a cura di Andrea Fiamma e Alberto Brambilla
11 anni e 6 mesi. 600 numeri, dal 2681 al 3280. Così tanto è durata la direzione di Topolino di Valentina De Poli, dall’aprile 2007 e all’ottobre 2018. Si è trovata a traghettare il giornale in varie fasi importanti, di grandi cambiamenti, tra l’avvento del digitale e dei social network e un’emorragia fortissima dei lettori in tutto il settore del fumetto da edicola, per non parlare del passaggio di editore da Walt Disney Company Italia a Panini Comics.
Qualche mese fa l’avevamo intervistata insieme agli altri ex direttori del settimanale per ricostruire la storia di Topolino. Proponiamo qui di seguito l’intervista completa.
In un articolo scritto in occasione dell’uscita dell’ultimo numero di Topolino diretto da te, Andrea Tosti ha affermato che la partita di ogni direttore «si gioca su due tavoli. Da un lato il consolidamento del pubblico adulto; dall’altro, l’arresto della progressiva emorragia – un problema ormai antico, per la verità – di lettori giovani». Quando e perché, secondo te, è iniziata questa disaffezione dei lettori giovani?
I tavoli sono molti di più, giuro! Ma per rimanere in questi parametri posso dire che dagli anni Ottanta in avanti il mondo dell’intrattenimento ha riservato sempre più attenzione al target “kids“, potendo contare a mano a mano su mezzi sempre più coinvolgenti e presenti nella quotidianità delle famiglie: tv, videogiochi, ma anche attività extra scolastiche, proposte “made to measure” dedicate ai bambini negli ambiti di formazione, intrattenimento e consumo.
I bambini hanno avuto sempre meno tempo a disposizione per annoiarsi e sentire il bisogno di rifugiarsi in mondi fantastici, crearsi i propri spazi e vagare con la mente sognando di paperi e topi. Perché l’approccio con i fumetti Disney non è solo lettura. È vita vissuta in un’altra dimensione. Fantastica. Richiede il giusto “ambiente”. E poi non dimentichiamo il problema demografico…
Come sei arrivata a diventare direttrice di Topolino?
Era destino! Mi piace pensare a una specie di predestinazione. Niente di sovrannaturale. Per quarant’anni buoni, da quando ho imparato a leggere – su Topolino, naturalmente – ho attraversato con entusiasmo e curiosità il mondo di questo giornale unico, l’ho vissuto sulla mia pelle, scoprendone la magia prima e tutti i segreti e i meccanismi del backstage dopo, ma soprattutto incontrando persone, lettori e personaggi che mi hanno formato, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno, anche come persona: Topolino è diventato parte della mia vita perché… doveva essere così!
Dal punto di vista pratico la cosa che più ha influenzato la mia carriera è stata quella di aver gestito la posta dei lettori del giornale come primo incarico di responsabilità nel 1988. Lì si è instaurato un rapporto con chi legge Topolino che non ha mai smesso di esistere e che ho coltivato, sempre. Ecco, quello mi manca un po’. Lo capisco quando qualche lettore mi raggiunge su Instagram, e mi viene un po’ di magone…
Hai parlato con il tuo predecessore?
I periodi più divertenti della mia storia professionale disneyana sono stati due: quelli della formazione e della crescita in redazione, condivisi in particolare con Massimo Marconi ed Ezio Sisto, e poi quelli dal 2001 al 2007 quando a dirigere Topolino c’era Claretta Muci e io ero direttore di W.i.t.c.h. e dei giornali pre-scolari: lei mi faceva ammazzare dalle risate e abbiamo condiviso molti momenti tra il serio e il faceto, a partire dalle famose riunioni di divisione passando per la Fiera di Francoforte, fino allo shopping sfrenato. Era una vera anarchica rispetto a me che sono di indole più bacchettona con tendenza a lasciarmi schiacciare dal senso del dovere.
Ho ammirato e invidiato il suo approccio senza regole quando partiva con un’idea pazzesca e non la fermava più nessuno: io non sarei mai stata capace di agire come lei! Cioè… avete presente le elezioni di Paperopoli con tanto di scheda elettorale e manifesti? È riuscita a farle e a pubblicarle sul Topo senza che nessuno dicesse “beh”! Usava armi di distrazione di massa che la portavano dritta all’obiettivo! Il coraggio incosciente con cui affrontava determinati argomenti di cui si innamorava era un’arma vincente.
