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50 anni di graphic novel italiani, e qualche problema di musealizzazione

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La mostra Fumetto italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnatiinaugurata lo scorso 27 febbraio al Museo di Roma in Trastevere, rappresenta un’ottima occasione per apprezzare l’ultimo mezzo secolo di storia del fumetto italiano, in un percorso che si snoda attraverso le tavole originali (ma sul concetto di ‘originalità’ torneremo) di alcuni dei suoi più importanti e influenti protagonisti.

fumetto italiano

Le opere esposte sono molte – 40 per un totale di 300 tavole – e ben selezionate, alcune scelte con particolare originalità (penso a Fuzzi Bugsi di Massimo Giacon e in special modo a L’Obliquomo di Sergio Ponchione), la location piacevole, la collocazione ben curata. Elementi questi che, uniti alla penuria di esposizioni di questo tipo, per lo meno di così ampio respiro e, soprattutto, allestite al di fuori di ambiti prettamente dedicati agli appassionati e ai collezionisti (fiere, gallerie ecc.), fanno di questa mostra un’occasione rara per il grande pubblico di apprezzare una forma comunicativa che, seppure oggi meno bistrattata di ieri, resta ancora ai margini del complessivo dibattito culturale e artistico. E il lato narrativo del fumetto è stato posto – con tutte le problematicità del caso – al centro di questo percorso. Si è scelto infatti intelligentemente di esporre non le tavole “migliori” di un dato autore, bensì quelle che aprono l’opera scelta per rappresentarlo. Se questo a volte rischia di mortificare l’impatto visivo, permette però di ottenere un interessante risultato: la dimensione narrativa del fumetto ne esce rafforzata. Chi visiterà questa mostra non si troverà davanti dei pezzi di bravura isolati dal contesto della narrazione che li contiene, come succede invece troppo spesso in altre occasioni, dove le tavole vengono scelte ed esposte quasi per il loro valore puramente grafico/pittorico. Questo permette di spostare il discorso – dichiaratamente – dal fumetto come pura arte grafica al fumetto come forma narrativa romanzesca o para-romanzesca. Ciò, naturalmente, comporta tutta una serie di rischi e problematicità storico-critiche che rappresentano il vero problema di questo evento.

Il percorso espositivo proposto, infatti, si regge in pratica su un solo, discutibile, assunto, da cui deriveranno tutti i criteri di scelta che hanno coinvolto autori e opere e cioè che Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt sia, come recita il relativo cartello esplicativo, il “primo autentico romanzo a fumetti, secondo la critica europea e non solo”. Su cosa sia un “romanzo a fumetti” si potrebbe discutere a lungo. L’originale veste editoriale seriale dell’opera di Pratt non rappresenta certo un problema – e in parte certo giustamente – per i curatori, soprattutto visto che è possibile ricollocarla comodamente nell’alveo della famosa definizione di “letteratura disegnata” coniata dal fumettista riminese. Accettare come assodata la paternità del graphic novel da parte di Pratt, tuttavia, non rappresenterebbe un grande problema a una condizione: evitare, partendo da questo assunto, di creare una linea di continuità genealogica fra queste opere e quelle coeve, appartenenti al più recente fenomeno del graphic novel.

Bisogna dire innanzitutto che la critica non è in assoluto concorde nel definire Una ballata del mare salato “il primo autentico romanzo a fumetti”, qualunque cosa ciò voglia dire. Solo per fare un esempio pesa, nella scelta degli autori esposti, in particolare una eccellente assenza, quella di Guido Buzzelli e del suo La rivolta dei racchi, pubblicato in volume nello stesso anno del racconto di Pratt. Per quanto la forma editoriale del volume non sia condizione sufficiente a definire un “romanzo a fumetti”, di certo La rivolta dei racchi rientra perfettamente, anche per via della sua pubblicazione originale in forma unitaria, in questa pur vaga definizione. Ciò ci permette di parlare anche dei criteri di selezione adottati dai curatori di questa esposizione.

buzzelli

Come afferma Silvano Mezzavilla in uno dei saggi a corredo del corposo catalogo della mostra:

