1973. Grazie a tre pellicole brutali e visionarie il poeta/attore/saltimbanco/scrittore cileno Alejandro Jodorowsky era riuscito finalmente a passare da oscuro agitatore del sottosuolo teatrale di Parigi a indiscusso regista di culto. Il suo primo lungometraggio era stato Il paese incantato, post-atomico a budget zero basato su di un testo del drammaturgo Fernando Arrabal.

Poi arrivò El Topo, western surreale e iperviolento in grado di conquistare John Lennon in maniera tanto entusiasta da convincere Allen Klein, manager dei Beatles, a distribuirlo in tutti gli Stati Uniti. Il successo nel circuito dei cinema off fu tale da spingere il dirigente della Apple Corps a investire poi un milione di dollari sul successivo lungometraggio dell’artista. Il risultato fu La montagna sacra, un‘opera complessa e potentissima che allargò ulteriormente le file degli adepti al culto di questo ex circense sempre sospeso tra amore per la crudezza e simbologia metafisiche.

Ormai il suo nome era uno di quelli affermati anche fuori dagli appassionati delle proiezioni di mezzanotte ed era giunto il momento di fare un passo deciso verso la storia del cinema. E fu proprio in quel momento che Alejandro incontrò il Dune di Frank Herbert. Un capolavoro della fantascienza già da tempo sospeso in quello che gli americani chiamano il “development hell”. L’opera era troppo ricca, troppo complessa, troppo enorme per essere virata in chiave cinematografica in maniera convincente. Tranne per Jodo, che nel 1975, sprezzante del pericolo come solo lui riusciva ad essere, ne annunciò una trasposizione fiume da dodici ore.

Un progetto leggendario

Per il cinema dovevano essere anni parecchio strani. A dispetto della sua insensatezza il progetto riuscì a incassare quasi dieci milioni di dollari di finanziamenti e, nell’attesa di trovare i soldi mancanti per arrivare al notevole budget di venti milioni, la macchina produttiva poté così mettersi in moto. I nomi del cast sono conosciuti da tutti: da Mick Jagger e David Carradine a Orson Welles e Udo Kier per finire con un delirante Salvador Dalì ingaggiato per 100.000 dollari l’ora e una serie infinita di condizioni.

Alle musiche, album inediti di Pink Floyd, Gong, Tangerine Dream a Sun Ra. Già a questo punto si potrebbero capire le ambizioni sfrenate del regista, eppure il vero cuore del progetto si trovava negli artisti di cui Jodorowsky si circondò per riuscire a mettere su carta le sue visioni.

Al ritorno dal Festival del Cinema di Cannes, dove fu annunciato l’inizio della produzione del monumentale kolossal, il regista e il produttore Michel Seydoux decisero di fermarsi in una stazione di servizio per un caffè e il pieno alla macchina. Mentre si prendevano un attimo di pausa, Alejandro si mise a sfogliare qualche fumetto messo in esposizione nelle immancabili rastrelliere. C’è parecchia roba in cui perdersi, ma una paio di volumi lo catturano immediatamente.

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Jodorowsky e Moebius sul set di “Dune”

Il primo, pieno di astronavi e strane tecnologie, era firmato da un certo Moebius. Lo stile di questo disegnatore, pensò, sarebbe stato perfetto per i costumi e le scenografie del suo Dune. L’autore del secondo invece gli parve subito la migliore scelta possibile per occuparsi dello storyboard. Si trattava di Jean Giraud, interprete grafico del popolare personaggio western Blueberry. Nel puro stile fatalista e misticaleggiante che caratterizzava ogni opera di Jodorowskym anche questa volta la sua vita finì per assomigliare a una sorta di flusso guidato da misteriose forze invisibili. Fermo a una pompa di benzina, e non in un ufficio di una grossa casa di produzione o in un atelier di qualche artista, finì per innamorarsi di due narratori che avrebbe poi scoperto essere in realtà la stessa persona.

