Brad Bird si ricorda solo la fretta di Ratatouille. Concepito da Jan Pinkava, il film Pixar con protagonista un topo che sogna di essere uno chef fu affidato a Bird quando le strade di Pinkava e Pixar si separarono per divergenze creative. Il regista de Gli Incredibili avrebbe però dovuto consegnare il prodotto finito entro la data di uscita originaria, giugno 2007.
Con appena due anni di tempo, le sue giornate erano monopolizzate dalla stesura di un nuovo copione e da incessanti riunioni con i reparti artistici. Non poteva concedersi il lusso di cincischiare in decisioni di poco conto come la scelta del titolo. «Steve Jobs vuole parlare del nome» lo informò il suo produttore una mattina, consegnandogli due pagine di potenziali titoli per il film. Di fronte alle lamentele di Bird, aggiunse: «Sei il regista, è parte del tuo lavoro. Guarda la lista e scegline uno, perché ne dovrai parlare con lui».
«Ratti!, La cucina segreta di Rémy, uno più stupido dell’altro» commentò Bird. Esasperato, optò per mantenere il titolo originale usato da Pinkava, Ratatouille. L’avrebbe portato come sua unica proposta. Entrando nella sala riunione dove Steve Jobs lo stava aspettando, sperava di poter archiviare in fretta questa scocciatura, ma era pronto a difendere la sua decisione prevedendo un grosso litigio sull’impronunciabilità del nome.
«È francese! È cibo! È una parola sola e contiene “rat”!» esclamò, contando con le dita i punti a suo favore, in preda a un’enfasi che poteva sembrare calorosa e insofferente allo stesso tempo. «Se il problema è la pronuncia metteremo la trascrizione fonetica ed educheremo il pubblico, invece di considerarlo una massa di stupidi». Jobs, capace di passare da uno sguardo sornione a uno che buca le persone da parte a parte nel giro di una frase, restò in silenzio e poi disse: «Ottimo!».
Bird l’aveva convinto con un’argomentazione forte, la convinzione delle proprie idee e l’assenza di mezze misure – tutti aspetti che Jobs apprezzava. Il mogul Apple voleva solo sentire una difesa appassionata, quello che Bird riesce a fare meglio con il proprio cinema: trasmettere passione.
Come il protagonista di Ratatouille, Bird è guidato da un’insaziabile fame per il proprio mestiere che lo guida in ogni scelta lavorativa e lo spinge a cercare il meglio per le sue preparazioni. «Quando lo conobbi capii subito che non aveva paura» ricorda Mark Andrews, story artist su Il gigante di ferro e Gli Incredibili. «Era un cowboy che imprecava e diceva “l’animazione è grande ma tutti la fanno male, insieme faremo cose stupende”. Firmai subito per lavorare con lui».
Non sarà stato un cowboy nell’accezione classica del termine, ma i capelli imbionditi dal sole californiano, gli occhi vispi e gli incisivi pronunciati appartenevano a un regista desideroso di esplorare le frontiere dell’animazione e del cinema. Forse Andrews aveva intuito che il regista proveniva da una terra di mandriani e miniere di carbone.
Animazione dell’artista da giovane
Nato nel 1957 a Kalispell, nell’estremo nord del Montana, Bird scoprì il disegno attraverso l’esperienza diretta, scarabocchiando sui fogli. Ma i suoi parti creativi avevano un’atipicità: erano in sequenza. Non particolarmente belli ma in grado di suddividere l’azione nei suoi momenti apicali. «Era il mio modo, da bambino di tre anni, di fare film.»
«Fare film» è la risposta che diede, dieci anni più tardi, al consulente scolastico che gli chiese cosa avrebbe voluto fare da grande. «Per dissuadermi, chiese “E se i film non esistessero, cosa ti piacerebbe fare?”» ricorda Bird. «Risposi che allora avrei dovuto inventarli.»
In un mondo dove tutto si muoveva al rallentatore e gli adulti erano soltanto foreste di gambe e rumori indistinti alle feste, piccole epifanie gli facevano capire che crescere avrebbe potuto riservare lati positivi. Come andare al cinema, a dieci anni, e vedere Il libro della giungla. «Riconobbi l’unicità della visione» avrebbe detto al programma radiofonico Q. «Bagheera era una pantera, non un gatto, una pantera. Si percepiva la differenza. E non era nemmeno una pantera qualsiasi, era una pantera inflessibile. C’era qualcuno dietro, il lavoro di qualcuno era analizzare come si muove una pantera inflessibile. D’un tratto, essere un adulto non sembrava poi così male.»
