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Tutti i problemi di “X-Men: Dark Phoenix”

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X-Men: Dark Phoenix, scritto e diretto da Simon Kinberg, si basa sul reboot della saga degli X-Men iniziato due film fa con X-Men: First Class e poi con X-Men: Apocalypse. Per chi si fosse perso i passaggi precedenti: un viaggio nel tempo (in X-Men: Days of Future Past) di Wolverine “normale” (quello interpretato da Hugh Jackman per intendersi) alle origini degli X-Men introduce delle piccole modifiche creando un prequel di un universo parallelo, dove le storie si dipanano in modi differenti.

La serie degli X-Men è durata finora dodici film e non ha toccato però l’altro grande franchising, quello dell’Universo cinematico Marvel che contiene quasi tutti i personaggi della casa editrice, da Iron Man all’Uomo Ragno, tranne appunti i nostri simpatici mutanti.

La storia di X-Men – Dark Phoenix è ambientata nel passato, ma un passato diverso dal nostro. Nel 1992, un decennio dopo Apocalisse, i mutanti sono sempre più al servizio del governo americano: è la volontà di Charles Xavier (interpretato sempre da James McAvoy) ma non condivisa da Raven/Mystica (cioè Jennifer Lawrence). In una missione nello spazio succede il patatrac e Fenice, cioè Jean Grey (interpretata da Sophie Turner) cambia radicalmente.

Ora, come nella migliore tradizione delle recensioni di questi film, niente spoiler, state sereni. Però alcune cose vanno dette. La principale è che X-Men – Dark Phoenix ha tutti gli elementi per essere massacrato dal pubblico e dalla critica, per fare l’incasso più basso tra gli esordi della serie e per attirarsi una fama di sconfitto che secondo me è immeritata.

x-men dark phoenix trailer finale

Cominciamo dai problemi di produzione: il film è stato rinviato più volte soprattutto per via di alcune scene da girare di nuovo (niente di strano in questo tipo di produzione) e per cercare di evitare la sovrapposizione con altri film “pericolosi”. E uno c’è: Dark Phoenix esce neanche un mese dopo Avengers: Endgame, e la differenza tra i due si sente.

C’è poi il tema del reboot avvitato al tema del viaggio nel tempo e al bisogno di ringiovanire gli attori. E quello di fondo di complessità: mentre dentro Avengers è stato fatto un lavoro possente di sfrondamento e semplificazione, gli X-Men sono ancora una serie barocca fatta di continue ripartenze, legate sostanzialmente a un unico tema paranoico (il rapporto tra i mutanti e i normali e la facilità con la quale si passa da essere dei buoni a essere dei cattivi) e continuamente “sporcato” dal bisogno di indirizzare verso nuove strade la saga. Per la prima volta abbiamo visto un film (Days of Future Past del 2014) cancellarne esplicitamente dalla timeline della serie un altro (The Last Stand del 2006) neanche fosse l’episodio di Dallas in cui si scopre che Bobby non è morto ma è sotto la doccia: è stato tutto un sogno, insomma.

Poi c’è un tema di casting: è piuttosto evidente che Sophie Turner è un problema ambulante. La povera (e brava) attrice cerca di smarcarsi dal ruolo di Sansa Stark di Game of Thrones, anche se a 23 anni è diventata una specie di Marlon Brando in gonnella: costantemente sull’orlo di una crisi di rabbia gelida, di una soffocante paura, con gli occhi che si specchiano in un abisso di disperazione senza mai realmente precipitarci. Di tutti i personaggi del film, è il più genuinamente da fumetto, anche se in realtà nei comics Jean Grey sarebbe la meno “umana” tra i buoni/cattivi.

Parlando di cattivi, c’è anche una Jessica Chastain splendida nel suo ruolo, soprattutto nella prima scena quando è ancora molto umana e sensuale, mentre emerge in filigrana un problema delle grandi serie (intese come serie pluri-decennali) e cioè che quando succede qualcosa che non si capisce, quando entra in scena un attore al quale il regista ammicca in maniera tale da indugiare più del dovuto, magari innocentemente per costruire un po’ di tensione drammatica, nella mente del povero spettatore scatta subito il senso di colpa.