Io, più pesantona, di fronte alle scelte importanti ci ho sempre messo una massiccia dose di analisi dei pro e contro, delle conseguenze per rendere tutto a prova di bomba (a parte una volta in cui il fattore emotivo ha preso il sopravvento…). Ma essere così secchioni non sempre ripaga!
Chi ti ha dato il consiglio più utile per la tua direzione?
Mamma mia, la lista di persone è infinita. Spesso i consigli arrivavano inaspettati e ignari di esserlo. Io sono una spugna. Assorbo tutto e al momento buono faccio riemergere. Da una mitica “sciampata” per aver fatto qualcosa di sbagliato da parte di Elisa Penna, quando muovevo i primi passi, a un complimento di Giorgio Cavazzano che se lo dice lui allora c’è da crederci, o a una telefonata di auguri di Natale con Alessandro Sisti che si trasforma in un progetto… tutto è stato utile per affrontare la responsabilità da direttore di Topolino.
E sono le prime tre cose che mi sono venute in mente! Ma ci sono altri centomila episodi che hanno segnato la mia direzione. Prima, durante e dopo. In particolare – l’ho già dichiarato più volte – il fatto di essermi confrontata quasi ogni giorno con persone, soprattutto tra gli autori, che hanno una marcia in più è valsa più di mille consigli.
E quella dedica di Gaudenzio Capelli nel 1994, sul numero 2000 di Topolino – «A Valentina specialissima in tutto» – mi ha dato una carica mostruosa per affrontare il futuro: il giorno in cui mi hanno comunicato che sarei passata alla direzione di Topolino sono andata subito a rileggerla e ho tenuto quel numero sulla scrivania per un bel po’ e mi ripetevo: ce la posso fare.
Com’era Topolino quando ti sei insediata? Cosa andava cambiato, mantenuto, ripensato, sia in termini di storie che di contenuti redazionali?
Ecco, questo lo sto dicendo per la prima volta: io non ero per niente contenta quando mi sono insediata! Mi stavano togliendo da un sogno, da anni fantastici in cui ho vissuto solo esperienze positive, di creatività sempre al massimo e la testa costantemente proiettata al nuovo per creare cose inedite, senza dovere tener conto di un passato importante e pesante come quello del Topo: il “sistema W.i.t.c.h.” era tutto da costruire pezzo dopo pezzo, ogni giorno c’era uno stimolo nuovo, e in quel momento la testata stava vendendo più di 20 milioni di copie in tutto il mondo; ero fiera di Art Attack, che dopo l’uscita del n. 1 aveva in poco tempo toccato quota 220mila copie mensili vendute solo in Italia, e sulla scia di quel successo mi ero divertita come una matta inventando anche Disney in Cucina, facendo sempre le 10 di sera in redazione con Lorella Battagin alla grafica, cosa che nemmeno ai tempi di Pikappa; la collaborazione con Disney Channel era profilica, regalava mille spunti per creare giornali.
Il rapporto con le lettrici di W.i.t.c.h., poi, era qualcosa di veramente magico: in redazione con Vero, Susi, Gaja, Manu e Anto mi sembrava davvero di avere a che fare con delle persone dotate di poteri speciali, c’era un equilibrio perfetto. In questo non invidiavo Claretta, percepivo che al Topo il registro era diverso, anche la qualità della responsabilità. E, infatti, il lavoro che mi è stato chiesto di fare, prima di tutto, è stato di ottimizzare contenuti e processi e conti. Dovevamo prepararci alla licenza e ogni tassello nel fantastico mondo del settimanale doveva essere in perfetto ordine per risultare appetibile. Ma questo, naturalmente, l’ho capito molto tempo dopo quando il progetto licenza è stato svelato.
Per tutta la durata della mia direzione la fatica più grande è stata quella di fare un buon lavoro per i lettori trovando un equilibrio tra la crisi dell’editoria e quella economica del 2008, le esigenze altissime dell’editore e quelle dei licenziatari esteri, ma anche quelle della multinazionale in profonda trasformazione e delle opportunità di business che comunque in Disney erano all’ordine del giorno (le operazioni di B2B, per esempio, che tra l’altro mi davano grandissime soddisfazioni, ho imparato tantissimo in quell’ambito).
