Tra il 1973 e il 1974 il numero di reati negli Stati Uniti subiva un incremento di circa due milioni di casi. L’FBI parlava di un’impennata del circa il 18% in tutte le categorie – omicidi, stupri, rapine – mentre il Law Enforcement Assistance Administration ci teneva a far sapere che, in fin dei conti, i cittadini non avevano avvertito «nessuna variazione significativa». Ciononostante qualcosa nella pancia dell’uomo medio doveva essere scattato. Nei cinema la saga di Dirty Harry era al suo picco di popolarità, segnando in modo indelebile un determinato modo di intendere il poliziesco. Poi arrivarono anche tutti i vari Agente Newman e così via, segnando una discesa sempre più decisa verso gli ambigui lidi della giustizia privata.

La morale era solo una: se neanche il poliziotto più spietato riesce a risolvere del tutto il problema, allora ci si deve arrangiare come si può. Magari mettendo una taglia sulla testa del tizio che ha appena messo incinta tua figlia, oppure armandosi e portando avanti una propria crociata personale. Quando nelle sale arrivò il primo capitolo del Giustiziere della notte in pochi si sarebbero aspettati l’esplosione di un filone così disturbate come quello del vigilante.

Da lì a poco tutti gli studi cinematografici del mondo avrebbero ospitato qualche reinterpretazione del giustiziere improvvisato, stremato dalla vita ma pronto a riprendersi indietro ciò che è suo a ogni mezzo. L’Italia non fece eccezione e nel giro di tre anni scandagliò l’intero spettro di variazioni sul tema, passando da Il grande racket di Enzo G. Castellari a Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli.

L’arrivo del Punisher
Inevitabile che anche i fumetti americani finissero per essere influenzati da un simile clima. Così, sempre nel 1974, ecco comparire sulle pagine di The Amazing Spider-Man – pubblicato da Marvel Comics – un misterioso tizio inguainato in una tuta nera con un enorme teschio dipinto sul torace. Come ciliegina sulla torta John Romita Sr., suo creatore grafico, pensò bene di sfruttare le cartucciere per dare forma ai denti del cranio. Era appena nato il Punisher, una delle figure più controverse dell’universo Marvel.

punitore prima apparizione
La copertina di Amazing Spider-Man #129 (1974), disegnata da Ross Andru, con la prima apparizione del Punisher

Anche se introdotto dallo sceneggiatore Gerry Conway come antagonista, le intenzioni di farlo passare dall’altra parte della barricata erano palesi. Basato su di un popolare personaggio del romanziere Don Pendleton, Frank Castle si dimostrò fin da subito un personaggio ricco di sfaccettature. Ci fu infatti introdotto come un reduce del Vietnam, ex-combattente delle forze speciali, a cui la mafia aveva sterminato la famiglia durante una spensierata giornata a Central Park. Da qui la sua fissazione di eliminare fisicamente ogni criminale della sua città.

Avere tutte le ragioni del mondo non bastava a rendere la sua crociata qualcosa di tollerabile, dato che in un modo o nell’altro quei maledetti bastardi dovevano morire tutti. A giudicare dall’esplosione dei filoni cinematografici di cui si parlava prima non doveva trattarsi di un opinione troppo impopolare, ma era comunque troppo presto per concedere al personaggio il nome in copertina. Per quello ci sarebbero stati gli anni Ottanta, la magica epoca in cui abbiamo imparato ad avere paura di chi dovrebbe difenderci.

Ascesa e declino
La seconda metà del decennio e la prima di quello successivo segnarono un periodo di superlavoro per il vigilante, che si divideva tra miniserie, serie regolari, videogiochi (di cui uno targato Capcom in grado di svuotare le tasche dei ragazzini di mezzo mondo) e una trasposizione cinematografica in cui un indimenticabile Dolph Lundgren sfrecciava per le fogne di New York a cavallo di una rombante motocicletta.

