In un momento di pausa, verso la prima metà del film, una vista mozzafiato di Wakanda risveglia l’attenzione della videocamera: la regia segue lentamente i contorni della città nascosta nel cuore dell’Africa, ancora più meravigliosa di quanto non raccontino le leggende. I tramonti di Wakanda sono i più belli del mondo, e per questa nazione, apparentemente poverissima ma in realtà da millenni ricca e avanzata grazie a un meteorite che l’ha resa il vero centro della storia planetaria, si fa tutto, anche morire.
Per poco più di due ore Ryan Coogler, il regista di Black Panther, ci trasporta in una straordinaria terra di mezzo. Un film interlocutorio, certo, quasi sospeso nel suo desiderio di raccontare in tutta la sua magnificenza la storia della nascita di un re e il conflitto fra la tradizione, le colpe dei padri e la voglia di costruirsi il proprio destino. «Non permettere a nessun altro di decidere che re sarai» lei dice a lui, guardando la bellezza profonda e quasi infinita della grande valle.
C’è chi lo pensa un film riuscito a metà, questo Black Panther, anche se le recensioni che vengono dagli Stati Uniti sono in buona parte più che positive, come abbiamo già appuntato qui. Ma vederlo così, come un mezzo film, rende solo in parte giustizia. Il desiderio di stabilire un punto di partenza, creare uno “speciale” che mostri il mondo, la cultura e le tradizioni di Black Panther alias re T’Challa, è solo una scusa per continuare a raccontare una storia più profonda e complessa.
Black Panther nella mitologia Marvel dell’attuale, primo grande ciclo cinematografico degli studios americani, che non sarà infinito ma che sta portando avanti un complesso affresco fantascientifico sempre più ricco e sempre più articolato, è una pedina importante, uno snodo chiave, un film riuscito.
Se è vero che uno degli obiettivi della fantascienza è raccontare la nostra società, Black Panther si assume la responsabilità di mostrare quel lato della storia che la tradizione bianca ed eurocentrica ha continuato a perpetuare anche nel mondo cinematografico dei Marvel Studios. Un mondo di prospettive, di sensibilità e di visioni a cui noi, abitanti di quest’altra parte del nostro tempo, non siamo abituati ma che ci attraggono e ci intrigano.
Tuttavia non bisogna sbagliarsi. Può sembrare tutto edulcorato, una sorta di favola per persone di colore. Non è così. Invece, i conflitti ci sono, le contraddizioni e i chiaroscuri anche, portando avanti il disegno di un fumetto cinematografico che non ha certo l’ambizione di essere un’opera impegnata, non è fatto da Spike Lee e non vuole raccontare la vita di Malcom X. Però c’è l’orgoglio nero, c’è voglia di insegnare a non avere paura dei propri sentimenti, a cercare di essere generosi e coraggiosi, a non dimenticare che il nostro cuore è sempre uguale e batte sempre allo stesso modo, a prescindere dal colore della pelle.
È un film sui valori, sulla giustizia e sulla dialettica tra i legami personali e quelli della società, del proprio clan. È un film che racconta il conflitto tra etica e morale in una visione lontana dal sentimento dei tragici greci su cui si fonda la nostra cultura bianca e occidentale. Da questo punto di vista Black Panther è un film ricco, complesso, che pone sentimenti non banali come il desiderio di cambiare, il rispetto delle tradizioni, la fedeltà a ciò che è giusto e alle istituzioni, in rotta di collisione ma con garbo e in maniera intelligente.
Black Panther però è anche un divertimento intenso e spettacolare: il vertice di quanto è stato fatto sinora nel mondo Marvel, che lascia immaginare altri modi e altre culture senza bisogno di ricorrere a vulcaniani e Klingon. È un film per giovani che sa intrattenere anche i meno giovani e che sfiora corde diverse tra loro, andando oltre gli stereotipi di genere. C’è persino la parte lasciata all’attore bianco, Martin Freeman, nel ruolo di spalla che nei “vecchi” film dei bianchi era riservato al nero coraggioso e generoso, ma un po’ sempliciotto e comunque fuori dai giochi.
Questa volta, così come in passato, ci prendiamo, anzi mi prendo su questa colonna la responsabilità di dividere più che di unire, giudicando. Ho indicato film per me molto belli – come il coraggioso seguito di Blade Runner – e telefilm solo esteticamente belli ma purtroppo privi dell’anima necessaria a trasportare uno spettatore che abbia passato l’adolescenza in un altro modo – come il recente Altered Carbon o il tristo lungometraggio Ghost in the Shell.
Mi prendo la responsabilità di giudicare e quindi di dividere anche su Black Panther. Il film per me sta dalla parte dei buoni: è un buon film. Anzi, averne di film-ponte fatti così in un franchising epocale come quello dei Marvel Studios. Averne di film così intelligenti, sovversivi, capaci di mostrare come avrebbe potuto essere un futuro alternativo, come potrebbe prendere forma una società costruita su lotte e idee diverse da quelle che dal Mediterraneo settentrionale hanno dominato il pensiero e la cultura del pianeta negli ultimi cinquecento anni. E finalmente con un cattivo che è frutto delle debolezze dei buoni e che è politicamente impegnato, forse ancora più sexy del buono e ancora più disperato di quegli schiavi che sceglievano di buttarsi dalle navi mentre venivano trasportati verso l’America scegliendo di non vivere la propria vita in catene.
Averne di film così.