Non erano tempi per far festa, insomma. Non era W.i.t.c.h. Ma io ce lo messa tutta per far sembrare che la festa ci fosse, eccome. Sempre. Cercando di tirare fuori il meglio e valorizzare le persone che contribuivano a mantenere vivo quel sogno. Cercando di creare un ambiente accogliente dove, visto che bisognava lavorare duro, si stesse anche bene. In pieno stile Topolino. Il mio faro, comunque, sono sempre stati i lettori. Piccoli e grandi. Anche qui, una questione di equilibri da mantenere…
Ti ricordi com’è stato il tuo primo giorno in redazione da direttore?
Ma proprio no! E nemmeno la prima riunione. Tenete presente che conoscevo già tutti, venivo dall’interno del mondo Disney e con Topolino ero cresciuta professionalmente dal 1988 al 1997, diventando giornalista e occupandomi praticamente di tutto. Segreteria, ordini di pagamento, produzione, pellicole, mostre, fotografie, eventi… Avevo lavorato con Gaudenzio Capelli e Massimo Marconi, non so se mi spiego! Sotto la guida suprema del grande Umberto Virri, presidente visionario avanti mille anni luce su tutti. Dopo, al mio rientro in Disney dopo tre anni “sabbatici”, ho vissuto l’inizio del nuovo millennio da spettatrice privilegiata al fianco di Claretta e della redazione del Topo, i miei ex colleghi, godendo di quel prezioso distacco che nei momenti giusti regala saggezza.
Ai più è sembrato un gioco da ragazzi quel passaggio che mi veniva chiesto: pensavano davvero che per me sarebbe stato tutto facile a causa di quel passato. E, invece, non ho nemmeno potuto dire “mi prendo questo primo anno per capire come vanno le cose…”, ho dovuto fare subito i conti con realtà che conoscevo nel profondo da sempre, alcune notoriamente spinose. Chi arriva senza conoscere può permettersi di fare scelte impopolari e imporsi in modo più clamoroso. Io ho fatto subito i conti con i compromessi. Ma su altre cose, naturalmente, sono stata avvantaggiata.
L’unico ricordo netto che ho è un po’ doloroso, ed è stato ritrovare nelle persone che avevano già lavorato con me anni prima un po’ di diffidenza nei miei confronti… Credo che qualcuno avesse approfittato per seminare un po’ di zizzania e portare avanti qualche giochino politico. Ecco, in quei giorni ho capito che l’asticella si era alzata, entravo in un nuovo livello di gioco.
Per fortuna, quando si tratta di relazioni, non mollo, vado nel profondo e con la redazione abbiamo recuperato immediatamente. Claretta aveva lasciato un vuoto umano enorme, e quindi era comprensibile qualche malumore. L’affiatamento e la fiducia con la redazione andavano subito recuperati, perché intuivo che ci saremmo trovati ad affrontare momenti complicati.
Quale credi sia stato il lascito più importante della tua direzione?
Rispettare e valorizzare il lavoro di tutti, nei limiti delle possibilità e in quelli umani, ma cercando anche di superarli, questi limiti. Non perdere mai di vista i lettori, anche qui una questione di rispetto. E poi far capire al pubblico – non ai lettori che lo sanno benissimo – che le storie di Topolino e il giornale “non sono solo canzonette”. Topolino ha un ruolo nella società, fa parte della cultura italiana, sarebbe stato da irresponsabili lasciarlo andare alla deriva o vivacchiare o nascondersi dietro alla crisi dell’editoria e l’avvento del digitale.
Il design degli interni è cambiato molto negli anni, che idea c’era dietro ai rinnovi grafici che hai curato?
Trasmettere il senso di appartenenza a un mondo speciale e unico. Accogliere i nuovi lettori giovani. Ogni settimana dovevamo proporre un’esperienza che non aveva nulla di lasciato al caso, si doveva capire in ogni pagina che eravamo al servizio dei lettori e dei personaggi Disney. Occhio di riguardo ai protagonisti, i bambini, con un secondo livello di lettura e coinvolgimento dedicato agli adulti, visto che sono i due terzi del lettorato. Per divertire e non solo. Topolino ha un ruolo sopra le parti, unico nel panorama dell’intrattenimento italiano.
La sfida era quella di proporre un riferimento ai vari target che compongono la comunità di lettori del Topo in modo che tutti trovassero qualcosa che facesse sentire che quella cosa lì era stata fatta per loro. Il viaggio della “Topolitana” cominciato nel 2007 aveva tappe e fermate per tutti. La sfida parallela di quell’anno era stata quella di rifondare il “Club di Topolino”. Avrebbe funzionato se ci fossero state più risorse da investire. Il sogno, purtroppo, è durato poco. Prima occasione persa.
