La prima cosa che abbia mai pubblicato Cliff Chiang è un disegno di Violator, apparso nelle pagine della posta di Spawn #12. In realtà era un disegno con Spawn che gli editor avevano tagliato per ragioni di spazio. «Una cosa che mi mette tra i sorvegliati speciali dalla polizia» dice scherzando Chiang. «Solo un potenziale serial killer disegnerebbe Violator da solo.»
Attivo soprattutto in DC Comics (Human Target, Beware the Creeper, Green Arrow/Black Canary), Chiang è passato dalle pagine della posta di Spawn a disegnare il ciclo di Wonder Woman scritto da Brian Azzarello. Il suo ultimo lavoro è la serie Image Comics Paper Girls, co-creata insieme allo sceneggiatore Brian K. Vaughan. Ambientata negli anni Ottanta, Paper Girls racconta di quattro ragazze che consegnano i quotidiani porta a porta e finiscono nel mezzo di una lotta tra viaggiatori del tempo. Qui su Fumettologica, Daniele Croci aveva descritto il lavoro di Chiang come un’ottima sintesi tra minalismo grafico ed estetica retrò.
Alla scorsa Lucca Comics & Games, Chiang era ospite di Bao Publishing, casa editrice per la quale ha disegnato il logo (il bulldog francese che, non a caso, si chiama Cliff). Abbiamo colto l’occasione della fine di Paper Girls per fare il punto della carriera di Chiang, parlare di com’è cambiata la professione e le strane vie che portano a fare il lavoro dei propri sogni.
Uno dei personaggi di Paper Girls, Tiffany, alla fine della serie dice: «La maggior parte delle cose che credo di volere sono variazioni di roba che mi faceva stare bene quando ero bambina». Detto da una delle protagoniste di una serie che cita molto gli anni Ottanta mi sembra un bel cortocircuito.
È sicuramente un commento sulla moda nostalgica del volere qualcosa della propria infanzia e poi rendersi conto, una volta ottenuta, che tu sei cresciuto e cambiato. C’è molta nostalgia attorno agli anni Ottanta, ma dobbiamo capire che le cose sono migliorate. Il mondo è migliore sotto molti punti di vista, siamo più inclusivi, accettiamo di più le diversità culturali e lo scardinamento dei ruoli sociali. Non è sempre utile guardare al passato come un tempo migliore.
Come ti senti ora che Paper Girls è finita?
Non l’ho ancora riletta, mi ci vuole un po’ per dimenticare cosa ho fatto e gli errori che ho commesso. Se la guardassi ora ci vedrei tutti gli sbagli e i problemi irrisolti, ma di solito dopo qualche anno mi ci sono distanziato abbastanza da poterla leggere senza stare ad analizzare troppo il mio lavoro. Ogni volta che disegno un albo leggo la sceneggiatura tantissime volte, finché alla fine la conosco a menadito. Deve passare un po’ di tempo perché diventi una cosa a sé e non solo un plico di pagine che ho disegnato io.
Di solito che errori ci vedi?
Errori nel disegno, momenti di cui non ho sottolineato a sufficienza l’importanza.
Il tuo primissimo disegno mai pubblicato è stato un ritratto di Violator pubblicato su Spawn. Eri un fan?
A quel tempo tutti leggevano Spawn, tutto ciò che stava facendo Image Comics sembrava entusiasmante. All’epoca penso fossi al college. Quell’approccio DIY era una grande componente della cultura artistica all’epoca, lo stavano facendo tutti. Robert Rodríguez e Quentin Tarantino nei film, per esempio. C’era questa sensazione che bastava essere appassionati ed entusiasti per ciò che si faceva e si sarebbe potuto realizzarlo anche senza soldi. E i fumettisti di Image in questo furono molto d’ispirazione. Facevano le loro cose, creavano i loro personaggi.
Hai avuto un percorso strano, perché all’inizio eri proiettato verso una carriera accademica. Che strada hai fatto, per arrivare ai fumetti?
Smisi di leggere fumetti quando diventò difficile trovarli. Si parla del periodo in cui tutta la produzione fu dirottata nelle fumetterie, e la mia fumetteria era molto distante. Alle superiori quindi non leggevo fumetti. Poi al college ricominciai, prendendo in mano i fumetti Vertigo (Sandman e Hellblazer) o titoli indie come Madman e Love & Rockets. Mi re-innamorai del fumetto e scattò qualcosa. Fu allora che decisi che sarei diventato un narratore.
