Da grande fan di Warren Ellis quale sono ho accettato di scrivere questo articolo senza pensarci troppo. Nella mia ingenuità pensavo sarebbe bastato mettere in chiaro qualche punto su tutte le mie letture pregresse e collegarli fra loro, vedere se nel frattempo mi fossi perso qualcosa e − al limite − rileggermi un pugno di vecchie interviste. A conti fatti, nulla di troppo sconvolgente. Approfittando dei suoi 50 anni − compiuti lo scorso febbraio − avrei avuto l’occasione per parlare di un autore che non ha quasi mai sbagliato un colpo, infilando qua e la aneddoti circa la sua ossessione per tecnologia e le teorie più oscure dell’evoluzione scientifica. Ero a posto, nella più classica delle botti di ferro.
E invece ho finito per scordarmi di chi dovevo parlare davvero, ovvero di uno dei più folli e compulsivi grafomani che l’industria del fumetto abbia mai conosciuto. Spesso ho l’impressione che Ellis scriva letteralmente per chiunque glielo chieda, senza mai darsi un attimo di tregua. Considerando che lui stesso si considera un campione olimpico di sonno, mi chiedo dove trovi il tempo per stare dietro a tutto quello di cui si occupa. Perché non parliamo solo di una marea di fumetti, ma anche di romanzi, di articoli per diverse testate, di una corposissima newsletter settimanale che va ormai avanti − in tutte le sue incarnazioni − da qualcosa come 23 anni, di videogiochi, di serie animate per la televisione e per il web.
Fuori dalla noia
Poco più di un mese fa è stato annunciato che una delle sue ultime creazioni, Injection, è stata opzionata dalla Universal per trarne una serie televisiva. La serie di Ellis, Declan Shalvey e Jordie Bellaire ha esordito nel 2015 per Image e ha da subito richiamato molte attenzioni, soprattutto per via della qualità stellare della sceneggiatura. Risulta quasi naturale pensare come in questo momento di iperproduzione televisiva, dove ogni idea un minimo fuori di testa pare essere un richiamo irresistibile per stormi di showrunner in cerca di nuove storie da raccontare, avrebbe finito per richiamare l’attenzione di un grosso studio.
Parliamo di una storia dove uno sparuto gruppo di individui eccezionali decide di dare una strapazzata all’evoluzione dell’uomo liberando un potentissimo algoritmo, il tutto raccontato tramite un cast corale parecchio sopra le righe, salti temporali e tutta la solita capacità visionaria che ha reso Warren Ellis uno dei più grandi scrittori di fantascienza degli ultimi vent’anni. Figurarsi se uno studio con il coraggio di portare sul piccolo schermo fumetti come Umbrella Academy e Happy! si sarebbe lasciato intimidire dalla complessità di una storia simile.
Senza contare che Ellis non è neppure al primo lavoro con loro. Ben prima di Injection era stato lui stesso a essere opzionato. La sua prima prova da showrunner sarà la versione televisiva di El Pantera, fumetto messicano degli anni Settanta ambientato in una città immaginaria sul confine tra Stati Uniti e Messico.
Non abbiamo ancora cominciato a parlarne in maniera esaustiva e già si capisce quanta carne al fuoco abbia il Nostro. Dopotutto stiamo parlando di un tizio che scrive 16 ore al giorno, rintanato in uno studio ipertecnologico nascosto in una vecchia casa nella città dell’Essex di Southend-on-Sea. Dice di non riuscire a lavorare in silenzio, così non passa un attimo senza oscuri podcast in sottofondo, mentre uno schermo dietro il suo laptop manda in continuazione canali televisivi in streaming. Nelle sue pause si rilassa rispondendo a centinaia di mail. Legge qualunque cosa, in maniera compulsiva. Non ci sono dubbi su come il suo cervello lavori a una velocità più elevata della nostra.
Nel 2007, dopo un’assenza di 10 anni, decide di ripresentarsi al Comic-Con di San Diego. La fiera del fumetto più chiacchierata e desiderata del mondo, quella immancabile per chiunque voglia esserci. Alla domanda di un reporter sul perché di tale assenza Ellis è lapidario. Per lui il Comic-Con è, semplicemente, «dannatamente insipida e noiosa». Quindi perché andarci?
