«Quando vanno in pensione molte persone dicono: “Oh, finalmente adesso potrò dedicarmi al mio hobby”. Ma il mio hobby è sempre stato il mio lavoro, per 35 anni. Quindi, se ti ritiri dal tuo hobby, cosa ti rimane? Questo è il tipo di persona che sono. La cosa che trovo più rilassante è sedermi al tavolo da disegno e lavorare mentre guardo la TV.»
Così l’anno scorso Mike Mignola commentava il suo ritorno al tavolo da disegno dopo un millantato pensionamento dal mondo del fumetto. Nel 2016 era uscito l’ultimo numero di Hellboy all’Inferno, e le intenzioni erano quelle di chiudere del tutto un capitolo iniziato quasi tre decadi prima, o addirittura di smettere di disegnare del tutto. In realtà nessuno ci aveva mai creduto, neanche per un solo istante.
Dopotutto non è che uno abbia un gran bisogno di riposarsi se non ha mai lavorato un giorno in vita sua. E non parlo della solita retorica del trasformare la passione di una vita in qualcosa in grado di pagarti le bollette, ma di una gestione della propria carriera che fa della tranquillità e del godersi il flusso degli eventi un pilastro fondamentale. Come se il successo fosse una cosa che viene da sé, senza troppi sforzi, e alla stessa maniera potrebbe andarsene da un momento all’altro. Difficile pensare ad altri percorsi di successo gestiti con la tranquillità con cui il creatore di Hellboy vive il suo.
Un cammino che è possibile riassumere in un pochi, fondamentali passaggi: inizia come inchiostratore, passa a disegnatore e sviluppa uno stile tutto personale. Quando questo comincia a diventare troppo particolare per il mainstream lascia le major per continuare lungo la sua strada, si inventa un personaggio basandosi su quanto suonava bene il nome, lo scrive e lo disegna per 25 anni di fila, campandoci discretamente. Fine.
Nel frattempo vince ogni premio possibile e immaginabile (tra cui dodici Eisner e cinque Harvey Award), crea un universo narrativo in costante espansione, vende sempre più ristampe e merchandising, diventa leggenda e uno dei più osannati registi contemporanei gira due film basandosi sui suoi fumetti. Ma se chiedete a lui sarà sempre e comunque tutto il frutto di congiunture fortunate e poco altro.
Gli inizi
Mike Mignola nasce e cresce a Berkeley nel 1960. Quando decide del suo futuro non deve fare altro che oltrepassare la lingua di mare tra la sua città natale e San Francisco. Lì comincia a frequentare il rinomato California College of the Arts. Prima ancora di finire la scuola inizia a collaborare con il magazine The Comic Reader, dove in un paio di anni arriva a guadagnarsi la sua prima copertina. Da lì in avanti il suo percorso non ha nulla di rocambolesco o romantico, ma è più simile alla carriera del tipico impiegato modello.
Entra in Marvel Comics come inchiostratore, si guadagna abbastanza fiducia da passare a disegnare qualche testata minore fino ad arrivare a Rocket Raccoon (miniserie sceneggiata da Bill Mantlo).
Continua a disegnare qualsiasi cosa e ad affinare sempre più il suo stile, finché nel 1987 non riesce a passare a DC Comics, dove lavora a progetti di alto calibro e diventa una stella. Jim Starlin lo vuole con sé per la miniserie Odissea cosmica, ma la vera consacrazione arriva con il one-shot Gotham by Gaslight. Un agile volumetto in grado di contenere in potenza tutto quello che arriverà da lì a poco.