Poi nel luglio del 2011 è capitata la grandissima occasione: poter sfruttare le potenzialità del digitale. Abbiamo lavorato su un progetto lungimirante, a mio avviso perfetto, che anticipava tutti i temi di quanto è successo dopo nel campo dell’intrattenimento e della user experience. Non si trattava di occuparci di device e passare al digitale a discapito della carta, ma di avere finalmente i mezzi per arricchire e valorizzare un mondo, rendendo i lettori ancora più partecipi, parte integrante del giornale, avvicinandoli sempre più a chi creava il loro sogno: redazione e artisti. E poi farli interagire tra loro. Il mio più grande rammarico è che siamo riusciti a fare solo il primo step di quel grande progetto.
Da metà 2012 è cominciato il conto alla rovescia verso la licenza ed era necessario volare basso, sono diventati più urgenti altri temi. Sia Disney sia Panini hanno preferito mettere da parte il progetto che metteva in costante comunicazione e interazione sito-app-cartaceo-lettori, un vero peccato. Anzi, una sofferenza vera per chi ci aveva creduto, con passione e mestiere. Per fortuna c’è stato il grande lavoro fatto sul numero 3000 che ci ha fatto recuperare entusiasmo nel backstage!
C’era un’idea dietro alle storie che volevate proporre? Come ti rapportavi al caposervizio delle sceneggiature? Lasciavi carta bianca o controllavi da vicino lo sviluppo delle sceneggiature?
Ho sempre lasciato totale libertà nello sviluppo delle storie. Per me il ruolo del direttore è di guida: deve tracciare il percorso da seguire, proporre la linea editoriale, individuare i temi delle storie, avere le idee chiare sul dove si sta andando e sulle forze su cui si può contare. Prendersi la responsabilità degli errori. Rischiare. Il direttore fa “le convocazioni” della squadra e stabilisce gli obiettivi. Prima. Poi ci sono competenze più specifiche e fondamentali nel processo produttivo dove intervengono con totale responsabilità i professionisti che conoscono il mestiere, in questo caso gli editor della redazione fumetto.
Togliamoci dalla testa quella stramba idea, molto di moda nella società di oggi, che tutti possano fare tutto, tanto, appunto, “sono solo canzonette”. E non deve nemmeno prevalere il gusto personale del direttore, anche perché nelle organizzazioni piramidali come le redazioni basta una richiesta emotiva urlata in un corridoio tipo «Zio Paperone deve essere più buono» per far deragliare tutte le storie in quella direzione per almeno un anno! Naturalmente sui grandi temi e le grandi storie sono stata più presente, ma sempre con massimo rispetto nei confronti del lavoro di autori e redazione.
Non nascondo che mi sarebbe piaciuto in alcuni frangenti avere più occasioni di confronto con chi vedeva le storie crescere a ogni passaggio, anche perché è la parte più bella del nostro mestiere, e poi perché dallo scambio nascono spesso grandi opportunità e idee. Ma la macchina produttiva di Topolino è implacabile e, purtroppo, da quando è stato scelto di eliminare il vice-direttore – l’ultimo è stato il grande Ezio Sisto che sulle storie ha fatto un lavoro d’eccellenza –, figura fondamentale nei periodici settimanali, la frammentazione del tempo da dedicare alle esigenze di un giornale e dei suoi derivati ha fatto sì che io sacrificassi la parte creativa a favore di quella manageriale.
La storia che preferisci o che ti ricordi di più della tua gestione?
Vediamo… Mi lascio trasportare istintivamente dalle storie che mi hanno emozionato dal momento della proposta allo svolgimento e a ciò che è stato raccolto dopo la pubblicazione e che è rimasto nell’immaginario: La vera storia di Novecento di Alessandro Baricco, Tito Faraci e Giorgio Cavazzano che ha aperto la via a tutte le trasposizioni a fumetti successive e alle collaborazioni d.o.c., dove gli autori, a mio avviso, si sono superati. Tra queste Dracula di Bruno Enna e Fabio Celoni come conferma che si poteva davvero alzare il livello della sfida.