È la paura di aver dimenticato un personaggio, visto magari otto anni prima di sfuggita in tre scene, che riprende il suo posto, con praticamente nessuna battuta e un ruolo che ammicca ai comics, dove ha tutto un altro spessore. È un senso di colpa che le serie tirate troppo in lungo fanno emergere nella coscienza dello spettatore appassionato di fumetti che non ce la fa a confessare agli amici che lui degli X-Men ha letto solo circa 300 albi, facendosi mancare praticamente i 4/5 dell’epopea. Come se Guerra e Pace al confronto fosse passata da Gordon Lish, l’editor mani-di-forbice di Raymond Carver (quello che “lo trovavo prolisso e allora ho sfrondato”).

Non si può umanamente chiedere così tanto al povero appassionato. La gente deve poter vivere. Avvolgersi dentro una storia che è reboot, alternativa, retroimmaginata, citazionista, agganciata a precedenti immaginari ed epopee del cartaceo sepolte nella notte dei tempi. Insomma, uno non si può portare una squadra di autori di Wikipedia dentro al cinema per capirci qualcosa.

Qui i conflitti si sovrappongono: da un lato c’è il ruolo di Xavier, che è narciso e pur avendo aiutato la piccola Jean le ha anche mentito e l’ha manipolata, creando i presupposti per il suo passaggio alle forze del male e della rabbia. Dall’altro c’è Magneto, che costruisce l’eden della fratellanza dei mutanti (ricordate Genosha? Beh, se non avete Wikipedia collegata ai neuroni forse potrebbe esservi momentaneamente sfuggita) e che oscilla tra la malvagità assoluta e farsesca di Ian McKellen e l’animo sensibile (si fa per dire: come perdonarli i due Aliens, Steve Jobs e soprattutto Assassin’s Creed?) di Michael Fassbender. I due si intrecciano e non lasciano crescere né sviluppare pienamente i loro odi e le loro contraddizioni ai due personaggi più discutibili e meno utili del film: Hank McCoy (Bestia) e Scott Summers (Ciclope).

All’inizio del film in uno scambio piuttosto pepato con Xavier, Raven osserva che in questo gruppo di mutanti fanno tutto le donne, e che andrebbe ribattezzato X-Women. Mentre in un altro passaggio, quando si mette in discussione il ruolo e l’autorità di Xavier, Bestia ricorda per cosa stia la X: Xavier, non vi sbagliate.

x-men dark phoenix

L’ultimo capitolo della trilogia prequel, che non sappiamo a che cosa lasci strada – cioè lo sappiamo perché dopo l’acquisto di Fox da parte di Disney adesso gli X-Men sono sotto la giurisdizione dei Marvel Studios e del suo presidente Kevin Feige e rientrano a tutti gli effetti nel nuovo Marvel Cinematic Universe, ma non sappiamo ancora in concreto cosa ne verrà fuori – chiude un ciclo importante per portare avanti la saga degli X-Men.

È tutto in minore, come è diventata la storia di questi mutanti ribelli e “buoni” rispetto agli altri capitoli cinematografici dei supereroi Marvel ben più performanti. A un certo punto è venuto quasi il dubbio che fossero un franchise dell’universo DC: come se Batman e Superman si fossero trasformati nella coppia Spider-Man e X-Men, lenti e cupi, un po’ privi di direzione. Dispersivo il primo, confusionari i secondi.

A dire il vero, oltre a essermi appassionato anche a questa versione riduzionista dell’universo Marvel (ma ci pensate? Mystica ridotta a essere una Raven qualunque) mi è molto piaciuta sia parte della regia che soprattutto la fotografia e la scenografia.

Ispirato in qualche modo dallo strano ma esaltante minimalismo di Logan e dei capisaldi del genere come Star Wars (almeno, così dice lo sceneggiatore e produttore al suo debutto come regista) il film ha un suo dato di materialità tangibile, effetti piacevoli (come le scene bruciate dalla luce che lentamente tornano a fuoco esaltando i tratti chiari soprattutto di Jean Grey e la sua altalenante personalità) e un tono sinistro e introspettivo che rende il film profondamente emotivo.

Ci credo che potrà non piacere: verrà in parte evitato perché troppo complesso, in parte perché troppo poco violento e in parte perché con delle atmosfere troppo angoscianti. La contraddizione più profonda è la grande luce che pervade tutto il film e che fa da contraltare del buio interiore sempre in agguato nell’animo di tutti i personaggi. Un buio che rende i buoni a un passo dalla cattiveria e viceversa. Nella fragilità morale che di solito accompagna queste narrazioni, quasi una vetta di realismo. Ma probabilmente non basterà.

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