Chi scrive ha immaginato più volte l’attacco di questa recensione di Star Wars: L’ascesa di Skywalker, il nono e ultimo capitolo della saga di Guerre Stellari canonica. Dopotutto non capita tutti i giorni di voltare pagina su una stagione della propria vita. Il grande western spaziale, la storia di cavalieri e duelli, il mito originario dell’eroe per quanto riguarda Hollywood, è iniziato nel 1977. Nonostante l’allora giovanissima età, chi scrive è andato al cinema – anzi è stato portato dai suoi genitori – a vedere il primo appuntamento della seconda trilogia in ordine narrativo (così decise di iniziare in medias res il buon George Lucas, che poi ha venduto tutto alla Disney).
E da quell’appuntamento il vostro recensore – cioè io – ha continuato, fedele, in stagioni diverse della vita, a seguire l’evolvere di una storia che era stata sbozzata su qualche tovagliolino di carta in qualche locale del Sunset Boulevard, perché negli anni ha viaggiato ondivaga con risultati alterni e accumulando un grande rumore di fondo. La saga, i milioni di fumetti e di libri, le serie, i cartoni animati, i fotolibri, persino i manga, e l’intenso sfruttamento di quella vena limitata ma ricchissima che è il fascio delle narrazioni generate da Guerre Stellari.
Ci sono vari archi narrativi che devono essere rivisitati, personaggi da spiegare, vecchi conti da saldare. E tutto deve avere un senso, per chi arriva oggi e per chi ha iniziato 43 anni fa. Ci sono riusciti? C’è il sapore della saga di Star Wars in questo amaro e piovoso Natale? C’è l’escapismo, il divertimento, la voglia di stupire e meravigliare? Perché nel grande piano marketing della Disney e di JJ Abrams il tema di fondo è questo: narrazione o marketing? Rischio o via liscio sul sicuro?
La Disney dei record, che quest’anno ha totalizzato la cifra più alta al botteghino (10 miliardi di dollari e ancora manca Star Wars), è una Disney che si nutre di politicamente corretto e di franchising sicuri. Che rilancia per non rischiare. E che piuttosto gonfia, gonfia, gonfia ma evita il botto.
E arriviamo al dunque. Arriviamo alla fatidica sera in cui volete andare al cinema a vedere Star Wars: L’ascesa di Skywalker. Perché è Natale o l’epifania. Perché glielo dovete. Perché vi ha fatto sognare, divertire, arrabbiate, ma comunque è una delle grandi narrazioni del nostro tempo. Che è arrivata al suo atto finale dopo aver visto una esplosione, un crollo, un lungo iato, una ripartenza fulminante e un nuovo impegno. Lo volete fare? Ci volete andare al cinema? Glieli volete dare questi soldi e queste ore della vostra vita?
La saga si chiude e questo ha i suoi vantaggi. JJ Abrams sa come muoversi e far funzionare tutto. È passato alla storia della fantascienza scrivendo e dirigendo sia Star Wars che Star Trek, non deve più dimostrare nulla a nessuno. Deve solo segnare un rigore a porta vuota: far volare le astronavi, esplodere i razzi dei cattivi, far sciabolare le spade. Abbracci, magari anche qualche nuova coppia politicamente corretta sullo sfondo, sicuramente iniezioni di femminilità e potere alle donne per ribilanciare una narrazione tutt’altro che progressista o femminista nei suoi esordi.
Ce la fa? La mette dentro? La porta a casa? Insomma, che film è questo ultimo capitolo dei nove canti che compongono l’ennalogia di Guerre Stellari?
Va bene, ve lo dico ma senza rovinarvi la sorpresa della storia. Star Wars: L’ascesa di Skywalker è un buon film, mi è piaciuto. È denso perché abitato da molte storie, ma è anche un film lineare perché a non essere lineare è tutta la saga, quindi nei singoli capitoli bisogna andare diritti.
È un film semplice; sempre più un film di supereroi e sempre meno un film di fantascienza, ammesso che ce ne sia mai stato uno nella serie creata da George Lucas. L’idea di fondo, cioè che sia necessario sconfiggere la paura dentro di noi, che la vera identità (e la vera famiglia) vadano oltre i vincoli di sangue, ma siano determinati dal nostro cuore e dalla nostra volontà, e infine che quel che conta è il gioco di squadra e la fiducia negli altri, ebbene tutto questo c’è. Fino alla nausea. A compensare forse un netto defilarsi del misticismo Jedi, della religione della forza, che in passato aveva fatto da padrona delle storie del ciclo.
C’è anche tutto il necessario dal punto di vista della spettacolarizzazione, alternando prospettive già viste, scene già inquadrate nei vecchi film per dare fiato ai vecchi fan. E nuove, straordinarie prospettive che fanno forse meno sognare solo perché Guerre Stellari non è più un pioniere e chi scrive non è più un bambino. Con l’età arriva anche un certo disincanto che va contrastato.
E allora contrastiamolo. Cerchiamo l’emozione dentro le pieghe di una narrazione che non è più, e non vuole più essere, epica. Le ricette del passato sono tutte rispettate. Le forme e i modi, i camei, tutto è perfetto per mettere a loro agio spettatori vecchi e nuovi. Anche quel vecchio vizio di riprendere dettagli secondari e forse casuali del primo film e trasformarli in religioni, costruirci sopra ragionamenti, storie, epiche, fenomenologie. E poi certo, ci sono le spade. Già, le spade.
Che film di Guerre Stellari sarebbe se non ci fossero le spade? Ora, nel fare questa recensione abbiamo deciso di essere il più neutri possibile: no spoiler. Star Wars: l’ascesa di Skywalker è tecnicamente molto bello, girato bene, inventivo, commovente anche nelle parti in cui c’è Carrie Fisher, prematuramente scomparsa e rimessa dentro a suon di computer grafica e deepfake. La storia arriva a un punto e sembra quasi, ma solo se non ci si fa troppa attenzione, che fosse quello che aveva pensato proprio George Lucas all’inizio. Non è quello, sicuramente, ma va bene così.
Perché vedete, ci sono le spade. E anche il rimescolone dei generi – nel senso che JJ Abrams supera il maschilismo sciovinista dei primi 3-6 film. E il Millennium Falcon. E i droidi (dei quali non bisogna mai dubitare). E i caccia Ala X. E gli Star Destroyer. E i plotoncini di stormtroopers che marciano a passo serrato con il loro fucilino e la loro armatura bianca: mai una Marina è stato popolata da marò più incapaci di sparare, tra l’altro. Ma soprattutto le spade.
Non c’è bambino e forse bambina che non abbia sognato a un certo punto la sua spada laser. Averla, costruirla, trattarla bene, coltivarla, e poi accenderla con quel suono basso, sexy, potente, rivoluzionario. E poi c’è Rey, cioè l’attrice britannica Daisy Ridley. Ma soprattutto ci sono le spade. E solo per andare a vederle ancora una volta, l’ultima volta, bisogna pagare il biglietto e investire due ore del proprio tempo. Non ve ne pentirete.
Il resto, nel bene o nel male, è il solito Guerre Stellari: meglio dei tre film cronologicamente all’inizio della saga (I, II, III), più o meno nella stessa zona dei primi (IV, V, VI) o degli ultimi due (VII e VIII). Si fa vedere, insomma, questo Guerre Stellari IX. Anche perché ci sono le spade. E Daisy Ridley. Non necessariamente in quest’ordine.
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