All’inizio pensai di approcciarmi al cinema, ma poi mi resi conto che il disegno era più importante e sarebbe stato quello il modo con cui avrei raccontato le storie. Però cercavo di essere pragmatico. I miei genitori mi supportavano, ma penso che avrebbero preferito una carriera più stabile per me. Mi iscrissi a giurisprudenza e nel frattempo cercavo lavori attinenti al fumetto. Frequentai senza entusiasmo, diciamo.
Te l’ho chiesto perché mi affascinano le scelte di vita che ti portano da quella che sembrerebbe una carriera stabile e sicura a una molto incerta.
Già, be’, i miei amici dell’università che fanno gli avvocati ora mi dicono che vorrebbero aver fatto la mia strada.
Il tuo primo lavoro fu sul magazine Disney Adventure, sotto la curatela di Heidi MacDonald, se non sbaglio.
Sì, per un anno. Poi passai a Vertigo.
E cosa facevi?
Ero assistente editor, aiutavo Heidi con le venti pagine di fumetto al mese che cadevano sotto la nostra responsabilità. Lavoravamo con diversi team creativi su storie lunghe quattro-otto pagine. Fu molto istruttivo, Heidi mi insegnò come si realizzano concretamente i fumetti, come ci si interfaccia agli autori.
Poi hai lavorato a Vertigo con Axel Alonso.
È un lavoro molto specifico e particolare, per cui non ti puoi preparare o studiare. Ti ci butti dentro e basta. Per molti dei progetti devi solo fare in modo di rimanere in contatto con gli autori. Ci sono molte scartoffie. Passi un sacco di tempo a fotocopiare le tavole, spedirle a varie persone. In base alle scadenze può diventare molto usurante. Ma a me piaceva. Ho imparato a parlare con i creativi, a capire i loro problemi, analizzare il lavoro nei dettagli.
Ti è stato utile quando poi sei diventato un disegnatore?
Cerco sempre di semplificare il lavoro degli editor e di non causare intoppi nella linea produttiva. Tengo d’occhio le scadenze, li avviso se so che potrebbero esserci dei ritardi in futuro. Essere un freelancer e pensare da editor è molto utile. Quando cominciai alla Vertigo volevo disegnare ma ero consapevole che il mio livello non era abbastanza professionale da essere pubblicato. Passavo il tempo libero a disegnare per migliorare le mie abilità. Le due attività erano complementari.
Quando hai capito che eri diventato un professionista?
Per molto tempo non volevo ammettere a me stesso di essere un disegnatore. Non mi ci vedevo, anche se era quello che mi piaceva fare. Fu soltanto quando lasciai Vertigo, dopo un paio d’anni come libero professionista, che capii che quel sogno era a portata di mano. Così abbracciai la mia vocazione.
Hai trovato il tuo stile? O non ti interessa averne uno, perché magari ti adatti a quello che chiede ogni progetto?
Entrambe le cose. Cerco di disegnare nel modo che ritengo adatto per la storia, cercando una direzione artistica per quel determinato progetto. Paper Girls è diverso da Greendale che è diverso da Wonder Woman. Dipende dal progetto e dagli interessi che ho in quel momento. Non so se ho trovato uno stile, ma so di per certo che ci sono cose che faccio con maggior cognizione rispetto al passato. Sono sicuramente più vicino a trovare un mio stile, anche se non lo cerco consapevolmente.
Quale pensi sia il tuo punto forte?
Penso la mia narrazione. La capacità di dare al lettore un punto d’ingresso emotivo nella storia. Cerco di accompagnare il lettore nel mio mondo, mostrandogli ciò che ritengo importante in ogni momento. La mia è, credo, una narrazione chiara, su cui non devi stare ad arrovellarti, che ti coinvolge e ti circonda. O almeno quello è l’intento.
Senti mai la mancanza di una preparazione accademica in questo senso?
Invecchiando mi rendo conto che la capacità di disegnare è una cosa diversa dal saper raccontare una storia. A volte vorrei aver frequentato una scuola in cui avrei potuto imparare nozioni che mi sarebbero state utili oggi. Allo stesso tempo ci sono cose che ho imparato – nei miei studi o lavorando – che non avrei mai appreso in una scuola d’arte.
All’inizio degli anni Duemila hai lavorato nello studio di Walt Simonson, quando realizzava Orion, e raccontavi che eri il suo motivatore, la ragione che lo costringeva a presentarsi in studio e disegnare. Tu hai le stesse motivazioni che avevi quando hai iniziato?