I più esperti rileveranno che molti tra i romanzi selezionati sono stati creati appositamente per essere stampati in un libro, che vari altri, prima di finire in un volume, sono apparsi, anche a puntate, su riviste, su almanacchi, su albi seriali, e che ad altri non è mai capitato di uscire dal perimetro dei periodici. Questa varietà di formati editoriali, le cui motivazioni sono storiche e industriali, non ha avuto peso sulle valutazioni perché si è guardato esclusivamente alla consistenza narrativa delle opere, alla loro rilevanza all’interno degli specifici generi, agli esiti artistici della sinergia tra parola e immagine, alla struttura progettata dall’autore, magari così articolata e profonda da doversi sviluppare in forma di saga – in questo modo aderendo alla consuetudine invalsa nella produzione letteraria che assegna lo statuto di “romanzo” sia a Il Circolo Pickwick di Charles Dickens, pubblicato in fascicoli mensili, sia alle indagini del commissario Montalbano, di volta in volta raccontate da Andrea Camilleri, sia alla prosa estesa di scrittori famosi o esordienti.

Proprio per via ciò, come detto, l’esclusione di un autore fondamentale come Buzzelli, per quanto oggi largamente dimenticato e raramente e mal ristampato, sembra per lo meno anomala. E sebbene il suo ruolo sia riconosciuto in alcuni testi del catalogo che accompagna la mostra, si potrebbe pensare – sempre che la scelta non sia stata dettata da ragioni operative (ad esempio legate ai diritti)* – che sia dipesa dalla volontà di non “macchiare” il primato prattiano. Discorso diverso invece quello relativo ad un altro grande assente, Gianni De Luca. Sempre Mezzavilla chiarisce che:

dato che la professione è affollata – particolarmente da quando giovani dotati di indubbi meriti hanno dato alle stampe le loro opere prime – la preferenza è andata a romanzi firmati da un unico autore, creatore sia dei testi sia dei disegni, operante nel fumetto in maniera non occasionale ovvero con più di una esperienza specifica alle spalle. Insomma, si è privilegiata l’autorialità a tutto campo, espressione di una singola volontà: quella dell’artista che tiene le redini di linguaggi paralleli, a volte convergenti, ma mai ridondanti, che integra parola e immagini simultaneamente e perfettamente, in modo che il suo disegno esprima le atmosfere e le emozioni che la parola evoca, e che la parola definisca situazioni che il disegno completa.

Il mito dell’autorialità sembra, a tutti gli effetti, un residuato di una sofferenza critica che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, aveva bisogno di riscattare il fumetto dalla sua presunta origine popolare, anonima e artigianale e, di certo, figure come Pratt o Crepax, riconoscibili spesso anche al di fuori dell’ambito degli appassionati, hanno contribuito non poco a colmare questo vuoto, rendendo identificabili con un volto e una voce un’arte che era per lo più anonima. Non si può certo sottovalutare che lungo tutta la storia del romanzo, infatti, si possono rintracciare opere scritte a quattro o a più mani (si pensi solo alle coppie Fruttero/Lucentini, Borges/Casares, Dick/Zelazny, King/Straub), fino alle più o meno recenti operazioni di scrittura collettiva. Ma va anche evidenziato come il fumetto, per lo meno a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, si sia sviluppato – anche in molte sue esperienze romanzesche o para-romanzesche – grazie alla cooperazione di diverse professionalità creative. Se è vero quindi che dei criteri che permettessero di restringere il campo rispetto ad una produzione vastissima e variegata andavano adottati (al netto di un paio di adattamenti, quelli di Scozzari e Palumbo), per quanto riguarda il fumetto quello della “monogenitorialità” o monoautorialità non sembra certo uno dei più adatti, soprattutto per i paradossi che crea. Se da una parte un gigante come Gianni De Luca viene giocoforza escluso, si sceglie invece di includere opere come Sprayliz o Napoleone che, al di là dei giudizi personali, sono frutto di autori e progetti narrativi che si sono formati in un contesto per lo più seriale-commerciale.

Dal sito ufficiale della mostra
Dal sito ufficiale della mostra

Intendiamoci, è cosa buona e giusta che la mostra non abbia adottato un atteggiamento snob e che il fumetto definito “popolare” sia stato largamente rappresentato al pari di quello che una volta veniva definito “intellettuale”. La scelta di un autore come Carlo Ambrosini, ad esempio, appare particolarmente azzeccata e adatta a limare i confini, spesso labili, fra fumetto commerciale e d’autore. Eppure, nonostante ciò, assenze come Il Commissario Spadama anche Ken Parker appaiono incomprensibili. C’è inoltre almeno un’opera, Love Stores di Elfo, una raccolta di racconti che veramente poco si adatta alla definizione di “romanzi disegnati”.