E ancora: «Vi ricordate quella scena nell’ultima serie di The Thick of It, quando Malcolm Tucker organizza un golpe politico e dice: “Grazie a Dio, mi sono annoiato davvero tanto negli ultimi tre anni”? Probabilmente sono solo un orribile sociopatico, perché anche io sono stato così fottutamente annoiato negli ultimi anni mentre ora che tutto è impazzito lo adoro». Questo è Warren che parla della situazione politica del 2017 dalle colonne del The Guardian.
I primi passi
L’avvio della sua carriera è identico a quello di tutti gli autori di fumetti inglesi arrivati a lavorare nell’industria statunitense. Dopo aver passato l’infanzia e l’adolescenza a leggere fumetti comincia ben presto la solita trafila fatta di fanzine e piccola editoria per sbarcare infine su 2000 A.D. e Deadline. Scrive per Judge Dredd e Dr. Who e nel 1991 crea il suo primo personaggio per Blast!. Lazarus Churchyard è una rivisitazione del cyberpunk che è già al 100% ellissiana, sovrapponendo alla solita distopia a base di megacorporazioni un personaggio che è composto all’ottanta percento da plastica intelligente. Anche grazie alle fantastiche tavole di Matt Brooker la serie è un discreto successo − l’ultima ristampa, targata Image, è del 2001 − e attira un sacco di attenzioni.
E infatti nel giro di tre anni eccolo sbarcare in Marvel, dove si rende conto che può davvero cominciare a pensare di diventare uno scrittore professionista. Comincia lavorando agli ultimi dieci numeri del Hellstorm: Prince of Lies di Rafael Nieves, dove riesce comunque ad apportare il suo stile personale. La dirigenza incomincia a capire con chi ha a che fare e decide di fare una prova, affidandogli il Dr. Strange con l’idea di trasformarlo nel nuovo Hellblazer. L’esperimento dura solo tre numeri.
Le cose cominciano a ingranare davvero quando Warren riesce a mettere le mani su Destino 2099, versione futuristica e distopica dell’avversario dei Fantastici Quattro. Rispetto alla precedente gestione di John Francis Moore, Ellis decide di togliere il freno a mano e di trasformare la serie in qualcosa di davvero cupo. La fantascienza tradizionale lascia spazio al tanto amato cyberpunk e si incominciano intravedere alcuni tra i punti cardine di quello che arriverà da lì a poco: personaggi bigger-than-life, plot studiati per svilupparsi in gestioni piuttosto prolungate e grandi idee − spesso basate all’attualità − alla base di tutto. Ed è così che Victor Von Doom finisce per diventare presidente degli Stati Uniti d’America.
Le pazze trovate di Warren piacciono, ed ecco arrivare anche una lunga gestione di Excalibur dove il gruppo mutante europeo finalmente trova una sua identità. Meno fantocci in costume e più bulli da pub di periferia. Anche in questo caso le cose vanno alla grande, tanto che all’inglese viene affidato il rilancio del Dr. Druid. Un oscuro personaggio mistico abbandonato nel dimenticatoio da decenni e che in soli quattro numeri scritti dal Nostro finisce per diventare una delle cose più estreme mai pubblicate dalla Marvel.
A fargli il paio abbiamo Ruins, altra delirante proposta che incomprensibilmente Ellis riesce a farsi approvare dai dirigenti. Trattasi, in poche parole, di un’oscura parodia di Marvels di Kurt Busiek e Alex Ross. Solo che tra queste pagine c’è ben poco spazio per le meraviglie, e se un ragno radioattivo ti morde al massimo ti prendi un tumore. Tra queste uscite, un ciclo di storie di Thor abbastanza trascurabile, esperimenti vari e il nuovo contratto con Malibu Comics, nell’ottobre 1995. A soli 27 anni, Ellis riesce a mandare nelle fumetterie statunitensi qualcosa come sei serie contemporaneamente. E il bello deve ancora arrivare.