Se avete più di 35 anni e leggete fumetti dall’adolescenza è facile che in quel preciso momento storico Frank Castle fosse tra i vostri personaggi Marvel preferito. A dispetto di ogni previsione però qualcosa non funzionò a dovere e la bolla si sgonfiò in fretta, lasciando il Punisher a un passo dall’ingresso trionfale nel gotha delle icone universali.

Nel 1998 si decise di includere il personaggio nel pacchetto di rilancio Marvel Knight, con la speranza che la cura ricostituente di Joe Quesada & Jimmy Palmiotti desse i frutti sperati. L’operazione non era delle più semplici: si trattava di un personaggio che può essere al contempo fracassone e introspettivo, che si presta a riletture politiche così come a diventare l’idolo di ogni ragazzino che voglia sentirsi edgy. Ha un costume fantastico ma riesce a muoversi in ambienti urbani e realistici. Non è un caso se la sua carriera sia disseminata di grandi storie.

A dispetto delle apparenze reazionarie e relegate all’exploitation più pura, si tratta di un personaggio ricco e fertile, su cui ogni scrittore degno di tale nome potrebbe benissimo dire la sua. Eppure era sempre mancato quel guizzo che lo rendesse qualcosa di duraturo e non solo il frutto di una moda passeggera. Se non era successo prima, nel periodo di suo massimo splendore, perché le cose sarebbero dovute andare meglio con questo nuovo rilancio?

I due neo-editor decisero di puntare il tutto per tutto e cambiarono in toto le carte in tavola riscrivendolo come un personaggio improntato all’esoterismo e mettendo in piedi una nuova mitologia a base di possessioni e angeli custodi. Il tentativo fu apprezzabile – o forse no – ma nessuno si rivelò sorpreso dallo squassante flop che questa nuova rilettura incassò. A quel punto fu chiaro a tutti cosa fare per rilanciare al meglio la testata: trovare qualcuno che sapesse scrivere e disegnare dannatamente bene di sparatorie, personaggi da western e fiotti di sangue. Magari lasciandogli fare esattamente quello, senza troppe menate o strategie astruse.

Benarrivato, Garth
Così nel 2000 esordì una nuova serie, come se la versione esoterica precedente non fosse mai esistita, con la storyline Bentornato, Frank, la trionfale rentrée del vigilante di Manhattan firmata da Garth Ennis e Steve Dillon. Ironicamente un irlandese e un inglese furono chiamati a ridare vita a uno dei fumetti più americani di sempre.

punisher ennis

Non ho idea di che rapporto potessero avere avuto i precedenti sceneggiatori con il personaggio, ma era evidente che Ennis ne fosse prima di tutto un grandissimo fan. Lo trovava così perfetto da non sentirsi in obbligo a costruirgli attorno chissà quali sovrastruttura. Semplicemente gli mise in mano un grosso M60 e gli fece vomitare piombo addosso a decine di criminali. Pagina dopo pagina, didascalia stentorea dopo didascalia stentorea. L’unica aggiunta che si permise fu quella dell’umorismo grottesco, ingrediente per cui era noto al grande pubblico grazie a Preacher.

Rispetto al suo solito avevamo meno turpiloquio e profanità ma un bodycount da far sembrare i film di John Woo delle commedie brillanti, in un gioco che per i primi albi bastava benissimo a se stesso. Poi, poco alla volta, qualcosa cominciò a cambiare. Per tenere sempre alta l’attenzione cominciarono a essere introdotti generi diversi, attraversati da Frank Castle con la consueta delicatezza da Landkreuzer tedesco. Comparvero l’horror, il western, la commedia pura, i crossover con altri supereroi Marvel.

Ennis si divertiva come un pazzo a fare il ragazzino terribile, ma era evidente come sotto sotto ci fosse qualcosa di più a bollire in pentola. A differenza delle gestioni precedenti c’è meno ambiguità, meno distanza tra chi scriveva e le gesta del protagonista. Emerse poco a poco la visione del mondo dell’irlandese, forgiata da numi come Sam Peckinpah, John Ford e John Milius. Non esistono cose giuste o cose sbagliate, solo azioni che si devono intraprendere per forza di cose.

punisher ennis

Il Punisher di Ennis sa benissimo di essere una macchina da genocidio, conosce bene le conseguenze delle sue azioni, tuttavia non può permettersi il lusso di domandarsi se esistano alternative. Come abbiamo già detto, in un modo o nell’altro quei maledetti bastardi devono comunque morire tutti. Non ci sono questioni in merito.