Anche per quanto riguarda i criteri che sottendono alla selezione del resto delle opere si possono fare degli appunti, cercando di prescindere dal gusto personale. L’impressione è che si sia voluto creare un percorso fluido, ben distribuito nel corso dei cinquant’anni selezionati, senza correre il rischio che alcuni periodi (anni, decenni) risultassero più densi di capolavori di altri. Scelta comprensibile e apprezzabile nel contesto di una mostra antologica, ma che a volte corre il rischio di offrire una eccessiva artificialità. Perché ad esempio esporre Air Mail di Micheluzzi invece del suo più ben interessante Petra Chériese non per evitare il rischio di intasare il già affollato 1977? Perché il recentissimo Roberto Baldazzini de L’inverno di Diego (2013) e non quello delle molte opere erotiche antecedenti? Scelta quest’ultima che avrebbe al contempo permesso di rimpolpare un genere importantissimo per la storia del nostro fumetto e in questa occasione davvero poco rappresentato (del resto anche l’influenza dei manga è qui per nulla evidente). Perché inserire l’Igort di Cinque è il numero perfettoopera di certo fondamentale nella carriera dell’autore, e non un’opera del periodo Valvoline, cosa che avrebbe permesso di rappresentare questo particolare momento della storia del fumetto italiano? Inoltre la mostra soffre un eccesso di “coconinosità” che, se da un lato testimonia il ruolo cruciale svolto da questa casa editrice nel contesto del nostro fumetto, specialmente per quanto riguarda la promozione e la diffusione della forma lunga, dall’altro mortifica realtà editorialmente e commercialmente più marginali.

Arrivando agli ultimi decenni di fumetto italiano, inoltre, il concetto di “originalità” delle tavole esposte diventa particolarmente labile. Se da un lato il concetto di “autorialità” riferito al mito dell’autore unico che nella solitudine del suo tavolo da disegno produce opere degne di essere definite “letterarie” risulta, come già sottolineato, piuttosto discutibile, un altro mito, a questo collegato, attraversa trasversalmente tutta l’esposizione romana, quello della manualità.

Quando, promuovendo l’evento, i curatori insistono sulle “300 tavole originali” esposte non si soffermano in maniera particolare su cosa “originale” significhi, soprattutto all’intero di un contesto industriale e collettivo come quello dell’editoria fumettistica. In primo luogo la tavola a fumetti è un oggetto di passaggio, che acquista la propria funzione solo al momento della sua riproduzione meccanica – evitando di citare opere a tiratura limitata, riproduzioni serigrafiche e altri fenomeni marginali.

Dal sito ufficiale della mostra
Dal sito ufficiale della mostra

La contemplazione delle tavole originali permette, da questo punto di vista, di apprezzare i mutamenti che intercorrono nel corso di questo processo che porta dal tavolo di disegno alla tavola stampata e di coglierne i mutamenti nella resa. Ad esempio: la monocromia delle tavole del Palumbo di Un sogno turco scompare nel più anonimo bianco e nero della versione a stampa della BUR; il segno grasso del Mattotti di Fuochi viene particolarmente mortificato dalla carta lucida e patinata scelta solitamente per la sua commercializzazione; le “pecette” degli autori degli anni Settanta così come quelle di oggi scompaiono nelle riproduzioni definitive. Uscendo però dal concetto di manualità, negli ultimi anni le cose sono cambiate perché molte fasi dell’elaborazione delle tavole, in particolar modo per quanto riguarda l’applicazione dei colori e dei colori, sono seguite digitalmente, cioè attraverso l’uso di software appositi. Se guardiamo una tavola realizzata a mano da Magnus, Battaglia o Giacon lo scarto con la copia riprodotta a stampa è minimo (per lo più variazioni che coinvolgono il formato, i contrasti e la resa cromatica), mentre, per quanto riguarda alcuni degli autori più giovani presenti, la differenza può essere notevole. I curatori ne sono consapevoli e hanno approntato un sistema di schede, prelevabili in un espositore posto sotto gli “originali”, che riproducono, nei limiti tecnici del supporto e del processo, le tavole così come si possono ammirare in rivista o in volume, permettendo un confronto diretto. Peccato che queste, probabilmente individuate come omaggi dai visitatori, fossero sparite già il giorno dell’inaugurazione.