Al fumettista francese fu chiesto di mollare tutto per volare immediatamente a Los Angeles dove avrebbe dovuto incontrare il responsabile degli effetti speciali per poi, di ritorno in Francia, dedicarsi alla visualizzazione di tutta la sceneggiatura. «Avevo bisogno di uno script molto dettagliato, di concludere il film sulla carta prima di filmarlo» avrebbe dichiarato Jodorowsky. «Oggigiorno tutti i film con effetti speciali sono fatti così, ma all’epoca questa tecnica non era utilizzata. Volevo un disegnatore di fumetti che fosse geniale e molto veloce, che potesse essere utilizzato come una macchina da presa e che al contempo restituisse un preciso stile visivo.»

Dopo il fumettista francese, si unirono al suo circolo dei “guerrieri” − come Jodorowsky chiamava i suoi collaboratori in questa impresa − il veterano britannico Chris Foss e un giovane pittore svizzero alla sua prima grossa esperienza, H.R. Giger. Il quarto elemento della squadra sarebbe diventato Dan O’Bannon, esperto di effetti speciali desideroso di rilanciarsi come sceneggiatore.

Alejandro e Jean Giraud si chiusero in studio e se ne uscirono con qualcosa come 3.000 disegni − a cui andavano aggiunti anche i contributi del resto della squadra − nei quali la visione di Dune di Jodorowsky assunse una forma destinata a cambiare la fantascienza per sempre. Si trattava di un lavoro mastodontico, ma che aveva costi altrettanto grandi. Furono spesi oltre due milioni dollari solo in pre-produzione, costringendo i finanziatori a ritirarsi ancora prima dell’inizio delle riprese. Quello che ne rimase fu una bibbia da cui Hollywood avrebbe attinto − nonostante si dica che ne esistano solo due copie − per moltissimo tempo.

Basti come esempio l’Alien di Ridley Scott, scritto da O’Bannon e nel quale sarebbero confluiti molte dei concept sviluppati da Giger per Dune. L’atmosfera in quelle stanze doveva essere tanto carica di creatività e di follia che finì per contaminare anche il tempo libero lasciato agli artisti. Il futuro sceneggiatore del capolavoro sci-fi di Ridley Scott, fattosi notare con il grande lavoro fatto sul Dark Star di John Carpenter, fu chiamato quando la produzione perse Donald Trumbull (responsabile degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio).

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Arrivato a Parigi parecchio tempo prima che il suo ruolo fosse effettivamente richiesto, O’Bannon cominciò a disegnare un fumetto per occupare le lunghe ore libere. Si trattava di uno strano noir ambientato in una caotica città del futuro, rivisto quasi come se si trattasse di una parodia del genere. Moebius ne fu entusiasta e, come se non fosse già abbastanza occupato (lavorava di giorno al film e la sera all’Arzach), chiese all’americano se potesse provare a disegnarlo. La storia fu ribattezzata The Long Tomorrow e finì per essere pubblicata nel 1977 sulla rivista francese Métal Hurlant.

Sia William Gibson che Ridley Scott non hanno mai nascosto come quella breve storia fu alla base di tutta l’estetica di Blade Runner, e anche George Lucas finì per infilarla nelle influenze del suo Guerre stellari. Non male per un passatempo infilato tra le pause di una produzione multimilionaria destinata a fallire da lì a pochi mesi.

Dal cinema ai fumetti

In ogni caso, i lavori si arenarono e il progetto finì per morire. La sinergia tra Moebius e Jodo, dopo quelle settimane di lavoro folle e privo di misura, era ormai assoluta, così non passò troppo tempo prima che ricominciassero a lavorare assieme. Niente cinema questa volta, ma il loro primo fumetto. Si trattò di Gli occhi del gatto, uno strano volume − inizialmente non destinato alla vendita − stampato su carta gialla da Les Humanoïdes Associés.

La storia era decisamente minimale, tanto che in realtà era stato concepito come di sole cinque tavole. Fu poi l’insistenza dello stesso Moebius a portarlo a ventiquattro pagine prima e a cinquanta nella sua versione definitiva. Per tutta la lunghezza del volume la pagine sinistra era dedicata al racconto del volo di un minaccioso uccello nero sopra una enorme città, sospesa tra un passato indefinibile e un futuro decadente. L’incontro con un gatto portava a uno scontro sanguinoso dalle conseguenze imprevedibili. La pagina destra invece era un’inquadratura fissa posta dietro le spalle di un misterioso osservatore, il cui ruolo era chiarito solo nelle ultimissime pagine.