Abbiamo un’ambientazione vittoriana, suggestioni e personaggi che vanno da Sigmund Freud a Sherlock Holmes, uno forte gusto gotico e una spiccata propensione alla stilizzazione. La sceneggiatura di Brian Augustyn non è delle più emozionanti ma – scrivevano su CBR – «il caratteristico stile spigoloso di Mike Mignola svetta in ogni pagina, aiutato notevolmente sia dall’alta qualità della carta del libro che dalla sua colorazione magistrale, che enfatizza i flashback con sfumature di grigio, scene drammatiche e d’azione ben illuminate con gialli accattivanti e la sporcizia della città con marroni fangosi, viola fumé e rossi scuri che contrastano con il brillante rosso scarlatto del sangue di Batman».
Questa particolare rilettura del vigilante di Gotham gode ancora oggi di un tale prestigio da essersi guadagnata nel 2018 una trasposizione animata, ma la cosa non sembra coinvolgere troppo il suo creatore, così come non l’ha fatto il vedere incassare centinaia di milioni dollari dal film sui Guardiani della Galassia, con il Rocket Raccoon che ha contribuito a canonizzare.
«Rocket Raccoon era solo un lavoro. Non è qualcosa che avevo creato io. Certo, ero il primo a farne una storia lunga, ma quello che c’è sullo schermo è radicalmente diverso da quello che avevo disegnato io. Si tratta solo un altro procione con lo stesso nome. Non mi suona mai la campanella che mi fa dire “Oh! Ricordo quando disegnai quel tipo!” Non mi passa per la testa.»
E ancora: «Non ho visto Gotham by Gaslight, quindi non ho idea di quanto abbiano usato la roba che c’era nel fumetto. Voglio dire, ho visto il trailer e ho notato che è una cosa molto più grande e con molti più personaggi. In realtà sembra davvero bello. Ma di nuovo, non c’è nessuna parte di me che dice “Oh, quella è la mia cosa!”. Si tratta solo di “Oh, c’è un Batman vittoriano. Interessante”».
Mettersi in proprio
Il naturale passo successivo di una carriera in costante rialzo è la creazione di qualcosa di proprio. Però è ancora presto per partire completamente da zero, così Mignola ottiene il permesso da parte della Epic – all’epoca la linea adulta della Marvel – di realizzare una serie di adattamenti dalla serie Fafhrd and the Gray Mouser di Fritz Leiber. Tra tutte le letture preferite del disegnatore forse quella che meglio si adattava al suo umorismo e al suo piglio concreto e poco propenso ai voli pindarici troppo esasperati.
«Il mondo di Leiber era così divertente. Voglio dire, un sacco delle sue cose erano così urbane. All’epoca vivevo a New York, quindi camminare per New York – che penso fosse l’ispirazione di Leiber per il suo mondo fantastico – era così eccitante. Ero esattamente nel posto giusto per disegnare quella città. E molti dei miei disegni si basavano sugli edifici di New York», racconterà Mignola.
Alla scrittura dei testi si unisce Howard Chaykin, fanatico del materiale di partenza. Le sue sceneggiature sono fedelissime ai testi originali, ma questo non gli impedisce di metterci del suo, esasperando ulteriormente le suggestioni metropolitane di cui si era innamorato anche il disegnatore.
Nell’introduzione al volume originale, Chaykin spiega di come Fafhrd and the Gray Mouser fosse un fantasy scritto soprattutto per appassionati di crime e che Lankhmar, città dove prendono piede le loro avventure, dopotutto fosse «solo una Manhattan un po’ più fantasiosa – o almeno la città a sud della 14th Street attorno al 1935». Quando alla compagnia si unisce anche la leggenda Al Williamson alle chine diventa chiaro che quelle pagine saranno qualcosa di speciale, un piccolo tesoro ancora oggi non troppo riconosciuto e che spesso ha rischiato di essere dimenticato.
Arriva Hellboy
Passano gli anni e Mignola continua ad affinare il suo particolarissimo stile tra copertine ed esperimenti come Ironwolf – sempre con Chaykin – fino a quando, nel 1994, la sua vita cambia per sempre.
