di Giacomo Gambineri
In principio fu un articolo. Dedicato a come il Premier e i suoi accoliti occupino le severe stanze del potere, con la disinvoltura di una confraternita del college.
Già alla fine della prima riunione di redazione è risultato chiaro come dovesse apparire su carta questa storia di copertina: “Tre o quattro grandi illustrazioni interne più la copertina in cui Renzi alla scrivania nello studio del Presidente del Consiglio mangia una pizza”. Il direttore lo ha detto sin dal primo giorno. Il dilemma è che lo ha detto guardando me.
Va detto che nei meandri del numero precedente avevo usato Antonio Conte come cavia, nel tentativo di sperimentare un nuovo stile: ho inseguito un tratto più bilanciato tra realismo e astrazione, per poter in futuro fronteggiare i tediosi ma (ahinoi) gettonati “ritrattini” con maggior disinvoltura.
E per la mia hýbris sono stato punito, o peggio: ricompensato.
A questo stile neonato è stato affibbiato l’inglorioso epiteto “gambineri–non-fumettoso” assieme alla possibilità di essere usato quanto prima: copertina e illustrazioni interne più una serie di ritrattini (come volevasi dimostrare) il tutto da gestire con quel tratto nuovo, serio, acerbo. Arrendersi davanti a una tale impresa sarebbe stato disonorevole.
Lo giuro: ho tentato di coniugare le intenzioni redazionali e quella mia pulsione sequenziale, già discussa su queste pagine. E se copertina e tavole interne fossero leggibili come grandi vignette, in cui un ragazzo della pizza si addentra nelle varie stanze di Palazzo Chigi? In qualche gloriosa realtà parallela un altro me stesso è riuscito a convincere la redazione con questa idea macro-fumettistica, ne sono certo.
Nessuna sequenza: solo grandi illustrazioni che facciano risaltare il contrasto tra l’arredamento d’epoca e la naturalezza degli atteggiamenti. Quindi uno stile nuovo, vedute prospettiche di architetture barocche condite da personaggi realistici in atteggiamenti vari. Arrendersi davanti a una tale impresa sarebbe stato disonorevole, fingere la propria morte e scappare all’estero sarebbe stato saggio.
D’altro canto una copertina è merce rara in questo business, è il nostro boccino d’oro. Bisogna essere pazzi per tirarsi indietro o, in questo caso, esserlo troppo poco. Inoltre, per quanto impegnativa, era praticamente già stata sceneggiata: non mi veniva chiesto altro che recuperarla dallo scaffale dell’iperuranio. Poteva essere il più sfrontato esercizio di stile della mia carriera, sempre che io ne abbia una.
Dopo qualche giorno si arriva ad una bozza che, nonostante la sua feroce crudezza, convince. Da quel momento non ci si può più nascondere: la musica è iniziata e io devo fingere di saper ballare.
Ho cercato di abbandonarmi alla ligne claire, nel tentativo di cogliere l’alchimia Renzi-Tintin suggerita in passato da Makkox su Internazionale. Inoltre pedinare Hergé mi era parsa una valida soluzione per far ingerire al mio stile indeciso quello strano cocktail di sfarzo e disinibizione.
Il problema è che IL sarebbe il maschile del Sole 24 Ore, ed è sì sempre molto stiloso, ma con virilità. Quindi mi è stato chiesto di spingere con il nero e aumentare le chine. Fingermi un vero macho, almeno per una volta nella vita. Devo riconoscerlo: l’uso più generoso del nero mi ha permesso di superare alcune inibizioni prospettiche e anatomiche del disegno.
E alla fine arrivammo al colore. Dapprima mi è stato chiesto di provare a riproporre i colori reali, ma ci si è resi conto in fretta che non avrebbe funzionato…lo studio del Presidente è come Jill Masterson sul letto di James Bond: tutto dipinto d’oro. Inoltre diciamolo: che senso ha sforzarsi di illustrare qualcosa, per poi farlo apparire ‘realistico’? La scelta dei colori per la copertina è una questione che valica i confini della redazione: bisogna sempre convincere anche il marketing che una determinata palette funzioni in edicola.