Nato quasi senza pretese, risultò in realtà un racconto di una potenza incredibile, dove il tratto di Jean Giraud esplose nella descrizione di un universo alieno, sospeso e privo di vita. A Jodo bastarono invece cinquantuno parole − nella versione inglese − per entrare di prepotenza nel mondo del fumetto e dimostrare una padronanza del mezzo perfetta per la sua necessità di narrare per immagini. Evidentemente la collaborazione tra i due funzionava alla grande e da lì a tre anni il loro primo vero lavoro avrebbe letteralmente fatto saltare il banco delle aspettative.

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Il primo capitolo de L’Incal arrivò nei negozi francesi nel 1981 e concluse la sua corsa sette anni più tardi con l’uscita del sesto volume. In totale si parla di 311 pagine in grado di definire un intero universo traboccante di idee e di vite, di cui alla fine abbiamo la percezione di aver scalfito solo lo strato più superficiale. Ci sono momenti nella carriera di un lettore di fumetti che definiscono in maniera precisa il perché della sua passione.

Quando nel 1998, da quindicenne cresciuto nella provincia profonda, trovai in edicola il primo volume della ristampa di Akira lo acquistai solo per vedere cosa si celasse dietro a quel nome che così tanta reverenza suscitava nei redazionali dove veniva citato. Ancora oggi ho ben chiara la sensazione che provai sfogliando le pagine di quel tomo curiosamente sovradimensionato per un chiosco di giornali: per la primissima volta riuscivo a realizzare fin dove ci si potesse spingere con un fumetto. Mai avrei immaginato che i limiti di quel linguaggio fossero così assurdamente lontani da quelli che mi ero figurato io. Katsuhiro Ōtomo scardinò le mie certezze e mi dimostrò cosa si potesse davvero realizzare con quel linguaggio che, pur adorandolo e consumandolo avidamente dai primissimi anni delle elementari, avevo evidentemente sottovalutato fino a quel momento. La stessa cosa successe, forse in maniera ancora più intensa, qualche anno più tardi con L’Incal.

Per chi non lo avesse letto potrei limitarmi a dire che L’Incal è la più folle e visionaria space opera di sempre. Tutto parte con il detective di classe R John Difool in procinto di finire a bagno in un lago di acido alla base di una delle città pozzo disseminate per una Terra ormai irriconoscibile. Viene salvato all’ultimo minuto e veniamo a conoscenza del perché di quel volo inaspettato e dello strano incontro con l’Incal, un piccolo oggetto piramidale dotato di intelligenza propria e poteri enormi. Sono proprio i misteri attorno a quella presenza così aliena alla base di tutta la prima parte della vicenda. Ma non pensiate che proseguendo andremo incontro a qualche chiarificazione.

Alla fine dell’ultimo volume nessuna spiegazione viene data − Jodo stesso definiva l’Incal come «il maestro interiore che tutti ci portiamo dentro», tanto per rimescolare ulteriormente le carte −, ma intanto abbiamo viaggiato per universi traboccanti idee, sconfitto la tenebra, assistito a rituali di accoppiamento barbarici, buttato all’aria un tentativo di golpe intergalattico, assistito a rivolte apocalittiche e a rinascite insperate. Il tutto per tornare punto a capo.

Nel mentre abbiamo incontrato compagni di viaggio straordinari, necro-sonde prive di pietà, popoli impossibili e valorosi eroi. Tutto quello che vorreste da un fumetto di fantascienza spinta, ma elevato al cubo e messo su carta da un Moebius in costante evoluzione, più morbido e dettagliato nei primi volumi, più sperimentale negli ultimi.

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L’Incal, ieri e oggi

L’avventura si apre con un salto da un ponte, archetipo per eccellenza dell’inizio della trasformazione, mentre il nome del protagonista richiama una delle più note figure dei tarocchi, una delle grandi passioni dello sceneggiatore. La densità simbolica e metaforica della scrittura di Jodorowsky è notevole, e ogni decisione presa dallo scrittore pare essere imbevuta in qualche sorta di saggezza da vecchio sciamano, ma a conti fatti è per la potenza delle sue immagini che l’autore viene ricordato.