Brad puntò al precoce debutto come regista undicenne con un corto che rielaborava La lepre e la tartaruga in stile Wile E. Coyote e Beep Beep. The Tortoise and the Hare fu lo sforzo di tre anni passati a disegnare nella cantina di casa dove il padre gli aveva messo in piedi una postazione da animatore. Spedì il corto alla Disney – perché i genitori gli avevano insegnato a puntare al massimo e da lì scendere, «così chiunque ti risponderà corrisponderà al meglio che potrai ottenere» – ricevendo un riscontro positivo.
Gli assegnarono un impiego informale, dicendogli che, ogniqualvolta fosse stato di stanza a Los Angeles, lo avrebbero accolto. Complice l’ospitalità di alcuni amici di famiglia, passava due settimane al mese negli Studi, imparando dagli animatori che gli affidavano incarichi vari. Il suo referente in Disney era l’uomo che aveva animato Bagheera e Shere Khan ne Il libro della giungla, Milt Kahl. Definito il «Michelangelo dell’animazione», Kahn era uno dei Nine Old Men che aveva affiancato Walt Disney da Biancaneve e i sette nani fino a Il libro della giungla, proseguendone l’eredità con Robin Hood, Gli aristogatti e Le avventure di Bianca e Bernie.
«Diceva sempre “Non scegliere la prima cosa che ti viene in mente”. È possibile ottenere il successo se si è disposti a spendere tempo nell’esplorazione delle varie possibilità. Ma non succede se si fanno le cose a metà.» Più che l’animazione, da lui Bird imparò a essere intollerante nei confronti della mediocrità.
Intransigente e alla spasmodica ricerca dell’eccellenza, Kahl non era uomo a cui piaceva stare con i più giovani e non era neanche granché come oratore. La scarsa pazienza e l’eloquio sfarinato non lo rendevano un insegnante particolarmente efficace, si imparava ascoltando il suo processo mentale o vedendolo lavorare.
Durante una lezione del 1976 al CalArts lo si sentì tartagliare: «Sapete, forse se mi fate delle domande è meglio». Bird era nel pubblico a mitragliarlo di quesiti. «A me piaceva che avesse opinioni forti. La gente vuole sempre che gli altri si comportino bene» avrebbe ricordato. «Non penso che la storia venga scritta da gente che si comporta bene».
Pronto a dirigere il suo secondo corto, Brad iniziò a guardarsi attorno. Ci sarebbero voluti chissà quanti anni per ultimarlo. Questa volta rinunciò e andò a vivere la sua adolescenza. Tornò alla sua passione dopo il liceo, grazie a una borsa di studi per il California Institute of the Arts (da qui in poi CalArts), la scuola che sarebbe divenuta famosa come fucina di talenti (tra i compagni di corso di Brad ci furono Tim Burton, Henry Selick, John Lasseter e John Musker). Bird si sentiva «il più giovane pensionato che tornava al mondo dell’animazione», come avrebbe ironizzato durante una rimpatriata organizzata da Vanity Fair.
Assunto in Disney, scoprì però che l’azienda era diventata un posto dove i mediocri avevano fatto leva sul principio di anzianità per scalare i ranghi. Un giorno, un animatore quarantenne in odore di promozione radunò alcuni di loro nel suo ufficio. «La prima cosa che uscì dalla sua bocca fu “Sono soddisfatto del mio lavoro”» avrebbe raccontato Bird a McKinsey Quarterly. «Con quell’attacco mi perse, perché avevo lavorato con i vecchi maestri Disney e non erano mai soddisfatti del loro lavoro.»
Molti neoassunti lamentavano la pochezza dei progetti in lavorazione, Red e Toby nemiciamici e Taron e la pentola magica, ma nessuno osava andare contro i rappresentanti di un’istituzione. Tolta la Disney, l’unico altro impiego per un appassionato di animazione era un lavoro nelle produzioni a basso costo dei cartoni del sabato mattina, considerati l’ultimo anello della catena evolutiva del settore.