Nelle fumetterie statunitensi arriva il primo numero di Hellboy, personaggio creato basandosi unicamente su quanto suonasse bene il nome. «Vivremo per sempre in un monolocale, vero?» è la prima reazione della moglie a una tale scelta, ma le cose vanno subito in tutt’altra maniera.
«Credo di aver fatto un po’ di casino all’epoca del lancio del mio fumetto. Avevo lavorato in Marvel e DC per dieci anni, dove avevo fatto un po’ di tutto. A quel tempo altri ragazzi stavano realizzando i propri fumetti, e tutti stavano facendo un sacco di soldi, e forse mia moglie pensava che stessi per inventare un nuovo Batman. Avevo disegnato Batman, e mi ero divertito a inventare un particolare tipo di Batman, ma più ci pensavo, più volevo disegnare solo quello che volevo davvero disegnare. E l’unico nome che avessi mai inventato era Hellboy. Così, quando me ne uscii con “Sì, ho deciso cosa fare: farò Hellboy”, suppongo che il suo primo pensiero sia stato “Oh, non sarà mai Batman”. Ma lei è stata fantastica. Era davvero incoraggiante, e infatti quando ho fatto la prima serie – che vendette bene, ma di certo non incendiò il mondo – il mio primo pensiero fu, be’, devo correre di nuovo da DC Comics a fare un altro fumetti di Batman. Sai, farò qualche fumetto più commerciale e lascerò Hellboy per i momenti liberi. E lei ha detto “No, perché non scrivi subito un altro Hellboy?”. Per quanto fossi certo che non avesse molta fiducia nell’idea di Hellboy, gli diede comunque una possibilità».
L’unica casa editrice che ha il coraggio di uscire con un fumetto con la parola “hell” nel titolo – siamo pur sempre nei puritani Stati Uniti – è Dark Horse Comics, fresca del lancio della sotto-etichetta dedicata ai titoli creator-owned Legend. Della partita fanno parte nomi come Frank Miller, John Byrne, Art Adams, Paul Chadwick, Dave Gibbons, Geof Darrow e ancora altri giganti del comicdom. A questi si unisce il giovane Mike Mignola, prendendo la palla al balzo e sfruttando a proprio favore tutta l’attesa costruita attorno alla nuova realtà editoriale. In realtà sarebbe stato più legittimo vantarsi di essere riuscito a far parte di un gruppo di artisti così straordinario, ma non sarebbe troppo nello stile del Nostro.
«Se Hellboy fosse stato un fumetto qualunque e non avesse fatto parte di questo gruppo con Frank Miller, Dave Gibbons, Geoff Darrow e Art Adams… se Hellboy non avesse avuto questa associazione, penso che sarebbe potuto andare e venire senza alcun preavviso. Penso che abbia trovato un pubblico solo perché faceva parte di quel gruppo, e ci fu quel breve momento in cui ricevette il tipo di attenzione che normalmente non avrebbe ottenuto. Chissà? Non sapremo mai cosa sarebbe successo senza Legend. Penso che per me sia stato “il posto giusto e il momento giusto”» avrebbe poi dichiarato l’autore.
In realtà già dai primissimi numeri – scritti assieme a John Byrne – Hellboy è in grado di generare un’alchimia unica, ponendosi come una sorta di spumeggiante frullato pop nonostante nessuno degli ingredienti utilizzati sia definibile come tale. Non sono ancora gli anni in cui imbastire il proprio lavoro attorno a videogiochi retrò o film adolescenziali anni Ottanta. La marea post-moderna è appena esplosa, e le sue possibilità sono infinite. Mike Mignola finisce per unire sotto lo stesso ombrello Poe, Lovecraft, i Nazisti, Jack Kirby, l’espressionismo, le cospirazioni, l’esoterismo e uno spiccato gusto per il gotico alla Hammer.
Il risultato sarebbe già straordinario così – visto che crea un precedente per il fumetto d’avventura moderno che ancora oggi riesce a fare scuola – ma la vera intuizione geniale è quella di mettere in mezzo a questa sarabanda di influenze un protagonista agli antipodi di quello che ci si sarebbe aspettati.