Basti pensare al protagonista di El Topo − uno strano cowboy vestito di nero, dotato di ombrello e accompagnato da un bambino nudo − o alle complesse geometrie de La montagna sacra per capire quanto sia enorme la sua capacità di scolpire l’immaginario. In L’Incal Jodorowski si libera dal problema del budget e si abbandona alla potenza visionaria senza pari di uno dei più grandi interpreti di sempre del fumetto come linguaggio puramente visivo.

Quando parlava della creazione del primo libro di Arzach, Moebius spiegava che «non sapevo cosa stavo facendo. Volevo solo essere differente. Era un fumetto muto. Non aveva quasi una storia ed era strano nelle situazioni e negli sfondi. Quando lo finii e ne venne fuori un libro, divenne una specie di monolite di 2001: Odissea nello spazio e continuò a darmi un’energia speciale nel corso degli anni. Non aveva una storia, così tutto era possibile e feci un sacco di poster, illustrazioni, disegni di questo tizio con il suo strano berretto e il suo uccello». Tanto per capire come la poetica di Giraud si esprimesse prima di tutto con il tratto e la capacità di creare universi in cui tutto era possibile, più che in sceneggiature coerenti e ben attente alle regole della narrazione convenzionale.

Così, al di là dei mille significati, delle stratificazioni, dei simbolismi nascosti e della filosofia, i sei volumi dell’Incal si leggono in un fiato per il semplice gusto di vedere che cosa arriverà dopo. Per scoprire che cosa avranno tirato fuori dal cappello quei due demiurghi lanciati verso orizzonti inimmaginabili. Si tratta di un risultato enorme, che non ha bisogno di complicate interpretazioni o di chissà quali chiavi di lettura per essere goduto. Si tratta di pura meraviglia che si dipana davanti ai nostri occhi.

Moebius si perse nel tratteggiare un universo ultra dettagliato − sfruttando anche buona parte del lavoro fatto per Dune − dove passaggi totalmente surrealisti si sposano a un design delle tecnologie fantascientifiche sempre preciso e potentissimo. Al contempo i dialoghi di Jodo si fanno a tratti magniloquenti e a tratti leggerissimi e brillanti. Come nei suoi film il ridicolo e l’epico viaggiano sempre a braccetto, senza troppi problemi.

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Tutto nell’Incal è in costante evoluzione, fluido e trasformato da forze invisibili. La fisionomia del protagonista si fa più caricaturale o più realistica in base ai bisogni della narrazione, passando da figura di plastilina a lineamenti quasi messianici. Mentre viaggiamo per pianeti lontanissimi, Jodorowsky ci parla della potenza dei sogni e al contempo delinea una trama precisa e chiarissima, come il più scafato degli sceneggiatori. Non dà spiegazioni ma riesce a dare a tutto una coerenza e una coesione rari.

Spesso si finisce sul baratro del disastro new-age (il ritorno alla natura, la purezza dei bambini, l’unione di tutte le anime dell’Universo) ma, a conti fatti, arrivati all’ultima pagina, ci rendiamo conto di avere tra le mani semplicemente uno dei più grandi racconti mai realizzati. In grado, a distanza di quasi 40 anni dalla sua prima pubblicazione e a dispetto della sua difficile reperibilità per lunghi periodi, di influenzare ancora oggi tutto il fumetto fantastico.

«Fondamentalmente, se hai mai letto un numero di Saga, East Of West, Prophet, Thanos: La rivelazione dell’infinito, Avengers, Rai, The Winter Soldier, Infinity Man & The Forever People, Guardiani della Galassia, Rocket Raccoon, Alien: Fire & Stone, Mind MGMT, Gli Incredibili Avengers, Annihalator, Batman/Superman, Action Comics, Multiversity, Roche Limit, Thor: Dio del Tuono, Capitan Marvel, Pretty Deadly, Shutter, Starlight, Lose, Avengers 100th Anniversary, Transformers vs GI Joe, Low, Black Science, The Wake, Supreme: Blue Rose, Captain Victory & The Galactic Rangers, Zero o essenzialmente qualsiasi fumetto che ti ha fatto dire “accidenti”, ci sono grosse possibilità che abbia tracce dell’influenza di Moebius nel suo DNA» faceva giustamente notare Marc Spectrum su Nothing But Comics parlando de L’Incal. Una lista di tutto rispetto, ma a cui ognuno di noi potrebbe tranquillamente aggiungere molti altri titoli senza il timore di sbagliare.