Mentre l’amico Tim Burton sfogava l’insoddisfazione lavorando a opere collaterali come Frankenweenie, Bird criticava apertamente le politiche creative dello studio. Scoprì che «a nessuno piaceva sentirsi dire come poteva fare meglio il proprio lavoro» e, in seguito all’ennesima alzata di capo, fu licenziato.
Investì di tasca propria su A Portofolio of Projects, un montaggio che raccoglieva una serie di proof of concept per film d’animazione e che avrebbe aiutato a far circolare il proprio nome tra gli addetti ai lavori. La punta di diamante del portfolio era The Spirit, un potenziale adattamento del fumetto di Will Eisner.
Poco incline al compromesso, Bird non si sarebbe però accontentato di uno sponsor qualsiasi. «Ci sono solo quattro persone a cui lo voglio proporre: George Lucas, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola o Gary Kurtz». Bird inviò il portfolio a Spielberg, ma ad accogliere l’idea fu il quarto nome della lista, Gary Kurtz.
Kurtz, produttore di Star Wars, accettò di farsi garante del progetto, ma ogni major di Hollywood, pur apprezzando la sceneggiatura, «non capiva perché avremmo dovuto realizzarla a cartoni. “Perché non lo fate dal vivo?”, era la domanda più frequente». Bird imparò in quegli anni che un pensiero del genere avrebbe condotto presto all’obsolescenza.
Non era quello il senso di un disegno animato. L’animazione coglie il cuore di un personaggio, l’essenza, attraverso la caricatura, non soltanto quella grafica ma anche quella vocale o prossemica. Gli animatori migliori sono gli imitatori migliori perché sanno spogliare un evento di tutto ciò che non lo caratterizza, lasciando intatte le peculiarità, per far emergere con maggior nitidezza il soggetto. Ignorare questo significava ridurre una forma espressiva a un surrogato del cinema dal vivo. Dopo quattro anni e mezzo passati a lavorare sul film e cercare finanziatori, il gruppo gettò la spugna.
Primi successi, ultime tribolazioni
Pur essendosi mostrato tiepido nei confronti di The Spirit, Spielberg rimase colpito da un’altra idea inclusa nella raccolta, Family Dog, il racconto di un cane distante dai canoni con cui l’animazione rappresentava gli animali. «Il cane non parla, non ammicca allo spettatore» spiegò Bird al Los Angeles Times. «È una caricatura di un cane, certo, ma la caricatura è ottenuta soltanto con l’animazione, una cosa difficile da conseguire.»
Spielberg assunse Bird per sviscerare l’idea. Coadiuvato da Burton, che aveva disegnato i personaggi nel test originale, Bird cucì insieme una serie di vignette con protagonista il bull terrier della famiglia Binfords e il risultato, Family Dog (in Italia conosciuto come Qua la zampa Doggie), diventò un episodio della seconda stagione di Storie incredibili. Era il 1987 e Qua la zampa Doggie inaugurò la carriera di Bird, che colse l’occasione per varare una delle easter egg più prolifiche del cinema statunitense: A113, il numero della classe frequentata al CalArts. Bird la chiama «la mia versione della Nina di Hirschfeld».
Fino ad allora, i cartoni televisivi avevano una grammatica povera. Anche nei prodotti scritti meglio− I Flintstone, Jonny Quest, Peanuts − le scene erano rudimentali e costruite sempre con le stesse inquadrature: una panoramica per stabilire l’ambiente, un mezzobusto per le scene di movimento, dialoghi in primo piano, tutto basato sull’economicità della resa e la rapidità della realizzazione.
Qua la zampa Doggie era l’esatto opposto. Nei ventidue minuti della puntata le prospettive ardite, i movimenti di camera e il montaggio che alternava piani sequenza e mitragliate di stacchi balzarono subito agli occhi degli spettatori.
Qua la zampa Doggie ebbe un successo tale da spingere Spielberg a varare una serie tv con cui però Bird non volle avere nulla a che fare, perché riteneva che non fosse possibile replicare la qualità del prodotto originale su base settimanale. «Molti dei miei sentimenti riguardanti il business dell’animazione riconducevano a una scelta» scrisse in un pezzo per Animation World Network, «un progetto pieno di risorse e tempo con una storia fiacca oppure un progetto con zero budget e poco tempo per realizzare materiale fresco ed entusiasmante. Ho sempre scelto la seconda opzione e mi sono ritrovato con prodotti superiori a qualsiasi altra cosa avessi mai visto». Lo show, pubblicizzato in pompa magna nell’estate del 1993, durò a malapena una stagione.
