Presentiamo un estratto da Letteratura a fumetti? – Le impreviste avventure del racconto, il nuovo saggio del semiologo Daniele Barbieri, uno dei più noti e apprezzati critici ed esperti italiani di fumetto, pubblicato da ComicOut.
Il libro traccia un percorso storico, dalle pitture nelle caverne ai grandi classici della letteratura, al fumetto, per scoprire l’eterno racconto e raccordo tra immagini e parole.
Töpffer non inventa il fumetto, come qualcuno sostiene. Il fumetto nasce in America, e per precise ragioni. Mancano a Töpffer due elementi cruciali per poter essere considerato il creatore di un nuovo medium.
In primo luogo, non si inventa un medium da soli. Come minimo, bisogna che ci sia un pubblico, che risponde positivamente e pretende che si vada avanti. Töpffer produce in tutta la sua vita otto storie, che non erano, inizialmente, nemmeno destinate alla pubblicazione. Quanti sono stati i suoi lettori? Dove sono i suoi influssi?
Max und Moritz viene pubblicato nel 1865, trent’anni dopo, e sembra un passo indietro, non avanti, rispetto a Töpffer: il disegno è più tradizionale, e sono tornati i versetti. Siamo di nuovo nella situazione di Hogarth, insomma. Come per Walter Crane, che in quello stesso anno in Inghilterra pubblicava il suo primo picture book, l’ispiratore più probabile per Wilhelm Bush rimane lo Struwwelpeter di Heinrich Hoffmann, che viene pubblicato in Germania nel 1845 e a Londra tre anni dopo. Se Töpffer fa storia, insomma, la fa solo a posteriori, quando il fumetto già esiste e se ne riconosce un precursore dimenticato.
In secondo luogo, manca nelle storielle di Töpffer un elemento chiave, cioè il balloon, la nuvoletta, il fumetto. I personaggi di Töpffer non parlano; si lasciano raccontare; sono oggetti del racconto visivo e verbale.
Quando Richard Felton Outcault, nel 1895, scrive le parole (o i pensieri) sul camicione di Yellow Kid (un espediente un po’ meno brillante, ma ugualmente efficace rispetto al balloon) evitando di aggiungere alle immagini qualsiasi narrazione esterna, l’effetto è molto diverso. Il personaggio prende vita; le parole sono sue, non di un narratore; anzi, il narratore proprio non c’è; non c’è nessuna voce che riferisca i fatti, magari con l’ausilio delle immagini.
Pensate al passaggio, nell’antica Grecia, dalla performance dell’aedo o del rapsodo alla recitazione del teatro. L’Iliade è raccontata da una voce, Edipo Re no. A teatro gli eventi si svolgono davanti a noi, e gli attori sono quasi persone vere: non sono raccontati, esistono. Naturalmente sappiamo che si tratta di una finzione; però nel momento in cui volontariamente sospendiamo la non credenza, ecco che i fatti accadono davanti a noi, senza mediazioni. Sta in questo la magia del teatro.
Il rapporto tra la narrazione per immagini tradizionale (anche quella avanzatissima di Töpffer) e il fumetto è simile al rapporto tra la performance dell’aedo e il teatro. Come ogni buon romanziere sa, dare voce ai personaggi li rende più vividi, più vicini. Si elimina, insomma, una mediazione. I personaggi di Outcault parlano, pensano, agiscono direttamente davanti a noi senza essere raccontati da nessuno.
L’invenzione di Outcault, a differenza di quella di Töpffer, trova immediato terreno fertile: subitaneo successo di pubblico, molti altri disegnatori che si improvvisano fumettisti, gli editori dei giornali popolari che si accorgono di avere tra le mani la gallina dalle uova d’oro e investono, portando ancora più pubblico a leggere i supplementi domenicali illustrati. All’inizio del nuovo secolo, negli Stati Uniti, il fumetto è già un medium assestato, e di grande diffusione popolare.
Ancora più di quanto non lo siano oggi, nel 1895 gli Stati Uniti erano una terra d’immigrazione. Arrivavano gli irlandesi, ma anche i polacchi e gli italiani, i tedeschi e i russi. Parlavano un inglese stentato, e ancora peggio lo leggevano. Piano piano imparavano la lingua e si integravano, ma non erano comunque in buoni rapporti con la lingua scritta, tanto più che l’inglese non è particolarmente amichevole nel passaggio da oralità a scrittura.
A questa situazione si fa spesso riferimento per fornire una delle ragioni della nascita del fumetto. I colorati supplementi domenicali dei quotidiani popolari, fatti di tante figure e poche parole, sarebbero stati infatti rivolti in larga misura a questa variegata e poco anglo-alfabetizzata umanità, la quale avrebbe trovato motivo di apprezzarli nella maggiore facilità di fruizione almeno dei contenuti più di evasione.
Ma se davvero questo era il problema di Hearst e Pulitzer e degli altri editori di quotidiani – e non ci sono grandi ragioni per dubitarne, in verità – la questione non si liquida così facilmente come di solito viene fatto. La difficoltà linguistica era in quegli anni sicuramente un problema cui i primi fumetti andavano incontro, ma non possiamo spiegare l’improvviso successo del linguaggio inaugurato da Outcault con la semplice risposta delle masse del pubblico degli immigrati. Anche il pubblico che parlava e leggeva l’inglese senza difficoltà contribuì a questo successo, e credo che un’indagine più approfondita potrebbe scoprire che esso costituiva comunque la maggioranza dei lettori di quotidiani.
Daniele Barbieri, docente universitario, studioso di semiotica e di teoria della comunicazione, è stato anche progettista multimediale e consulente di Raisat. È attualmente docente presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’ISIA di Urbino e l’Università di S.Marino. È autore di numerosi saggi sul fumetto e di semiotica. Tra questi ricordiamo I linguaggi del fumetto, Breve storia della letteratura a fumetti, Guardare e leggere. La comunicazione visiva dalla pittura alla tipografia, Semiotica del fumetto, Maestri del fumetto, Il pensiero disegnato.