Il crocevia della carriera
Nel 1996 arrivano i primi lavori per DC Comics, Caliber Comics e soprattutto Wildstorm, all’epoca ancora sussidiaria della Image. Tanto per mettere le cose in chiaro per prima cosa si mette a lavorare sui DV8, personaggi nati sulle pagine di Gen13 come controparte tetra e degradata del gruppo protagonista. Leggenda vuole che Jim Lee abbia chiesto a Ellis una versione con i superpoteri del film Kids di Larry Clark. Lo sceneggiatore non se lo fa ripetere due volte, riversando nelle sue pagine tutto quello che ha dovuto trattenere fino a questo momento.
Ecco quindi violenza, droghe, alcool, macchinazioni, devianze, sesso e una marcata propensione per gli underdog, il tutto compresso in una serie di supereroi adolescenti. Il titolo fa il botto e apre all’inglese (che nel frattempo, per non annoiarsi, si è messo a scrivere anche per Dark Horse) ogni tipo di porta. E arriviamo così a Stormwatch, autentico crocevia della carriera del Nostro.
A non tutti gli scrittori capita di poter mettere in piedi il proprio universo supereroistico, ma per nostra fortuna Ellis si è guadagnato questa possibilità. L’inglese prende un gruppo di super-tizi nato sull’onda del boom degli anni Novanta e lo fa diventare qualcosa di enorme. La completa maturazione di questa idea avverrà poco più in là, sulle pagine di The Authority, ma l’idea di fondo rimane la stessa. Se esiste una polizia sovranazionale composta da personaggi in costumi imbarazzanti con il potere distruttivo di una batteria atomica le cose devono andare in maniera un poco differente rispetto a come eravamo abituati.
Secondo Ellis non c’è più spazio per le scaramucce da Golden Age come per le tribolazioni da sociopatici degli anni Ottanta. Gli eroi devono agire su scala globale, coordinarsi come squadre di una forza speciale, essere cazzuti all’ennesima potenza e, soprattutto, affrontare avversari all’altezza. Che magari non scelgano sempre e comunque di far partire ogni loro piano malvagio con la distruzione di New York. Rappresentativo di questa tendenza il ciclo narrativo di Authority in cui i nostri eroi si trovano a fronteggiare Dio, un’entità aliena grande come la Luna che ha creato la vita sulla Terra agendo chimicamente e che ora torna per fare un po’ di pulizia.
Questa rivisitazione del supereroe in widescreen, immerso in un universo tecnologico oltre ogni immaginazione ma al contempo coi piedi ben piantati nella nostra società, è l’autentica rampa di lancio per il mainstream. Da questo momento Warren Ellis, che era già considerato un nome importante, diventa lo scrittore con le idee più visionarie, i dialoghi affilati come un rasoio, i personaggi duri come la roccia e la capacità di rendere interessante qualsiasi serie su cui metta le mani.
Oltretutto, la sua onnipresenza in Internet lo rende qualcosa di simile a un santone da venerare e da seguire oltre le pagine dei suoi fumetti. La sua è una figura ambigua e a tratti piuttosto criptica, una macchina da scrittura alimentata a nicotina e Red Bull che osserva lo scorrere del mondo dal suo studio nella provincia inglese. Se si rileggono tutte le prefazioni ai suoi fumetti, dove spesso si sofferma a raccontare episodi della sua vita, ci si rende conto come in realtà siano palesemente pezzi di finzione.
Si sa pochissimo del vero Warren Ellis, sempre vestito di nero e quasi sempre fotografato nel suo studio. Più simile a un wunderkammer che al tipico officio da nerd tutto action figure e ninnoli ultrapop. Eppure è davvero lui quello che risponde sui forum con una visione sul mondo più lucida di chiunque altro e in grado di arrivare sempre primo su tutto.
Spider Jerusalem sono io
Più pagine Ellis scrive più ci si rende conto che l’immagine che vuole dare di sé è quella di uno dei suoi personaggi. Quindi eccolo dare vita contemporaneamente a newsletter oscure e visionarie, supereroi campioni di incassi e serie indefinibili come Transmetropolitan.
