo: 500 euro). Avranno pensato che un progetto del genere, se può attecchire, lo farà solo in un festival frequentato da gente disposta a spendere 125 euro per un ingresso.
Superman al lago
La prima ora di permanenza la passo cercando di ambientarmi. Non mi riesce molto bene perché mi becco una ramanzina da Juanjo Guarnido (Blacksad). Non gli ho chiesto il permesso di fotografarlo. Aveva ragione, errore mio, ma stava disegnando e quando chiedo ai fumettisti una foto mentre disegnano diventano tutti impostati e poco naturali. Mi scuso. Vedo una ragazza commuoversi per aver stretto la mano a Don Rosa. Per un istante, mi sembra che tutto questo abbia un senso.
Faccio due volte il giro dei padiglioni. C’è chi ha un approccio più strutturato, con mini-imperi di stampe, originali, albi, autoproduzioni, e chi gioca a fare lo studente arrivato impreparato all’esame, con qualche oggetto personale, gli occhiali, un astuccio (quest’ultimi sono una scarsissima minoranza, a dire il vero); c’è chi ha un nugolo di persone già in attesa appena aperti i cancelli, chi spunta con calma i nomi dalla lista delle commission, aspettando diversi minuti tra un fan che si avvicina al suo tavolo e l’altro. Poi ci sono i mercanti di originali, alcuni in fila come gli altri per farsi firmare le tavole in loro possesso. C’è grande cameratismo, venditori e clienti si conoscono quasi tutti tra di loro.
Ho bisogno di un po’ di prospettiva. Vicino al bar, un luogo incredibilmente asfittico se paragonato agli spazi espositivi, c’è la stanza dove pranzano gli ospiti. Lì trovo Steve Morger, uno dei due organizzatori del Lake Como Comic Art Festival. L’altro, scoprirò, è Arno Lapeyre, il francese che ci aveva accolto all’entrata. Morger fa l’avvocato e immaginavo avesse le maniere di Al Pacino in L’avvocato del diavolo. Invece è un tipetto sulla sessantina con la faccia amichevole, la cui camicia a righe e i baffi a spazzola danno l’idea di uno zio che non ti infastidisce vedere alle riunioni familiari. Ha una voce soffice, irrigidita appena dalla gommosità dell’accento californiano.
«Mia madre mi disse “Non importa cosa leggi, basta che leggi”» risponde, quando gli chiedo com’è nata la sua passione per i fumetti. «Doc Savage e The Shadow mi hanno insegnato a leggere. Sono stato il primo della mia famiglia ad andare al college e a laurearsi». Lo dice come se stesse rivangando una vecchia storia, eppure la patina di orgoglio che riveste l’affermazione non se n’è andata. «Sono avvocato dal 1984 e il successo che ho avuto deriva direttamente dai fumetti.»
Steve è entrato nell’ambiente dei comics dalla porta della legge. «Mi ero stancato di comprare fumetti e ho iniziato a collezionare gli originali. Così ho fatto amicizia con gli artisti e di alcuni sono diventato l’avvocato.» Oltre ad assistere autori, ha aiutato a organizzare fiere e mostre ed è consulente legale del Cartoon Art Museum di San Francisco.
Steve conferma quel che è scritto sul sito, cioè che «non saranno presenti ospiti dei media, cosplayer o venditori di ninnoli solo marginalmente legati al mondo dell’arte del fumetto». Non so se sentirmi lusingato dal fatto di essere qui o offeso per non essere considerato “media”. «Non c’è niente di male, ognuno può avere quello che vuole» ribadisce a voce. «A me piace questo. Non compro poster, non voglio autografi degli attori. Voglio solo fumetti.»
Come tutti gli americani, non si fa scrupoli a parlare di aspetti economici e ammette che, anche se le presenze sono più che raddoppiate rispetto all’anno scorso, lo show andrà in perdita e lo stesso succederà per il prossimo, che è già in programma. «Ma è la natura delle cose» dice. «Non abbiamo guadagnato soldi e anche quando li faremo, spero entro un paio d’anni, non saranno molti. Io e Arno vogliamo che sia uno show sul fumetto e questo ha un costo. Il prezzo resterà questo, so che può spaventare ma se offri gli ospiti giusti la gente verrà.»