Ad ogni modo le tavole “originali” dei già citati 5 è il numero perfetto e L’inverno di Diego sono, private della fase di elaborazione digitale, restano solo delle bozze o per lo meno dei semilavorati, e non solo rispetto a quella che è la versione stampata bensì a quello che è il risultato ‘finale’ così come concepito e ideato dall’autore. In particolare un autore come Zerocalcare soffre di questa riduzione al solo tratto, che priva le sue tavole di gran parte della loro forza espressiva, problema che coinvolge invece marginalmente altri autori. Questo, come forse risulterà ovvio, pone dei problemi rispetto al concetto, ancora una volta vago, di “originalità” che la mostra prende un po’ sottogamba. Problemi che vengono immediatamente esplicitati nella loro intera complessità quando ci si trova di fronte alle tavole di P-HPC Post-Human Processing Center di Ausonia. Anche in questo caso – si tratta di tavole realizzate con molte tecniche diverse, dal disegno, al fotomontaggio digitale, al fotoromanzo ecc. – esistono forse delle bozze incomplete, ma queste probabilmente risiedono nella memoria del computer dell’autore, mentre le versioni esposte sono delle riproduzioni a stampa di file digitali. Non c’è poi da esserne così sicuri. Qualcuno lo ricorderà: alla fine del suo lavoro su Interni, lo stesso Ausonia bruciò nel 2010 le tavole ‘originali’, proprio per testimoniare che l’originale non esiste. In quale fase di questo complesso sistema di produzione si colloca allora l’originalità? Se quelle esposte sono copie perfettamente riproducibili senza uno scarto apprezzabile, quale versione è quella originale; dove risiede questa? Nel processo, probabilmente. Un processo che, è facile rendersene conto, risulterà poco apprezzabile nel contesto di una mostra pur importante e necessaria come questa.

Il passaggio dagli anni Ottanta/Novanta agli anni Duemila, inoltre, mette in evidenza uno scarto notevole. Se infatti molte delle scelte fatte per quanto riguarda gli anni che vanno dalla Ballata almeno alla metà degli anni Novanta risultano ‘obbligate’ per via della storicizzazione che ha coinvolto molti degli autori presenti, la cosa si fa più vaga e soggettiva man mano che si avvicina all’oggi. Il che lascia il dibattito inevitabilmente aperto. Non solo potrebbero essere messe in dubbio l’inclusione di alcuni autori – si pensi a Enoch, Macola, Colaone – piuttosto che l’esclusione di altri, ma ciò che risulta evidente è l’incapacità (impossibilità?) di alcuni fra questi, spesso molto giovani, nel creare una tendenza artistica, ovvero di imporsi come riferimenti – o “capolavori” – senza che siano passati gli anni e la necessaria analisi critica atti a definirli tali. Con ciò non si vuole esprimere un giudizio sul valore delle singole opere ma, piuttosto, da un lato riflettere sull’opportunità di affiancarle ad alcuni mostri sacri come Magnus, Battaglia o Pratt, dall’altro valutare la loro capacità sia di fare scuola sia di rappresentare il punto più alto, più compiuto e più “letterario” del percorso dei singoli artisti, nel contesto storico e culturale in cui questi si esprimono.

Se è apprezzabile la scelta di arrivare, con il percorso espositivo, fino ai giorni nostri, questa ansia di completezza, che porta ad esporre alcune tavole di un fumetto ancora incompleto e non pubblicato di Gipi, causa uno sbilanciamento che potrebbe creare qualche confusione. Confusione che stride, in particolare nel caso di Gipi ma anche in quello della recentissima ultima opera di Reviati, con il concetto di “valenza letteraria” che vorrebbe essere il fil rouge di questo evento. Intendiamoci, l’inserimento delle tavole inedite di Gipi e, per altri motivi, di quelle di Ortolani e Zerocalcare, risponde anche alla necessità di andare incontro ad un pubblico il più generalista possibile e questo non può essere che un bene. Lo scarto di cui si è parlato è comunque collegato a quello che forse è l’elemento meno convincente dell’esposizione, l’idea critico-teorica che vorrebbe vedere nel romanzo grafico prattiano un progenitore che si pone in perfetta e coerente continuità con l’attuale fenomeno del graphic novel.