Qua la zampa Doggie rimase nella memoria più per l’apporto di Tim Burton nel design, e Brad non riuscì a capitalizzare le opportunità offerte da Spielberg. «Forse ero troppo stupido o inesperto per poterne approfittare» avrebbe confidato a Ain’t It Cool News nel 1999. Regredì allo stadio di ragazzo prodigio con grandi speranze ma non altrettanto tempo per realizzarle. Ogni suo progetto cinematografico finiva nel limbo o, peggio, nel development hell.
Essere entrato nella corte di re Spielberg, alla fine, portò i suoi frutti. Matt Groening, James L. Brooks e Sam Simon stavano sviluppando un cartone da trasmettere in fascia serale, I Simpson. A Brooks e Simon piaceva lo stile cinematografico di Qua la zampa Doggie e scelsero Bird come consulente visivo per far fare alla serie il salto da cortometraggi di un minuto a puntate di mezz’ora. «In pratica dirigevo i registi» avrebbe spiegato in seguito.
Forniva correzioni alle scelte prese negli storyboard, portando un vocabolario sofisticato al passo con le sceneggiature erudite della serie. «Consideravo gli episodi film in miniatura e spingevo affinché gli artisti degli storyboard si facessero influenzare da Kubrick e Welles invece che disegnare la prima cosa che gli veniva in mente.»
Se la televisione stava riscoprendo il cartone come formato espressivo, il cinema non era da meno. Negli anni Novanta l’industria dell’animazione raggiunse il suo picco. Di fronte ai successi de La sirenetta, La bella e la bestia, Aladdin e Il re leone si scatenò una corsa all’oro che fece fiorire il settore. Ogni major di Hollywood si attrezzò con un proprio studio d’animazione o appaltò i lavori a terzi pur di avere qualche cartone nel loro catalogo, pescando a strascico dalle scuole d’arte per assumere studenti non ancora diplomati. In questo periodo di eccessi e iperfertilità, Bird non produsse nulla.
Colto da una crisi di mezza età, con due figli piccoli e un altro in arrivo, immaginò il protagonista di un film, Bob, un supereroe che si barcamena tra famiglia e lavoro e rimpiange i tempi passati. «All’epoca, avevo molte ansie riguardo al tempo da dedicare al lavoro, che per me era importante, e quello da passare con la mia famiglia, che era altrettanto importante. Se mi fossi dedicato a uno, avrei trascurato l‘altro?» avrebbe raccontato al San Francisco Chronicle. «Iniziai con il personaggio di Bob e da lì mi ritrovai a giocherellare con la storia di continuo.»
Nel 1993, Tony Fucile, con cui aveva lavorato su Qua la zampa Doggie, realizzò degli schizzi a matita. Non andarono oltre e quei fogli rimasero l’ennesimo progetto in stato embrionale nel curriculum di Bird.
Alla fine, il cinema
Dopo nove stagioni da consulente de I Simpson, durante le quali diresse due episodi e il video musicale Do the Bartman, arrivò la chiamata del cinema. La Turner Entertaiment lo assunse per dirigere Ray Gunn, una detective story retrofuturistica che mischiava Raymond Chandler e Buck Rogers. Scritto insieme a Matthew Robbins, era ambientato in un mondo di umani e alieni e trattava il futuro attraverso la lente dei romanzi pulp anni Trenta.
Il film sembrava pronto a entrare in produzione, finché, nel 1996, Warner Bros. acquistò la Turner e i suoi cespiti, comprendenti la CNN, Cartoon Network, gli studi Hanna-Barbera, la MGM, gli Atlanta Braves. In mezzo a queste enormi franchigie c’erano anche gli ultimi tre mesi del contratto di Bird.
I dirigenti Warner non volevano produrre Ray Gunn ma erano comunque interessati a collaborare con il regista. Bird adocchiò l’adattamento animato di The Iron Man: A Musical, il concept album di Pete Townshend del 1989, a sua volta basato sul romanzo di Ted Hughes L’uomo di ferro. Ispezionò i materiali realizzati fino ad allora, poi lesse il libro e capì che l’idea dell’ennesimo musical a cartoni non si sposava con il testo di partenza.