La straordinaria normalità di Dillon
A dare graficamente un volto al nuovo Punisher di Ennis trovammo il sodale di lunga data Steve Dillon, con cui aveva già realizzato Hellblazer e Preacher per la linea Vertigo di DC Comics. Come al suo solito il disegnatore rischiò di far passare come fin troppo semplice quello che in realtà era un lavoro che in pochi sarebbero in grado di assolvere. Le sue tavole erano scarne, i fondali spesso solo abbozzati, mentre i personaggi parevano assomigliarsi tutti un po’ troppo. Ciononostante certe sceneggiature funzionavano solo se c’era lui a interpretarle.

La sua chiarezza espositiva, la capacità di far recitare i personaggi, il suo sottilissimo senso dell’umorismo. Tutte doti straordinarie che riusciva a mettere in ogni singola vignetta, senza mai sbraitare o fare il passo più lungo della gamba. Per quanto nella serie veissero coinvolti altri ottimi interpreti, Dillon sarebbe diventato il disegnatore per eccellenza del nuovo Punisher. Una volta conclusa la lunghissima gestione di Ennis, è stato richiamato per dare forma a quella gestita da Jason Aaron e al breve rilancio orchestrato da Becky Cloonan, come a dare un segno di continuità a cui tutti i fan del personaggio potessero appigliarsi.

La nuova gestione funzionava alla grande e si confermava un successo di vendite, ma mano a mano che i numeri passavano era impossibile non rendersi conto di come lo sceneggiatore stesse tenendo il freno a mano tirato. Il Punisher della serie Marvel Knight tratteggiato da Ennis era pur sempre un personaggio dell’universo Marvel, quindi certi limiti non potevano essere oltrepassati. L’umorismo grottesco era una buona maniera per stemperare le tensione di un personaggio che richiede di numero in numero sempre più eccessi, e il gioco prima o poi era destinato a rompersi.

punisher ennis

Così, dal numero 33, partì la storia Una banda di idioti, sorta di sberleffo finale di Castle al tranquillizzante universo della grande M. Nel breve arco narrativo vediamo Spider-Man, Daredevil e Wolverine fare di tutto per fermare quello che reputano un criminale a tutti gli effetti, mentre il buon Frank non perde l’occasione per umiliarli davanti agli occhi dei loro lettori.

Non a caso ad accompagnare Ennis in quest’ultima avventura viene richiamato John McCrea, con cui aveva già realizzato il suo capolavoro Hitman – oltre che lo sboccato Dicks e una mini di tre dell’Uomo Ragno – seminando il panico nell’Universo DC.

Le origini del Punisher
Sembra quasi di vederlo Ennis, mentre scrive ridacchiando questa serie e al contempo dà forma a Punisher: Born, ovvero la storia che farà passare il personaggio dalla linea Marvel Knights a quella MAX, dando piena forma alla sua visione del Punitore. Chiarendo oltretutto come, in fin dei conti, tutta la storia della famiglia sterminata dalla mafia fosse solo una scusa e dimostrando come Castle fosse uno strumento di morte ben prima di quello sventurato evento.

punisher born

Born è una durissima storia di guerra ambientata sul concludersi del conflitto in Vietnam, dove ci si addentra nella psiche ormai deviata del capitano Castle, diviso tra il desiderio di un guerra perpetua e la necessità di punire commilitoni macchiatisi dell’orribile crimine dello stupro. L’antipasto perfetto per quello che stava per travolgere i lettori.

In realtà all’epoca il passaggio da una etichetta all’altra fu percepito come uno slittamento del tutto naturale. Perché va bene Ma Gnucci, il Russo con le megatette, i dolori del detective Soap e così via. Daccordo ridere e sgretolare tutto sotto la potenza inarrestabile dell’ironia iconoclasta, ma a un certo punto bisogna anche diventare grandi. E l’irlandese non aspettava che quello.