Hellboy non solo è il figlio di una strega e di un demone, evocato circa 300 anni dopo il suo concepimento da un monaco pazzo al soldo della divisione Ahnenerbe delle SS – cosa già abbastanza particolare di per sé per un fumetto mainstream – ma è soprattutto un veterano di guerra. E come tale si comporta. Cresciuto dal professor Trevor Bruttenholm in una base dell’aeronautica militare degli Stati Uniti, da adulto diventa il miglior detective del Bureau for Paranormal Research and Defense (dipartimento per la ricerca e difesa del paranormale), senza perdere un grammo della concretezza guadagnata in anni di frequentazioni militari.
Non abbiamo a che fare con un eroe guascone o dalla battuta facile, ma con un autentico americano duro come il cuoio, genuino e con pochi grilli per la testa. Per trovare la principale fonte di ispirazione per il suo eroe Mike Mignola non deve cercare molto lontano e finisce per modellarlo attorno a suo padre. «La personalità deriva molto più da me, ma alcune dei suoi aspetti fisici sono basati su mio padre. […] Mio padre ha mancato la Seconda guerra mondiale ma ha partecipato alla Guerra di Corea, era un duro, il classico tipo che sarebbe tornato a casa sporco di sangue dopo aver infilato volontariamente la mano in un macchinario. Era così coriaceo. Avrebbe potuto accendersi un fiammifero sulle mani callose».
La popolarità
Per l’ennesima volta Mike Mignola si dimostra autentico come un pezzo d’asfalto, con i piedi ben piantati a terra e privo di ogni forma di velleità d’artista. Più passano le stagioni e più risulta straniante pensare come un disegnatore dall’attitudine così concreta sia riuscito a dare vita a uno dei fumetti più iconici e visionari degli ultimi trent’anni, in grado di generare un universo narrativo in costante evoluzione.
Parlando delle influenze del cinema tedesco nella sua arte – non certo il riferimento più scontato pensando a un prodotto da fumetteria a base di mostri, botte e apocalissi imminenti – Mignola racconta: «Non ho mai detto di voler fare qualcosa del genere, ma sono cose che ho guardato molto e penso di aver reagito a questo tipo di stimoli. Fin dall’inizio della mia carriera ho usato molte ombre, e la realizzazione della tavola parte proprio da queste. Il punto di partenza è sempre stato il bianco e nero, e nel corso degli anni è diventato solo più bianco e più nero. Da lì ho iniziato ad aggiungere e a disegnare angoli esagerati alle architetture e alle cose. Per me era importante far uscire Hellboy dal mondo reale e metterlo in un posto che non avesse regole».
Nonostante le basse aspettative del suo stesso autore e il titolo non proprio conciliante, Hellboy va sempre meglio. Non fa arricchire il disegnatore, ma gli rende abbastanza per tenerlo lontano dai lavori delle major e per consentirgli di fare esattamente quello che vuole. Provando seguire il flusso degli archi narrativi nel corso degli anni, ci si accorge di quanta libertà Mignola metta nella sua creatura. A differenza di altri sceneggiatori, in grado di pianificare lo scorrere delle vicende con anni di anticipo, qui è tutto un dipanarsi organico e disordinato di episodi brevi ed eventi più strutturati. Come se di volta in volta qualcosa catturasse l’immaginazione dell’autore e lo spingesse a costruirgli una storia attorno.
«Per quanto riguarda la popolarità del fumetto, tutto ciò che so è che ho preso tutto ciò che amo e ce l’ho infilato dentro. Ho provato a scrivere Hellboy come se fosse una persona normale. Non come un supereroe dei fumetti. E forse questa cosa un po’ si percepisce.» Un’attitudine da fan, totalmente slegata da ogni forma di approccio imprenditoriale di tanti suoi colleghi. Questo si riflette nell’approccio leggero e disinvolto alla materia, con lo stesso Mignola costretto ad ammettere di essere lui stesso il primo a perdersi nella scombinata continuity della sua creatura.