Questo è solo parzialmente vero. Innanzitutto i due fenomeni sono molto diversi, soprattutto dal punto di vista del mercato e della fruizione, ma lo sono anche sotto quello narrativo. Da questo punto di vista porre come discrimine la pubblicazione direttamente in forma di volume non è certo peregrino. La serializzazione non è solo una cornice editoriale che permette di spezzettare una storia lunga in una serie di episodi o parti tra loro collegati, ricomponendo così un’ideale unità pregressa. Influisce anche sulla dimensione del racconto. Per quanto infatti opere come Una ballata o altre, originariamente pubblicate su rivista o quotidiani (esempio: Valentina nel metrò), possano essere state concepite come racconti unitari, lo spezzettamento a cui sono state sottoposte così come i limiti inerenti al numero delle pagine, ha influito anche su altri aspetti: sulla densità della narrazione; sulla possibilità di concedere al lettore momenti contemplativi o di indugiare su azioni ripetitive e noiose. Ha inoltre altrettanto spesso pesato sul ritmo, obbligando gli autori a condensare, narrare per ellissi, ricorrendo frequentemente ad “espedienti” come didascalie e voci narranti, o creare picchi narrativi in prossimità della conclusione di ogni episodio ecc.

Dal sito ufficiale della mostra
Dal sito ufficiale della mostra

Siamo ancora, con molte delle opere poste in apertura di questa mostra, nel pieno dell’epoca delle riviste, epoca che coinvolse direttamente anche i curatori. Poco importa che le stesse storie si siano poi rivelate particolarmente adatte ad essere trasposte nella forma unitaria del volume in un’epoca in cui questo, pur rappresentando un segmento minoritario del mercato editoriale a fumetti, vantava però una lunga tradizione internazionale. Il moderno graphic novel – che, ricordiamolo, si identifica ormai per lo più con una recente categoria merceologica, soprattutto per le dimensioni, commerciali e sociali che il fenomeno ha raggiunto nel corso degli ultimi anni – è solo in parte assimilabile alla tradizione che si vuole inaugurata da Pratt e sicuramente con questa presenta elementi di forte discontinuità.

Al di là però di queste considerazioni, che potranno suonare indirizzate per lo più ai fumettòfili di stretta osservanza e agli operatori editoriali, questa mostra rappresenta comunque un evento importante per il fumetto e per il mondo artistico ed editoriale che vi ruota intorno. Oltre ad imporsi come un atto di sana autocelebrazione, un’antologica di questo tipo e, soprattutto, di così ampio respiro, mancava nel nostro paese da davvero troppo tempo (in parte dal 2006, quando la mostra Fumetto International presso la Triennale di Milano dedicò metà del suo percorso all’emersione del fenomeno globale del graphic novel). Certo, non si comprende fino in fondo la necessità di legare questo evento ad un vago e discutibile concetto di “letterarietà”, ma l’importanza dell’atto resta. Anche se è ancora troppo presto per fare previsioni circa il suo successo – la mostra si protrarrà fino al 24 aprile – già il primo giorno i corridoi del chiostro dell’ex convento carmelitano erano gremiti di un pubblico variegato e curioso, di certo più variegato e curioso di quello che si può vedere girare, spesso annoiato, in occasioni di simili esposizioni allestite in occasioni di fiere o mostre mercato. Un successo che, se confermato dai numeri, non solo potrebbe ridurre l’importanza delle criticità fin qui evidenziate, ma potrebbe persino essere, almeno in parte, frutto delle stesse.

Un consiglio in chiusura rivolto ai curatori. Vista la preziosa collocazione della mostra – a Trastevere, nel pieno del centro turistico di Roma – avrebbe senso pensare di integrare i pannelli a corredo delle tavole con una traduzione, oltre che degli stessi, del testo contenuto nei balloon. Perché quello esposto non è solo, e da molti anni ormai, un patrimonio esclusivamente nazionale.

* NOTA: L’assenza di Buzzelli tra gli autori esposti, ci ha voluto segnalare l’organizzazione, è legata alla impossibilità di reperire le tavole originali. 

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