Punisher MAX
Ecco quindi presentarsi una nuova visione del vigilante di New York, quella definitiva. Intorno alla sessantina, enorme, segnato da anni di battaglie. Praticamente inarrestabile. Se prima la conta dei cadaveri pareva notevole, qui si passava definitivamente a un livello astronomico.

Mentre al cinema usciva la tragicomica trasposizione live-action di Bentornato, Frank a opera di Jonathan Hensleigh – in grado di sprecare un Thomas Jane praticamente identico alla controparte fumettistica – Ennis mandava nelle fumetterie la sceneggiatura che aveva in testa fin dal momento della prima firma sul contratto Marvel.

punisher ennis

Una specie di incrocio tra le sue storie di guerra e un Il giustiziere della notte sotto Desoxyn. Senza tizi in costume, limitazioni varie o altri fastidiosi paletti. Tanto per mettere subito in chiaro come stavano le cose, nel primo arco narrativo di questo nuovo filone, intitolato In principio, il sodale di lunga data Microchip fu reintrodotto dopo anni di assenza solo per venire ucciso direttamente da Castle. Ogni legame con il passato fu così chiuso in maniera definitiva.

Va detto che rilette oggi quelle storie hanno perso un poco del loro smalto. Il gioco al massacro è spesso tanto reiterato e tirato al limite da risultare quasi fastidioso. Al confronto la serie Marvel Knights, che per tanto tempo è stata vista quasi solo come una fase di passaggio, risulta aver tenuto meglio il tempo. Le esagerazioni venivano stemperate con un approccio quasi da cartone animato che nel corso del tempo non ha perso un grammo della sua capacità di divertire.

Ma allora perché la controparte MAX del Punisher viene ricordata come una tra le migliori gestioni Marvel di sempre? In primo luogo perché in mezzo a tante provocazioni gratuite Ennis è riuscito a infilare storie come Gli schiavisti, dove gli antagonisti per una volta non sono mafiosi italo-americani da operetta ma trafficanti di esseri umani. La realtà fa il suo ingresso nel mondo in bianco e nero del Punisher e lo fa nella maniera più cruda possibile.

Un conto è inventarsi qualche nome da Soprano, giocare con i luoghi comuni che tutti conosciamo da Quei bravi ragazzi in avanti per poi far fare tabula rasa a Frank. Un altro è parlare di gente che rapisce giovani ragazze nell’est Europa per farle prostituire negli Stati Uniti abusandone in ogni maniera. Partendo da un presupposto tale era naturale immaginarsi una risposta da parte del vigilante altrettanto disumana, portandolo a picchi di furia che raramente si erano visti nella sua carriera.

La psicologia del personaggio
Oppure si potrebbe parlare di Valley Forge, Valley Forge, ultimo arco narrativo regolare dell’irlandese – il cui titolo va a ricollegarsi direttamente con la miniserie Born -, dove a fronteggiare Castle vengono mandati dei soldati dell’esercito americano. Uno scaltro espediente per costringerlo a non uccidere nessuno per tutto l’arco della storia.

Mentre tutti ci saremmo aspettati un finale apocalittico, Ennis tira fuori uno dei suoi classici e costruisce una storia forse non particolarmente memorabile ma che racchiude alla perfezione la sua visione del mondo.

punisher valley forge garth ennis

I veri bastardi non sono gli uomini che scelgono di fare il loro dovere, ma chi sta ai piani alti e gioca con le vite degli altri come se queste non avessero significato. In poche parole l’ennesimo remake a fumetti de La croce di ferro da parte dell’autore di Belfast, uno dei suoi standard che non riesce mai a stancarci.