Hellboy al cinema
La vera svolta arriva quando Guillermo del Toro, un cineasta entrato da qualche anno nei radar di tutti gli appassionati di certo cinema, riesce a portare Hellboy sul grande schermo, con due film usciti tra il 2004 e il 2008. Reduce dai successi di Mimic, La spina del diavolo e Blade 2, il regista non è ancora adorato dalla critica come oggi, ma è considerato dai fan uno straordinario narratore del fantastico. Uno che, al pari di Mike Mignola, racconta solo quello che davvero sente come suo. A conti fatti nessuno meglio di lui può traghettare il ragazzo infernale verso lidi quasi mainstream, anche se questo significa un parziale tradimento della fonte originale.
Il suo Anung Un Rama è più ironico e guascone, e tutto l’universo che gli gira attorno diventa presto una scusa – soprattutto con il secondo film – per mettere in piedi una sarabanda di creature e suggestioni molto più legate alle visioni del messicano che ai fumetti di Mike Mignola. Eppure tra i due scatta la scintilla, e nasce subito una fiducia cieca. A dispetto delle differenze di approccio appena elencate il loro immaginario è praticamente sovrapponibile: suggestioni anni Venti e Trenta, letteratura vittoriana, il gotico, il cinema horror classico, riviste pulp, Poe, Lovecraft, mostri e case stregate. A conti fatti era davvero difficile che non si incontrassero.
Nonostante lo voglia come parte della squadra, Del Toro non fa partecipare Mignola a nessun incontro con i produttori, consapevole di come una personalità accomodante come la sua non sia per nulla adatta a una tale pressione. «All’epoca del primo film di Hellboy, durante tutta una serie di riunioni in cui cerchi di arrivare al risultato che speri, Del Toro mi disse “Non ti porterò mai a nessuna di quelle riunioni, perché non sopravviveresti”. Poi quando Chris Golden e io ci decidemmo a vendere Baltimore per farne un film, partecipai a qualcuno di quegli incontri. E Del Toro aveva ragione. È dura stare in quella stanza e ascoltare alcuni di quei suggerimenti. Forse è pigro da parte mia, ma ho altre cose che preferisco fare. Quindi, la maggior parte delle volte in cui vendo un fumetto per un film dico: “Bene, ora è loro e spero che non lo trattino in maniera troppo orribile. Mi hanno pagato, quindi ora mi prendo i soldi e me ne vado a casa a lavorare sui miei fumetto. E nel caso il regista volesse il mio coinvolgimento, sarebbe grandioso. Ma non puoi non considerare il fatto che alla faranno quello che più sarà utile a loro.»
Non proprio un atteggiamento alla Alan Moore, ma a conti fatti il concedere a Del Toro di lavorare come meglio crede su Hellboy ne garantisce una nuova ondata di popolarità, che si traduce con un incremento significativo delle vendite delle raccolte, del merchandising e di tutto quello che può girare attorno a un fumetto per un pubblico tutto sommato di nicchia come quello di cui stiamo parlando. Forse vendere un giocattolo con la parola “hell” stampata sulla scatola è impossibile nei grandi magazzini e nelle catene per i più piccoli, ma nelle fumetterie e online funziona benissimo.
Dubito che la moglie di Mike Mignola avrebbe mai pensato che una campagna di crowfounding nata per finanziare un gioco da tavolo basato su un personaggio che «non sarebbe mai stato Batman» avrebbe finito per raccogliere oltre 1.600.000 dollari. O che i suoi fan sarebbero stati disposti a spenderne 1.500 per la replica di una pistola vista nel fumetto.