Il senso dei fumettisti per la celebrità
Vedendo i disegnatori assecondare ogni richiesta mi viene in mente Carrie Fisher, la fu principessa Leia di Star Wars, che resistette per anni alle partecipazioni alle convention, per poi cedere giustificandosi nel suo modo sardonico: sono come lap dance per nerd, dove al posto della stripper c’è l’attore dei tuoi sogni. Al Lake Como Comic Art Festival gli autori sono trattati nello stesso modo, non creatori di contenuti, ma esecutori di fantasie personali. Spogliarelliste con la matita tra i denti, invece che con i centoni tra l’elastico del tanga.
Alcuni hanno politiche parecchio rigorose: Bill Sienkiewicz offre la prima firma gratuitamente, le altre a pagamento (5 euro l’una, se ricordo bene), disegni che non rendono giustizia al suo nome per 250 euro (trattabili), più il resto del tariffario. E da lui la fila non manca, segno che quasi tutti stanno al gioco, ingrossando le mazzette di dollari, euro e sterline che custodiscono i suoi due assistenti asiatici, giovani e distinti – a differenza di Sienkiewicz, pieno fino ai gomiti di briciole degli snack che divorava senza sosta e di inchiostro diluito con acqua frizzante.
Il mercato secondario ha inasprito la dinamica e spesso i disegni o gli albi firmati, di qualunque foggia, vengono rivenduti dagli acquirenti, innescando un gioco al rilancio. Adam Hughes, quando ha visto sue commission online al doppio della cifra che aveva chiesto, ha adeguato i prezzi; Kelly Jones li ha triplicati rispetto alle richieste abituali, annusando la disponibilità economica dei presenti. Lo so, disegnatori, è il vostro lavoro e come tale andrebbe remunerato, e non obbligate nessuno a comprare. Giusto. Ma non dovrebbero esserci regole d’ingaggio comuni in casi come questi, dove il costo d’entrata non è un affare da poco?
Gli estremi esistono da entrambe le parti. Di solito il firmacopie è un momento impalpabile in cui vedi l’autore autografare il volume, mentre tu cerchi di intavolare una parvenza di conversazione; oppure resti ammutolito finché la fila ti spinge via in favore del prossimo fan. Sono frammenti di tempo risibili in cui, più della firma, ciò che conta è la stretta di mano e l’incrocio di sguardi sopra il libro. Qui la sensazione è acuita. Ho visto scatoloni interi di fumetti da far firmare (avrei da ridire anche sulle scelte di quali fumetti far firmare, ma capisco che in questo campo non si possano imporre le perversioni, si subiscono e basta).
C’è gente dall’approccio predatorio, metodica nell’organizzazione e fredda nei movimenti. Mette un post-it nella pagina che vuole farsi autografare, indica il punto preciso, sistema i plichi come in una catena di montaggio. Una donna sottopone talmente tanti volumi a Mike Mignola che lui non riesce a soffocare uno «yikes!» – o forse è perché la signora ha messo in cima alla pila Una morte in famiglia (di nuovo, il discorso delle perversioni). Raccolto il malloppo prendono e se ne vanno, senza neanche provare a parlare con l’autore che, in linea teorica, sarebbe il loro idolo.
Certi fan affrontano il festival come una enorme mancolista, una caccia grossa in cui ogni firma significa un’altra testa da impagliare sopra il camino. Un padre di famiglia ha portato moglie e figlia e le ha disseminate tra i vari autori, così mentre lui è da Humberto Ramos, lei può mettersi in coda per Dave McKean e, già che c’è, sfruttare l’età della figlia – non più di tredici anni – per muovere a pietà qualche disegnatore avaro e farsi disegnare qualcosa nel taccuino. Lo vedo passarle il libretto con la severità di un sergente che si aspetta dei risultati dalla truppa. La ragazzina sembra all’altezza del compito, perché a un certo punto si gira e mi guarda con un misto di sfrontatezza e disprezzo verso la mia inesperienza bellica. Non so dirvi se la tattica abbia funzionato, perché ho ceduto alla tensione e mi sono allontanato fingendo una chiamata.