Ted Hughes aveva scritto L’uomo di ferro per confortare se stesso e i tre figli in seguito al suicidio della moglie, la poetessa Silvia Plath. Bird ci vide una connessione personale: anni prima, sua sorella Susan era stata uccisa da un colpo d’arma da fuoco sparato dal marito. «Non ho molti ricordi di quel periodo e l’unico evento positivo fu il mio lavoro su I Simpson» spiega Bird nel documentario The Giant’s Dream. «L’aspetto curativo della storia mi attraeva forse perché non ero ancora riuscito a scendere a patti con la morte di mia sorella.»
Invece di un film musicale, Bird propose un high concept, «Cosa succederebbe se un’arma sviluppasse un’anima e scoprisse di non voler essere un’arma?». Ambientando l’amicizia tra il ragazzino Hogart e un E.T. di ferro in una cittadina del Maine del 1957, il regista esplorò il lato intimista della vicenda, contrapponendo le atmosfere idilliache di Norman Rockwell al clima di paranoia della Guerra fredda.
Il retroterra televisivo gli fu d’aiuto per sostenere le scadenze stringenti e la spartanità delle risorse. Con i migliori talenti già accaparrati, avrebbe dovuto guidare una squadra di giovani inesperti e professionisti richiamati dalla pensione. Lo stesso Bird, da poco quarantenne, per quanto tenuto in ottima considerazione dall’industria, era un esordiente.
«In televisione, se rallenti vieni mangiato vivo» disse a Film Journal. «È come la scena dell’impacchettamento del cioccolato in I Love Lucy. La tv ti costringe a prendere decisioni in fretta.» Le animazioni de Il gigante di ferro terminarono tre settimane prima rispetto a quelle di Tarzan. Il cartone Disney aveva iniziato i lavori un anno prima e vantava tre volte il loro budget e quaranta animatori in più.
Il gigante di ferro uscì nell’agosto 1999. Le recensioni furono entusiaste. Roger Ebert, Kenneth Turan e Richard Schickel lo promossero a pieni voti, e lo stesso fecero le più importanti testate americane. Tutti erano in uno stato di frenesia. «Pensavamo sarebbe stato nominato agli Oscar come miglior film» commentò Mark Andrews. Tutti, tranne il pubblico.
Ancora scottata dall’insuccesso del precedente film animato, La spada magica – Alla ricerca di Camelot, Warner perse interesse per Il gigante di ferro, e il reparto marketing si mosse tardi e male. Niente merchandising e accordi commerciali siglati in ritardo si tradussero in una percezione del pubblico pari a zero. I trailer furono montati con una canzone heavy metal (perché il robot è di metallo, no?) e una narrazione piena di giochi di parole, per far passare l’idea che fosse una commedia sguaiata.
Certo, la casa di produzione non promosse abbastanza il film presso gli spettatori ma, secondo Bird, ebbe il merito di non spaventarsi di fronte a un cartone che si allontanava dalle consuetudini. Insomma, il lato positivo era che avevano prodotto il film, e a Brad tanto bastava. Era tempo di scrollarsi di dosso la delusione e voltare pagina.
Sbucato dal passato
Mentre rimetteva insieme i cocci del suo sogno professionale, Bird si guardò intorno. I suoi compagni di classe del CalArts se la stavano passando più che bene: Tim Burton era diventato un autore venerato per la sua estetica gotica, John Musker aveva diretto La siretta, Aladdin e Hercules e John Lasseter aveva rivoluzionato l’industria con il primo film realizzato interamente al computer, Toy Story. Proprio Lasseter invitò l’amico in Pixar affinché apportasse, da esterno, stimoli nuovi a una compagnia che avrebbe potuto adagiarsi sugli allori.
Bird aveva già il pitch pronto, una paleo-versione di quel cartone su cui rimuginava dal 1993, Gli Incredibili. L’idea piacque, tranne la parte in cui si accennava all’animazione tradizionale. Bird avrebbe dovuto fare il salto dalla matita al mouse.