Per mia soddisfazione personale l’incontro con un grande personaggio, amante dei fumetti tra l’altro, è stato importantissimo: porterò sempre nel cuore la storia dedicata a Vasco, di Fausto Vitaliano e Cavazzano, realizzata in collaborazione con un grande e insostituibile amico di Topolino, un professionista unico come Vincenzo Mollica.
Indelebile rimarrà il ritorno di Atomino con gli Ombronauti di Casty e il crossover PK vs DD – Timecrime. La sensazione di aver toccato il cielo con un dito è arrivata con Topo Maltese, a celebrare l’artista Cavazzano, un patrimonio dell’umanità. E poi, per me, una pietra miliare è Zio Paperone e l’ultima avventura, dove c’è dentro tutto: tradizione, futuro, cuore, valori… Artibani & Perina, simboli del Topo del nuovo millennio.
C’era un criterio nell’assunzione dei nuovi autori? In che percentuale avete portato nuove voci o tenuto vecchi nomi? Come trovavi i nomi nuovi?
Ho potuto occuparmi di nuovi autori solo nell’era Panini. Prima, ricorderete, ci ha pensato l’Accademia Disney, un’istituzione che ha formato fior di autori. A un certo punto fin troppi. Con l’arrivo della crisi economica del 2008, era rimasto praticamente solo Topolino a dare lavoro a tutta la community di artisti. Per esigenze editoriali che ho già descritto sopra, a un certo punto abbiamo dovuto letteralmente lasciare senza lavoro una gran quantità di autori. Uno dei momenti più terribili della mia esperienza da direttore. L’ho fatto parlando con tutti, notti insonni, ma di certo la parte più tremenda l’hanno vissuta loro.
Quando siamo arrivati in Panini per fortuna abbiamo potuto – anzi dovuto – accelerare la produzione per poter tornare a formare i timoni del giornale con un minimo di tranquillità e programmazione – Stefano Petruccelli negli anni precedenti ha fatto veri miracoli per assemblare i numeri, non smetterò mai di ringraziarlo – e dedicarci a nuovi filoni di storie, sperimentando anche un po’.
È nata anche l’esigenza di trovare autori giovani che portassero linfa nuova e in questo ci ha aiutato Tito Faraci che aveva il compito principale di reclutare personalità tra gli extra disneyani – da qui l’arrivo di Sio, Giorgio Fontana, Giulio D’Antona per esempio – oltre a coadiuvare Davide Catenacci, il caporedattore, nel seguire i giovani autori già pucciati nella disneyanità come il bravissimo Vito Stabile, che avevano bisogno di attenzione continuativa ed esperienze e confronto ravvicinati per mettersi alla prova ed emergere.
In accordo con Simone Airoldi, poi, nel 2013 abbiamo lanciato un contest istituzionale per nuovi disegnatori che, in seguito alla selezione, sono stati seguiti con grande professionalità da Luana Ballerani, che si è presa questa enorme responsabilità, accostata al suo lavoro quotidiano. Il risultato ha più di un nome: Stefano Zanchi, Renata Castellani, Nico Picone, Emanuele Baccinelli, per citarne alcuni… Ma che bravi sono?!
Hanno aiutato molto Topolino nell’era Panini, sia per riuscire a rientrare nei borderò di ogni numero, perché tra le alchimie della rivista c’è soprattutto la fatica di rimanere nei costi, sia per ovviare all’allontanamento delle grandi firme che, a causa del rallentamento dei lavori del 2008, avevano trovato anche altro da fare – giustamente – e il loro contributo si misurava con il contagocce. Non tutti i top, infatti, sono rientrati lavorando a pieno regime, con mio rammarico. Di storie di Mastantuono e Freccero ne avrei volute molte di più, per esempio…
Assumendo nuovi disegnatori, c’era uno stile di disegno particolare/nuovo che cercavi di proporre al pubblico?
Per me Topolino lo fanno gli autori e la loro interpretazione del mondo disneyano. Sono loro il cuore di tutto, insieme con gli sceneggiatori. Devono essere capaci di trasmettere qualcosa, di passare un’emozione. Ci deve essere l’anima. Non si tratta di copiare uno stile o di seguire solo delle regole.
Faccio sempre l’esempio della grande Silvia Ziche, unica e irripetibile che non somiglia a nessuno. È Silvia Ziche. E Claudio Sciarrone: di quante ere in avanti ha fatto viaggiare il Topo con il suo stile unico? E le risate che solo uno come Stefano Intini fa suscitare? Enrico Faccini? Vabbè, poi c’è Giorgio e chi lo emula va sul sicuro… Dopodiché bisogna anche tenere conto che 7.000 tavole da produrre in un anno somigliano di più a una produzione industriale piuttosto che a un lavoro autoriale, quindi è necessario accettare qualche compromesso.