Pare, infatti, che l’ignaro acquirente sia attirato dai colori accesi, pantoni fluo, metallici, vernici speciali. Evidentemente sono così efficaci da richiamare l’attenzione dei passanti anche se la rivista è arrotolata dentro una copia del quotidiano, o relegata dietro al bancone dell’edicolante.
Quindi bando alle malinconie, alle monocromie e alle velleità artistiche: tra le molte prove di colore che ho proposto è stata scelta (con mia gioia) la più psichedelica, e si è poi lavorato per sottrazione.
Il tavolo è rosso, il muro blu, la porta azzurra e le sedie verde acqua. Sarebbe impagabile se ora Palazzo Chigi venisse riarredato secondo le nostre indicazioni. La vita che imita l’arte (e i suoi biechi surrogati).
Occuparsi della copertina è molto faticoso, è la parte più esposta del giornale e quindi bisogna sforzarsi di renderla la meno vulnerabile. Proprio come il logo di Batman ne Il ritorno del Cavaliere Oscuro: è un bersaglio sul petto. Nell’affidarmi quella di questo mese, Christian Rocca (il direttore) e Francesco Franchi (l’art director) mi hanno concesso più fiducia di quanta fossi disposto a concedermene io, e per questo li ringrazio.
Adesso io non posso più guardarla (l’esito post-Cura Ludovico è assicurato) ma pare proprio che la twittosfera (qualsiasi cosa sia) l’abbia apprezzata. Sono felice, ma resto convinto che il successo riscosso sia attribuibile più alla chiarezza d’intenti che alla realizzazione in se. Troppo spesso infatti capita di dover inseguire la copertina durante tutta la lavorazione, con l’entusiasmo che presto si consuma in un’ecatombe di idee.
Come la mia copertina natalizia, per molti versi era più elaborata, ma certamente molto più distratta. La scelta redazionale qui è stata da subito molto puntuale, e io da resident illustrator mi sono dovuto “limitare” a concretizzare il volere dell’alveare. Inoltre la polemica che si è sollevata rischia di rendermi un autore controverso. Potrei trovarmi ad essere famigerato, senza essere stato famoso neanche per il canonico quarto d’ora.
Quando Art Spiegelman ha disegnato la sua prima, dibattuta copertina per il New Yorker, Maus aveva già vinto il Premio Pulitzer. Se mai dovessi pubblicare un fumetto, temo proprio che dovrei retrodatarlo.
E ora: una galleria di curiosità
In molti mi hanno chiesto di disegnare a Renzi un paio di Hogan. Io ho spinto per fargli indossare un paio di Vans Authenthic verde acqua. Volevo vendicarmi degli sguardi biechi che l’intero Sole 24 Ore mi ha tirato quando mi sono presentato con quelle scarpe ai piedi.
Tra i decori della lampada ci siamo io e mia sorella intenti a suonare il flauto, e il volto di un leone (uno dei nostri animali totemici) fa da piedistallo. Il dado con sei sei, strano ma vero, non è un’imbeccata satanica ma un vero gadget presente sulla scrivania del Presidente.
Un post-it recita “Call me 2024561111 Barack”. Il numero è il telefono della Casa Bianca…Barack invece non so proprio a cosa si riferisca.
Questa “B” non si riferisce a nessun grande statista con questa iniziale. Tra l’altro, non me ne viene in mente neanche uno. Il post-it sotto, invece, dovrebbe rappresentare uno schizzo di una veduta di Firenze. Mi sono immaginato che Renzi decori le pareti della sua stanza esattamente come Hannibal Lecter nella sua cella.
Alla fine non ho resistito: un fumetto in copertina doveva esserci. Nel balloon si può leggere “Tomine”, ed è un riferimento ad Adrian Tomine, noto fumettista e copertinista americano per il New Yorker. Il suo spettro mi ha perseguitato durante tutta la lavorazione, e ho sentito la necessità compiere un esorcismo in codice morse.
Leggi anche: 10 lavori di Giacomo Gambineri
Leggi anche: la tesi di laurea di Giacomo Gambineri
—
*Giacomo Gambineri è nato a Genova e si è laureato in Design della comunicazione al Politecnico di Milano. Attualmente lavora come freelance nel campo della grafica e dell’illustrazione, collaborando a prestigiose riviste e quotidiani internazionali, fra cui il New York Times, Wired e IL – mensile del Sole 24 Ore.