Un altro motivo di interesse della storia in questione è il modo in cui riesce a tirare le fila di una mitologia molto più complessa di quello che ci si aspetterebbe. Uno dei mezzi che Ennis sceglie per dare realismo al suo mondo è quello di sganciarsi da una narrazione prettamente antologica per mettere in piedi un mondo dove ogni azione avrà conseguenze su tutti gli albi seguenti. Come quello reale.

Sganciandosi dalla tipica struttura del “monster of the month”, il mondo di Castle guadagna un peso e una concretezza che gli sono quasi del tutto inediti. Non parliamo di una piccola nota redazionale in calce a qualche vignetta per ricollegarsi alle storie arretrate, ma di una costruzione della narrazione orizzontale praticamente a cascata. Dove a ogni azione corrisponde una reazione nell’arco successivo, e così via.

In quest’ottica Castle acquista un nuovo volto, acquisendo un’insperata umanità. Rimane sempre un tizio che prova piacere nel portare avanti una battaglia del tutto inutile contro il crimine, ma oltre a questo lo vediamo provare empatia verso le vittime, avere rispetto di chi fa il suo dovere, sviluppare legami umani e fare sesso.

Sia chiaro, per Ennis il Punisher rimane una sorta di vettore narrativo privo di profondità, perfetto nel mettere in scena un gioco al massacro in cui finiscono i peggiori esponenti della razza umana, ciononostante il mondo in cui lo cala lo obbliga a distaccarsi parzialmente dal facile giochino dello psicopatico in cui è stato ingabbiato per gran parte della sua carriera editoriale. Sarebbe impossibile dare credibilità al mondo dove si muove se lo stesso protagonista non manifestasse qualche tratto vagamente umano.   

Parlov, su tutti
Altro aspetto irrinunciabile della serie MAX è rappresentato da Goran Parlov. Non me ne vogliano gli altri disegnatori presenti su quelle pagine, ma quando arriviamo alle storie disegnate dal croato si passa decisamente a un altro livello. Dillon, con la sua eleganza e la sua gestione minimale del disegno, era riuscito a diventare la perfetta incarnazione di sceneggiature che superficialmente avrebbero richiesto tutt’altro tipo di approccio. Parlov è riuscito a fare la stessa identica cosa, ma adattandola a un contesto ancora più violento ed esasperato.

punisher goran parlov

Quando lo vedi riuscire a infilare, come se niente fosse, occhi a puntino in una sceneggiatura grondante cinismo e disillusione allora è chiaro che hai a che fare con un gigante. Le fisionomie dei personaggi paiono scolpite nella roccia, mentre il tratto non perde un grammo della sua essenzialità. Anzi, mano a mano che passano le pagine è chiarissima la sua volontà di asciugarsi sempre più. Se in Barracuda è un ottimo interprete dal carisma quasi retrò, sul numero 60 della testa è ormai fuori da ogni parametro.

Il suo Punisher è enorme e minaccioso, seppure mai grottesco. Le splash page sono epiche e di una potenza devastante, mentre l’azione è sempre leggera e quasi sospesa. Il tutto senza mai esagerare o puntare su scelte banali o troppo di pancia. Forse il migliore modo per sfruttare la penna di Ennis è quello di metterlo a lavorare con disegnatori che facciano da contraltare ai suoi eccessi da perenne adolescente. Di tutta la sua lunghissima gestione alcuni tra gli episodi che si ricordano più volentieri sono quelli graficamente gestiti con maggiore eleganza, che si tratti di Dillon o di Parlov.

Dopo questa lunghissima cavalcata il Punitore risultava cambiato, più maturo e affermato, dotato finalmente di quel background di grandi storie necessario per farlo considerare anche dai lettori più occasionali un personaggio di prima linea nell’universo Marvel.

Sono poi arrivati un nuovo film – il violentissimo Punisher: Zona di guerra con un Ray Stevenson in bombissima – una gran gestione scritta dal fuoriclasse Jason Aaron, il delirio di Franken-Castle, la partecipazione a praticamente tutti i crossover della casa editrice e infine le due stagioni della serie prodotta da Netflix. Una seconda carriera non male per un personaggio che pareva destinato a scomparire come la bolla che l’aveva generato.

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