Quella dedicata al giornalista gonzo Spider Jerusalem rimane a oggi la sua opera più lunga e corposa, un autentico continente in mezzo a un mare di uscite spesso buttate all’aria dopo un pugno di uscite. Al centro dei 60 numeri della serie troviamo una sorta di versione riveduta e (s)corretta di Hunter S. Thompson, con il quale condivide la passione per le armi da fuoco, gli stimolanti, le tonnellate di sigarette, una prospettiva della realtà dolorosamente cristallina e metodi non proprio da giornalista del New Yorker. Solo che il Nostro non si muove negli Stati Uniti degli anni Settanta ma in una generica città del futuro. Un incubo di canali all-news, pubblicità, consumismo, degrado, discriminazione e politica populista non troppo distante dal nostro mondo.
A tale proposito è illuminante quello che fece notare lo scrittore Damien Walter dalle colonne del Guardian circa il personaggio del politico La Bestia, descritto come «un bullo fisicamente imponente e un presunto leader “forte” che fa appello alla vena autoritaria in cui governa. La Bestia rappresenta gli aspetti peggiori della vita politica moderna e incarna tutta l’orribile ignoranza percepibile in Donald Trump». Notate bene che la serie uscì nel 1997, quando a guidare gli Stati Uniti c’era il democratico Bill Clinton.
L’intera Transmetropolitan è piena di queste sorprese, dalle stoccate alla politica fino alle decine di trovate tecnologiche che rendono quel mondo una sorta di allucinato luna park dove la droga è l’unico modo per perdere la testa di propria volontà. Naturale che in un contesto simile Ellis ci sguazzi e riesca a mettere in fila tutti i suoi cavalli di battaglia: linee di dialogo sparate a mitraglia (un balloon non può contenere mai più di tre righe di script), spirito anarcoide, indole visionaria, gusto per l’eccesso e una cultura sconfinata.
Come dicevamo, più passa il tempo e più ci si rende conto di come Warren Ellis si stia trasformando in un protagonista di qualche romanzo cyberpunk, impegnato a seminare pensieri antagonisti scrivendo fumetti poco concilianti. Il nomignolo con cui viene appellato è Internet Jesus, e non può essere più azzeccato. Grazie alla rete è praticamente ovunque, conosce tutto e riesce sempre a sorprenderti con qualcosa di oscuro e pazzesco.
Eppure rimane un’entità fumosa, di cui in fondo si conosce davvero poco − tranne l’aneddoto, ripetuto fino alla nausea, per cui il suo primo ricordo è legato all’allunaggio − se non attraverso i suoi lavori e le sue newsletter. Ellis è un sorta di tuttologo in grado di leggere la realtà come tu, semplice lettore, non saprai mai fare. Il numero 141 di Hellblazer − intitolato “Shoot” − anticipa la sparatoria di Columbine e non vedrà la pubblicazione per parecchi anni, inclinando la fiducia dello sceneggiatore inglese nella direzione della Vertigo. Di fatto la sua gestione del personaggio, pianificata per durare anni, si conclude dopo soli dieci numeri.
Una bella sfortuna per la sussidiaria DC, che perde così una delle sue firme di punta, ma una manna dal cielo per William A. Christensen, fondatore della sgangherata Avatar Press. All’epoca si tratta di una minuscola casa editrice specializzata in bad girl tipicamente anni Novanta, priva di qualsiasi forma di attrattiva. L’uovo di colombo per cambiare lo stato delle cose è la promessa di lasciare carta bianca allo scrittore. Ellis prende la promessa alla lettera e crea qualcosa come 22 titoli originali, tra serie e miniserie, spaziando da una trilogia ultraviolenta sulla figura del supereroe, passando per lo steampunk e finendo nello Sword & Sorcery.
Il potere della narrazione
Nel frattempo, per la Wildstorm dell’amico Jim Lee, arriva quello che in molti reputano il vero capolavoro di Ellis: Planetary. Una saga sospesa tra metafumetto, speculazione scientifica e autentico amore per la forza della narrazione. Più passano le pagine e più la resa dell’inglese davanti al potere delle storie è totale, lasciandoci nelle mani dei suoi quattro archeologi dell’impossibile. La serie parte come un potpourri di qualsiasi genere narrativo e si conclude in maniera altissima, tra teorie esistenziali e una trama sempre più cervellotica.