Penso di sì. Penso di avere le stesse influenze, la stessa motivazione. Trovo questo lavoro ancora intellettualmente stimolante. Si tratta di risolvere problemi e questo mi mantiene vivo. Sono più professionale, questo è certo. Mi siedo al tavolo da disegno a prescindere da quanto mi sento ispirato, sono più sicuro di me. È la mia seconda natura. In più, ho una famiglia, ho degli orari. Ho una struttura attorno a me che mi aiuta.
Non eri la scelta più ovvia per Wonder Woman, una serie che di solito era disegnata da esibizionisti della matita. Secondo te perché ti hanno scelto?
Avevano già tentato vari esperimenti con quello stile, in passato. E questa era l’occasione per fare qualcosa di nuovo. Sapevano che Brian e io lavoravamo bene insieme, che mi piaceva disegnare donne belle ma non in modo gratuito – che di solito è la componente più importante di un fumetto di Wonder Woman.
Hai parlato del fatto che Paper Girls è pensato da cima a fondo come una rivista di moda, con un certo gusto per le grafiche e il colore. Quello di guardare alla moda e restare aggiornati sulle tendenze mi sembra IL problema contemporaneo per voi disegnatori?
Penso che i disegnatori mediocri non se ne preoccupino, ma quelli bravi sono sempre attenti a questo aspetto. Facciamo parte del mondo e bisogna sempre guardarsi intorno, rimanere aggiornato su quello che succede quando disegni la contemporaneità.
Jack Kirby ha sempre disegnato le auto degli anni Quaranta anche quando erano gli anni Ottanta. Si poteva permettere di non aggiornare il suo vocabolario visivo. Non è più così?
Che si tratti di leggere riviste, guardare film, televisione, ascoltare musica, bisogna cercare ciò a cui la gente si interessa. O lo stile a cui è più recettiva. Detto questo, ci sono ottimi disegnatori che sono rimasti ancorati a uno stile per tutta la loro carriera, ma credo che entrare in sintonia con il lettore sia una delle nostre responsabilità.
Mi pare sia uno dei modi in cui è cambiato radicalmente il mestiere di fumettista. Essere aggiornati, essere presente sui social media.
Credo sia diverso per ognuno di noi. Per alcuni è certamente una grossa componente del lavoro. Per quanto mi riguarda, preferisco non espormi troppo, sono una persona abbastanza privata. Voglio avere il controllo sul modo in cui viene visto il mio lavoro. Non mi piace mostrare dettagli di disegni in corso d’opera, per esempio. Voglio che la gente veda il prodotto finito. Però altri disegnatori – alcuni miei amici, anche – sono molto coinvolti in questo aspetto e li aiuta perché rimangono in contatto con il loro pubblico.
Penso che se fossi un autore emergente adesso mi spenderei molto di più in termini di presenza sui social. Essere più vecchio e aver iniziato la carriera già da un po’ ha significato potersi esprimere solo attraverso le pubblicazioni. Ora sarebbe tempo in più da dedicare a quell’aspetto e io non ce l’ho. È un secondo lavoro.
Lo è per molti. Una volta ho parlato con Jeff Lemire e mi diceva che è esattamente quello, ovvero un secondo lavoro, che a lui nemmeno elettrizzava granché.
Sì, dipende anche da come ti approcci ai social media, se cerchi di vendere qualcosa, promuovere un lavoro, oppure dialogare con il pubblico. È complicato. Non twitto molto, non uso molto Instagram. A volte li utilizzo più come ufficio stampa, per comunicare una pubblicazione. C’è anche il rischio di sovraesposizione. Se alla gente piace il mio lavoro può leggere i fumetti, e offrire un pezzettino di me quotidianamente potrebbe essere controproducente e far calare l’interesse nei miei confronti.
Quanta strada senti di aver fatto da quando eri un ragazzino che mandava fan art alla posta di Spawn?
Sembra un’altra vita, ma solo perché adesso sono vecchio! Sì, quel ragazzino… mi sembra di saperne molto di più, del fumetto in generale. Quello che avevo all’epoca era solo una certa gioia per il disegno, una gioia pura eppure poco focalizzata e poco profonda sulla professione. Ora sono un disegnatore migliore, ma è sempre utile cercare di ricordarmi quell’entusiasmo che avevo da ragazzino, quando disegnavo Spawn.
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