Un universo espanso
Ad accorgersene anzitempo sono i dirigenti Dark Horse, che già nel 2003 danno il via libera per la nascita di un universo espanso targato Hellboy. Il primo esperimento è la serie parallela B.P.R.D., basata sulle avventure vissute dal dipartimento per la ricerca e difesa del paranormale in cui lavora il rosso.
Anche in questo caso l’approccio di Mignola è diverso da tutto quello a cui siamo abituati. A differenza di Marvel e DC, dove ogni avvenimento della galassia narrativa di loro competenza viene orchestrato e deciso con mesi e mesi di anticipo in modo da far collimare ogni testata in sincrono perfetto, ancora una volta l’autore di Berkeley si conferma in totale controtendenza.
Se quella che va per la maggiore è la figura di uno scrittore pienamente padrone della sua creatura, appassionato allo sfinimento e ossessionato dall’idea che ogni pezzo del suo puzzle finisca al punto giusto ecco arrivare Mignola e ammettere senza problemi: «Il mio coinvolgimento giorno dopo giorno è diventato sempre minore, perché non sto disegnando i fumetti e non sto più nemmeno facendo molte copertine. Controllo come vanno le cose, ma l’editoria non mi coinvolge più di tanto. Questo forse potrebbe sembrare un po’ strano. Sta andando tutto avanti da solo e io sono un po’ “Oh, è tutto sotto controllo, ed è soprattutto il lavoro di qualcun altro”. Ringrazio Dio per il mio meraviglioso editor (Katii O’Brien), a cui tocca tutto il lavoro pesante. Mantiene i rapporti con gran parte degli autori e cose del genere. Io mi occupo solo delle cose divertenti. Occasionalmente chiacchiero con gli altri scrittori coinvolti su alcune idee interessanti e bizzarre. Oppure parlo con i disegnatori che vogliono lavorare sui fumetti o ci stanno lavorando. Quindi mi occupo delle cose divertenti e non devo fare nulla di troppo faticoso».
E in effetti tutto l’universo narrativo di B.P.R.D. nel tempo si è legato sempre di più al nome di John Arcudi, compresi gli spin-off dedicati al vigilante degli anni Trenta Lobster Johnson.
L’approccio di Mike Mignola è sempre stato troppo leggero e divertito per perdere tempo a strutturare un intero universo narrativo, meglio dedicarsi solo alla passione del momento. E così ecco arrivare straordinari esperimenti come Lo stupefacente testa a vite – Eisner Award come migliore pubblicazione umoristica – o i romanzi illustrati Baltimore e Joe Golem and the Drowning City, diventati entrambi serie a fumetti per Dark Horse. Una produzione ricca e molto strutturata, che ha l’incredibile dono di farci capire al volo quanto chi ci abbia lavorato se la sia goduta e che al contempo appare dotata di una compattezza autoriale incredibile.
Non si tratta solo del tratto duro e spigoloso – spesso relegato alle copertine –, alla presenza di collaboratori in grado di dare il loro contributo per oltre vent’anni come Dave Stewart o alla sconfinata passione per la narratura pulp e certo horror d’altri tempi. Quello che rende inconfondibile qualunque cosa su cui Mignola abbia mai messo le mani è l’unicità della sua visione, la schiettezza del suo approccio («Sono una creatura semplice. Fondamentalmente cerco solo storie fantastiche piene di mostri») e il suo incontenibile desiderio di fare sempre e solo ciò che vuole.
Anche se questo significa non aver mai letto un fumetto in formato digitale o arrabbiarsi con i giovani autori perché preferiscono guadagnare di più disegnando Batman – sempre lui! – invece che guadagnarsi la loro indipendenza con l’aiuto di case editrici come Image Comics. Forse l’influenza di un uomo d’altri tempi come suo padre non si è limitata alla creazione di Hellboy, regalandoci un autore che è prima di tutto una persona che è difficile non amare. Un autore in grado di scrivere e disegnare fumetti che ci accompagnano da quasi tre decadi, facendolo sembrare la cosa più facile del mondo.
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