La nuova tecnica lo attirava, gli piaceva in particolare l’idea di poter muovere la cinepresa, ma Gli Incredibili era una storia di esseri umani e i risultati di Tin Toy o Toy Story avevano dimostrato che l’animazione digitale non aveva ancora superato lo scoglio dell’uncanny valley. Bird si convinse solo dopo aver visto le interpretazioni dei personaggi umani presenti in Il gioco di Geri e Toy Story 2.
Il 4 maggio 2000 lo studio annunciò la firma del contratto con Bird. Meglio ancora, Lasseter e Jobs gli dissero che avrebbe potuto portare con sé una manciata dei suoi collaboratori. A Emeryville sbarcarono così i talenti dietro a Il gigante di ferro, tra cui il produttore John Walker e i disegnatori Tony Fucile, Mark Andrews, Lou Romano e Teddy Newton.
Lo stacco tra i pixariani e i nuovi arrivati era lampante: i primi avevano un’immagine di creativi spensierati che andavano in giro in monopattino, vestivano camicie hawaiane e si crogiolavano nel cameratismo. Bird e i suoi avevano visto il mondo vero, là fuori, erano motivati e seri.
«Quando entrammo alla Pixar, di qualsiasi cosa si parlasse era sempre “noi contro loro”» ricorda Andrews. A fare muro di fronte ai primi storyboard de Gli Incredibili furono anche i dirigenti Disney, uno dei quali ebbe a dire: «Questo è un film da fare in live action, proprio non capisco perché lo vogliate fare in animazione». Bird ricordava di aver già sentito dire questa rimostranza, in passato.
Il miscuglio di sensibilità diverse diede buoni frutti e cambiò la filiera produttiva dello studio. «Spendemmo meno soldi al minuto di quanti ne spesero su Alla ricerca di Nemo e portammo a casa un film che aveva tre volte il numero di set e tutto quello che il computer ha difficoltà a ricreare. Solo perché ci lasciarono fare le cose a modo nostro.»
Un esempio pratico: una progettazione più attenta e un regista con le idee più chiare permisero ai tecnici di costruire set che funzionassero solo per le inquadrature necessarie, invece di creare ambientazioni che si potessero riprendere da ogni punto di vista, portando a un risparmio considerevole.
Pensare come un leader
Gli Incredibili è anche lo scontro tra una mentalità in 2D e le nuove tecnologie. La squadra di Bird ebbe difficoltà a raccapezzarsi con quelle animazioni tridimensionali non renderizzate, prive di simulazioni (senza vestiti e capelli) o con occasionali glitch. Nonostante il cambio, Bird non adattò il design dei personaggi alla nuova tecnica, ma fece il contrario. Bob ha un torace abnorme montato su piedi piccolissimi, Mirage ha proporzioni anatomiche impossibili e tutta la credibilità del film viene strattonata in nome della stilizzazione.
Grazie al digitale, però, l’urgenza e la trascinante passione di Bird si tradussero appieno nel film, il più movimentato fino ad allora in termini di messa in scena. La cinepresa virtuale sfreccia tra gli inseguimenti e il montaggio si fa sincopato, sfiorando i limiti del subliminale in due sequenze, la cattura di Mr. Incredibile e la fuga di Elastigirl dai missili del cattivo Sindrome.
Dietro Gli Incredibili c’è soprattutto un regista che fa diventare la cinepresa l’occhio con cui guarda il mondo. Mentre i cinecomic di quell’anno (Spider-Man 2, The Punisher e Catwoman, con l’eccezione del gotico Hellboy) possedevano un impianto visivo anonimo, Bird introdusse il retrofuturismo.
Il futuro visto con gli occhi dell’estetica anni Sessanta era stata una costante delle sue abbuffate cine-televisive come Jonny Quest o Missione Goldfinger, le prime avventure che lo avevano entusiasmato da bambino. I supereroi che più lo avevano convinto erano state le spie segrete: «James Bond era, in fondo, il miglior supereroe di tutti» spiega nel podcast Playback, «perché aveva i cattivi migliori, i gadget migliori, le colonne sonore migliori. Quando penso all’idea del supereroe ho sempre la sensazione di un supereroe spia».
Una delle ragioni per cui avrebbe scelto di dirigere, come suo primo film dal vivo, Mission Impossible – Protocollo fantasma, è proprio l’amore per le spie e il desiderio di giocare con la figura di un agente segreto à la James Bond.