Nell’immaginazione dello scrittore, noi viviamo in un multiverso a forma di fiocco di neve frattale, composto da un numero esagerato di dimensioni bidimensionali dove gli abitanti hanno l’illusione della tridimensionalità. Allo svelamento di questa cosmogonia segue un numero sempre più importante di riferimenti a volumi, libri, pagine. Parlando di un personaggio scomparso dal suo piano della realtà il protagonista se ne esce con un «È probabile che ora viva in altre storie, che si sia infilato tra le pagine».
La stessa organizzazione Planetary si occupa di compilare ogni anno un tomo in cui registrare tutti gli eventi bizzarri dei dodici mesi appena passati. Tutta la presunta tridimensionalità del nostro mondo viene compressa in quelle pagine, ridotta alle due dimensioni che il grande fiocco del multiverso ci concede. Ma se una superficie piatta può contenere una vita dotata di profondità come la nostra, cosa può impedire che succeda la stessa cosa nei monitor su cui godiamo di serie TV in streaming o nelle pagine dei volumi infilati nelle librerie di milioni appassionati lettori? È forse questo il motivo per cui nel mondo di Planetary storie tipicamente considerate bidimensionali dimostrano invece di essere dotate di uno spessore impossibile da ignorare? Dove finisce un universo e dove ne incomincia un altro?
Una lettura entusiasmante, impossibile da pensare in mano a nessun altro autore e che segna in maniera indelebile la potenza del Ellis pensiero. La narrazione è al centro di tutto e non possiamo fare altro che arrenderci e farci personaggi. Ellis lo dice nel documentario a lui dedicato e lo mette letteralmente in pratica entrando nella serie Powers di Brian Bendis e Michael Oeming (nel numero 7, per la precisione). Da qui in avanti il suo statuto di autore di primo piano è assoluto e incomincia a fare letteralmente quello che vuole, anche semplicemente accettando ogni titolo che gli venga proposto.
Un po’ di tutto
Dopo essere passato per “quello che lavora solo a quello che gli piace” passa a scrivere una lunghissima lista di titoli Marvel. X-Force, Generation X, X-Man, Astonishing X-Men, Ultimate Fantastic Four, Ultimate Galactus, Iron Man, Nextwave, Thunderbolts, Avengers, Moon Knight, Captain Marvel, Karnak. Alcuni titoli sono trascurabili, altri irrinunciabili. Ancora a oggi Nextwave rimane una delle serie di supereroi più genuinamente divertenti di sempre, senza mai abbassarsi a livello Deadpool e costringendo il lettore a diversi voli pindarici piuttosto impegnativi per capirne la potenza deflagrante fino in fondo.
Altre run fungono ancora da mucca da mungere a ogni occasione buona (il Tony Stark cinematografico è tutta farina di Ellis, dalla prima apparizione fino all’armatura liquida di Infinity War), a dimostrazione di quanto le sue idee non invecchino di un solo giorno. Allo stesso tempo continua il suo lavoro per la DC, scrivendo serie sempre all’avanguardia come Global Frequency, basata su di un gruppo di 1001 agenti speciali in costante comunicazione tra loro.
Nel 2007 arriva il suo primo romanzo, Con tanta benzina in vena, delirante noir dall’umorismo nerissimo e dalla follia dilagante. La prosa è grintosa e scattante e il solito armamentario di depravazioni sessuali fa il resto, garantendo al romanzo un buon successo. Nel 2013 arriva la seconda prova da scrittore, il thriller La macchina dei corpi, che lo fa finire direttamente nella lista dei best seller del New York Times. A chi ha il coraggio di fargli notare la somiglianza con una puntata di CSI risponde chiarendo immediatamente ogni dubbio: «In CSI se scoreggi mentre commetti un crimine, cattureranno quel peto e lo frazioneranno in laboratorio e capiranno dove hai mangiato il giorno precedente, e poi verranno a prenderti. La lezione di CSI è: non importa quali cose orribili succedano, i poliziotti carini si presenteranno e sistemeranno tutto e lo riporteranno allo status quo».