Steve Morger dice che, mentre in tribunale non si fa che litigare, qui sono tutti amici. L’amicizia tra gli autori è evidente, e anche quella tra gli astanti: i collezionisti si conoscono tra di loro, si conoscono i venditori, si conoscono i clienti. La membrana che separa i tre gruppi – autori, mercanti, lettori – è permeabile occasionalmente soltanto dai primi, raramente dagli altri. Il livello di intimità che crediamo di esserci guadagnati noi nei loro confronti, con quel sorriso tremolante o qualche banconota lasciata in mano all’assistente asiatico, è perlopiù illusorio. Quando David Mack mi sorride, non sorride a me ma oltre me, nonostante me. Lo so – per esperienza personale – che non basta una conversazione per stare simpatici alle persone.
Un festival intimo
L’idea per le prossime edizioni è tenere una batteria di artisti, ruotando con grandi nomi ogni anno, magari chiamare qualche mangaka. Steve annuisce quando gli chiedo se l’offerta non potrebbe essere rimpinguata con mostre o incontri. Se hai un grande nome è bello vederlo fare cose, parlare di cose, non soltanto firmare cose. Insomma giocare, creare ponti, farli interagire tra loro. Dice che quest’anno avrebbero dovuto ospitare una mostra: uno dei disegnatori presenti aveva ultimato un grosso progetto, ma l’editore ne ha posticipato l’annuncio e la cosa è sfumata.
L’obiettivo primario resta raggiungere il tetto dei mille biglietti staccati. Quando accenno a un’espansione risponde prontamente di no. «Non voglio file. Quando raggiungeremo la nostra capacità massima non aumenteremo il numero, semmai faremo una seconda edizione da qualche altra parte. Forse in Svizzera, che però ha lo stesso feeling di Como, e io vorrei diversificare. Non voglio file, davvero. Non voglio che i fumettisti dicano “Non posso parlare con te, c’è troppa gente”.»
Steve vuole che il Lake Como Comic Art Festival abbia un’atmosfera intima. Che l’atmosfera sia diversa lo dicono tutti, ma forse riguarda solo il numero ristretto dei partecipanti. Davanti al banchetto di ogni autore hanno messo una sedia, «così il fan si può sedere e parlare con il disegnatore». Don Rosa l’ha preso alla lettera e, anche se non concede disegni (commission a parte – sono lontani i tempi delle sue ospitate all’inizio degli anni Duemila, quando regalava dettagliati primi piani di Paperone nel Klondike, Amelia o Paperino) e si limita a firmare volumi e stampe, ti invita a sederti, pur sapendo che la permanenza non si estenderà oltre i venti secondi e ti costringerà a un balletto goffo in cui dovrai toglierti zaini e tracolle, fare attenzione ai poggioli, dargli la mano, tenere con l’altra i fumetti, poi alzarti, fare un bell’inchino e andare via. Quasi nessuno resta lì a parlare. Anche perché, dietro di loro, si è formata un po’ di fila.
Cosa ho imparato
E allora sono sul treno di ritorno da Como. Sono andato via dal festival da quarantacinque minuti. Che tipo di viaggio è stato, non lo so ancora ben spiegare. Di sicuro è stato un viaggio che non potrei fare in nessun altro evento fumettistico, non a questa densità di celebrità straniere.
Gli organizzatori del Lake Como Comic Art Festival cercano una nicchia (di una nicchia) – quella dei collezionisti – e la vogliono tutta. Un obiettivo difficile ma che auguro loro di conseguire, se non altro per la caratura degli ospiti. Cercano di migliorarsi, di aggiungere una sfumatura culturale. Spero che accada anche questo. Da come parla Morger, sembra quasi che il profitto non sia un dato rilevante, che lo facciano più per divertimento, per soddisfare un bisogno personale più che come impiego remunerativo. È esclusivo, è privato, è tutto loro. O vostro, o nostro (non entrambi). Intanto, il cielo è sempre coperto, ma da bancali di stratocumuli. Si è seduta la signora.
Domenica scorsa La Lettura ha messo in copertina un’opera di Claire Fontaine – un collettivo nato nel 2004 di stampo ready-made. È un tavolo di sodalite color smeraldo con sopra l’emoticon che fa spallucce composta da monete di rame. In calce, l’artista si chiede «Chi giudica il valore e la legittimità dei nostri desideri se non le leggi del mercato?». Se c’è una cosa che questo festival mi ha insegnato è che io proprio ¯\_(ツ)_/¯.
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