Nonostante il cambio di ambiente lavorativo, l’approccio di Bird rimase uguale, e la troupe dei documentari presenti nel DVD de Gli Incredibili ebbe il suo bel da fare a girare attorno alla furia del regista, tagliare le parolacce e non mostrare le zuffe con il produttore John Walker. Per Bird, il fine ultimo di questi conflitti non era la prevaricazione ma il miglior film possibile.
All’inizio della lavorazione di Ratatouille chiese di ripensare l’aspetto dei topi. Nella versione precedente, tutti i topi camminavano su due zampe. Così erano stati pensati in fase di design e così erano stati costruiti al computer per essere animati, su due zampe. La troupe scoraggiò la scelta: aveva passato un anno a rendere presentabili i roditori bipedi, farli recitare proni significava ricominciare da capo.
Un membro dello staff si impuntò: «Voglio sapere perché lo stai facendo». Bird, che aveva accettato l’incarico con riluttanza, avrebbe potuto far valere il suo ruolo. «Mi fermai. Pensai, questi ragazzi non fanno che incappare in vicoli ciechi da due anni a questa parte. Vogliono sapere che non sto facendo nulla a cuor leggero e se chiedo del lavoro in più, c’è un motivo.»
Invece che zittire l’obiezione con un «Perché sono il regista e si fa come dico io», spiegò che il cambiamento colpiva il cuore il film: Rémy è un topo che vuole vivere nel mondo degli uomini, ha gli stessi desideri degli umani e questa distinzione rispetto ai suoi simili va comunicata, tra i tanti elementi, con la postura. Soltanto lui può camminare a due zampe, scegliendo di emanciparsi dalla quadrupedia. «Se può scegliere di stare su due o quattro zampe, allora possiamo renderlo più o meno roditore, più o meno umano, a seconda del suo stato d’animo. E così il pubblico entra in connessione con il personaggio.»
Conclusa la faticosa esperienza, pensò di prendersi una pausa dall’animazione e passare al cinema dal vivo. La corte spudorata che gli fece Tom Cruise, rimasto ammaliato dalle scene d’azione de Gli Incredibili, sortì il suo effetto. Nel 2011 il regista se ne uscì con Mission Impossible – Protocollo fantasma, quarto capitolo di una saga che sembrava sul punto di esalare gli ultimi fotogrammi e che invece, complice una sceneggiatura solida e una regia vivacissima, fece tornare rilevante il franchise.
Problemi di poetica
Con appena quattro film all’attivo, la poetica di Bird si stava delineando con precisione. I critici colsero un elemento in particolare, l’Oggettivismo, insieme di teorie filosofiche creato da Ayn Rand. La scrittrice aveva sostenuto l’individualismo spinto, l’egoismo razionale e posto le basi per le posizioni conservatrici del libertarianismo.
Individuato dal critico A.O. Scott, il darwinismo sociale che ammanta le opere di Bird ha trovato conferme maggiori in seguito all’uscita di Tomorrowland, la sua seconda incursione nei live action e primo flop completo (di pubblico e critica) della sua carriera. Nel film del 2015, George Clooney veste i panni di un inventore che finisce nella realtà parallela di Tomorrowland, una versione disneyana di Galt’s Gulch, luogo che Ayn Rand immaginava come rifugio delle menti più eccelsi in La rivolta di Atlante.
«A Brad Bird non interessate» scriveva un critico del Globe and Mail, parlando della morale di Tomorrowland, «a meno che non siate dotati di un talento, a meno che non siate parte dello 0,01% della popolazione davvero speciale, la cui superiorità è innegabile».
Bird ha ripetutamente screditato la lettura oggettivista della propria filmografia, concedendo di essere «stato interessato a Rand per circa sei mesi quando avevo vent’anni, ma poi si cresce e ci si allontana da quei punti di vista molto ristretti».
A Den of Geeks disse che l’individualismo, da giovani, è un valore importante, ma che «quando si diventa adulti, si notano i limiti di quel concetto. Il compromesso non è sempre una cosa negativa». Si è definito politicamente un centrista e ha più volte supportato la senatrice Elizabeth Warren, che degli attacchi al libertarianismo ha fatto una cifra stilistica.