Naturalmente nel libro di Ellis non funziona proprio così. Anzi, nulla di quello scritto da lui funziona in maniera così semplice. Sia che si tratti di serie animate prodotte da Netflix basate su videogame anni Ottanta o nuovi − ancora! − fumetti pubblicati dalla rinata Image Comics, da una decina di anni a questa parte patria perfetta per autori in cerca di libertà espressiva.
Ellis e l’Image
La prima collaborazione arriva nel 2005, con la strana detective story Fell. L’aspetto che più colpisce della pubblicazione è l’organizzazione della pagina, sempre impostata su di una griglia a nove vignette. L’idea dei due autori − ai disegni troviamo un Ben Templesmith in grande spolvero − è di raccontare vicende complesse in un numero inferiore di pagine rispetto a quanto ci si aspetterebbe da una serie a fumetti statunitense, ambito in cui la decompressione è ormai dilagante e spesso fuori controllo, integrando piuttosto ogni numero con inserti in prosa e materiale extra. Nonostante la lavorazione travagliata, Fell finisce per essere nominata a due Eisner Award prima di far perdere del tutto le proprie tracce.
Nel frattempo la marea di scrittori in cerca di una valvola di sfogo dopo aver orchestrato l’ennesimo e inutile maxi-evento corporate continua a montare, e le serie Image da seguire a ogni costo sono sempre di più. Se i vari Jonathan Hickman, Matt Fraction, Mark Millar, Rick Remender e Ed Brubaker non possono fare a meno di arrivare in fumetteria con ogni idea gli passi per la testa, figurarsi se il nostro grafomane si tira indietro. Ed eccoci quindi arrivati alla fantascienza spinta di Trees, alla criptica metariflessione di Supreme: Blue Rose e al successo di Injection. Se non fosse che il ritmo produttivo è rimasto lo stesso da ormai vent’anni a questa parte, verrebbe da chiamarla una nuova giovinezza per Ellis, che nel frattempo non si fa mancare operazioni di mero mestiere come il rilancio di TUTTO l’universo WildStorm e una serie su James Bond per Dynamite.
Dopo più di ventiduemila battute mi rendo conto che, per quanto mi riguarda, parlare di Warren Ellis potrebbe benissimo ridursi a una mera lista di titoli da recuperare e leggere con tutta l’attenzione possibile. Solo quello importa. Dell’uomo dietro a quel muro di libri sappiamo poco e va benissimo così. Qualche aneddoto divertente siamo riusciti comunque a snocciolarlo, altrimenti sarebbe stata dura far arrivare qualcuno in fondo all’articolo, ma si tratta di piccolezze. Di tutta la sua narrazione personale, così fumosa, poco ci importa.
Ellis rimarrà per la centralità delle idee nelle sue storie. Come un architetto che non procede per mero accumulo, ma parte da un nocciolo duro su cui costruire tutto il resto della sua opera. Per quanto le sue storie paiano complesse e cervellotiche, il tutto è riassumibile in un pugno di parole: super-eroi su scala globale, archeologi dell’impossibile, Arancia Meccanica con tizi in costume (si parla dei Thunderbolts, per chi non l’avesse capito).
Ha sempre lavorato in questa maniera − dalla serie personale fino al rilancio più improbabile − garantendoci migliaia e migliaia di pagine dove un minimo guizzo autoriale riusciremo sempre a trovarlo. Anche quando è evidente che stesse scrivendo solo per pagarsi i conti. Una dimostrazione di agilità mentale che ha trovato il suo massimo splendore nella struttura industriale dell’intrattenimento statunitense, dove fermarsi significa sprofondare nelle sabbie mobili dell’invisibilità.
A pensarci bene si tratta di un’impresa con pochi pari. Perché passare per grandi scrittori scrivendo un libro ogni dieci anni è davvero molto difficile, ma raggiungere una tale statura non rinunciando a praticamente nessuna proposta di quelle che ti arrivano sulla scrivania è davvero un’impresa da giganti.