@lovelyallen I've always thought the Ayn Rand comparison lazy & inaccurate at best. But some get what I'm going for; https://t.co/qqM8ewDbzz
— Brad Bird (@BradBirdA113) June 23, 2015
Dave Sims sull’Atlantic ribatté con una lettura alternativa, asserendo che il tema centrale della poetica birdiana fosse la sfida creativa: «L’immagine ricorrente è quella del genio frustrato, chiuso in uno sgabuzzino a ossessionarsi su un talento che deve nascondere», un’idea maturata da un autore che ha debuttato come regista a 42 anni, dopo una sfilza di progetti non realizzati, nonostante tutti nell’industria lo tenessero in gran considerazione. Gli Incredibili, Ratatouille e Tomorrowland parlano di esuli incompresi, di antagonisti che frenano la creatività altrui.
«Bird sarà anche affascinato dalle persone eccezionali» scrive Vox, «ma non è affatto interessato all’eccellenza se non è a servizio della comunità». L’equivoco interpretativo nasce probabilmente dal fatto che Brad Bird non tollera la mediocrità e chi ne fa una stelletta da appuntarsi al petto. In fondo, Ratatouille è un film che parla di come i talenti possano provenire dai posti più inaspettati. Il vero peccato, per lui, è la mancanza di impegno.
I suoi film sono pieni di scene che denunciano la mancanza di ambizione. Bob ne Gli Incredibili lamenta le continue premiazioni scolastiche, encomi alla medianità, e Flash lo spalleggia dicendo «se tutti sono speciali, è come dire che non lo è nessuno». Ne Il gigante di ferro il protagonista Horgart confessa di trovare poco stimolante le attività scolastiche e lamenta le vessazioni subite dai bulli che lo hanno preso di mira perché pensano che il ragazzino si creda più bravo di loro: «Faccio solo i compiti, se facessero altrettanto guadagnerebbero un anno di scuola».
Verso l’infinito e oltre
Come il peggiore dei cliché, era una notte buia e tempestosa del 2015. Brad Bird convocò il team appena formatosi de Gli Incredibili 2 allo Skywalker Ranch, dove stava ultimando Tomorrowland. Aveva un pitch per il film. Ricontestualizzando parte del materiale scartato per il primo episodio, Gli Incredibili 2 pone al centro della trama il ruolo della donna e l’ossessione per la tecnologia, senza dimenticare le dinamiche famigliari, il vero nodo d’interesse per Bird.
Sfogliando The Art of Incredibles 2 si nota la ricerca costante di mescolare design moderni con il retrofuturismo, principale vocabolario visivo del franchise. Poco dunque è cambiato da quel primo capitolo e, semmai, a essere diverso è il mondo attorno al film. Il sequel arriva dopo quattordici anni di cinecomic vissuti al massimo, una situazione che Bird definisce «come giocare su un prato che ha visto troppe partite, non c’è erba e non cresce più la vita».
Ciononostante, gli sforzi del gruppo Pixar sono stati ripagati. Gli Incredibili 2 ha infranto quasi tutti i record d’incasso relativi a un lungometraggio animato, palesando un affetto del pubblico che in questi anni era rimasto perlopiù silenzioso. La critica è andata a braccetto con i consensi del pubblico e i prossimi mesi Bird li passerà in un perenne victory lap che porterà il film fino alla stagione dei premi, dove si presume che il cartone farà incetta di trofei. E dopo?
«I miei progetti dopo Gli Incredibili 2 sono sia dal vivo che animati» ha svelato. «Vorrei tanto realizzare un altro film in animazione tradizionale. Ho un prurito che solo il disegno a mano può grattarmi». Sul piatto c’è 1906, un kolossal sul terremoto avvenuto nei primi del Novecento a San Francisco. O magari Ray Gunn, il progetto che avrebbe dovuto avviare la sua carriera di regista.
«Mi manca l’animazione tradizionale» continua a dire, dimostrando che la sua passione non è diminuita da quando aveva visto Il libro della giungla a dieci anni. «Mi manca quando disegni una linea attorno al personaggio che è irreale ma vivo. Quando l’imperfezione è meglio della perfezione perché proviene da un’emozione. L’abilità di toccare un disegno e sapere che c’è del materiale tra chi lo tocca e la carta, sapere che quel pezzo è unico nell’universo. C’è della magia inspiegabile in tutto questo.»