Topolino non è mai stato solo storie. Che impostazione hai voluto dare ai redazionali e agli approfondimenti?
Lo schema di base utilizzato in undici anni è sempre stato lo stesso: desumere l’approfondimento giornalistico dalle storie principali e, laddove c’è l’occasione, far diventare il fumetto e i suoi protagonisti il tema da approfondire. Poi si sono alternate le classiche rubriche tipiche dei settimanali.
Vado fierissima dell’invenzione dei graphic journalism sul Topo, il mio modo per far capire quanto credo nel fumetto come mezzo per comunicare. Poi importantissima la call-to-action dei lettori: i toporeporter che vivono le esperienze e i laboratori di Topolino servivano a questo. Il giornale deve essere vivo. I lettori, protagonisti.
Come dev’essere la copertina di Topolino? Come erano le tue?
Dal primo restyling del 2007 la copertina doveva corrispondere al contenuto della storia principale. A parte le eccezioni degli avvenimenti “da calendario”. Doveva trasmettere il senso del giornale o celebrare qualcosa di clamoroso. Come succede per tutti i periodici settimanali del mondo. La scelta di evitare gag slegate dal contenuto era inevitabile nella mia visione. Spesso nella cover avevamo troppe cose da dire, ammetto. Ma lo rifarei.
Il Topo è ricchezza. Di idee, di stili, di contenuti. A volte ci siamo piegati alla sperimentazione (chi non ricorda Johnny Depp pirata fotografico? Aaaargh!), non sempre riuscite. Ma senza osare non si va da nessuna parte. Le mie copertine preferite però, rimangono le variant: Topolinix, Dottor Jekyll, la “4 ante”, la pelosa… Io fino a quando non le vedevo arrivare stampate avevo l’ansia: e, invece, soprattutto grazie al maestoso Vito Notarnicola, le nostre ciambelle sono sempre uscite con il buco!
Questione gadget. Per te cosa sono? Uno strumento utile per invogliare alla lettura, un contorno che crea engagement o altro? Quanto (e quanta energia) ci vuole per realizzarli?
Nel famoso 2011 avevamo trovato la quadra perfetta: un veicolo, la Makkinaz, che andava a completare la decennale collezione Disney di mezzi di trasporto, era protagonista di una saga a fumetti, di uno spot tra i più riusciti della storia del Topo, tema conduttore di un videogame a livelli accessibile a tutti sul sito che alimentava la community di lettori e giocatori. Qualità altissima.
Anche la Trivella dei Bassotti subì la stessa sorte, se non sbaglio. E l’Astronave di Star Top e le Duck Wheels… Il gadget così concepito serve come completamento di un mondo. Perfetto. Ma servono competenze eccezionali per realizzarlo. In questo Emanuela Peja è stata una maestra. Per tutti. Il gadget “gratuito” e slegato dal mondo del giornale non funziona su Topolino. Certo, il famoso seriale è un investimento mica da ridere…
Il gadget di cui vai più fiera? E quello che ti penti di aver approvato?
Chiarisco: non ho mai avuto facoltà di approvare un gadget. Semmai ho collaborato all’idea! Il massimo della soddisfazione è arrivata con la Paperopoli. Doveva essere un gadget del Topo – ancora in epoca Disney – e poi è diventato un partwork uscito con Centauria, I Love Paperopoli, la città dei paperi da costruire. Tutto è nato dai famosi percorsi pubblicati sul giornale a puntate, con i disegni di Blasco Pisapia. Manu [Peja, Ndr] ha fatto sue quelle pagine e le ha trasformate in 3D. Ho pensato: è pazza! E, invece, lo ha fatto davvero…
A proposito di pentimenti mi sento in colpa per non aver capito in tempo che, nel 2016, ormai l’epoca delle “4 settimane per costruire un gadget” era al capolinea. Ormai il lettore vuole tutto e subito. Sempre di più. Piuttosto spendendo più soldi, ma mettendo mano al super gadget subito.
Numeri di anniversario: come si affrontano? Lo sforzo di festeggiarli poi rende a livello di vendite? Sotto la tua direzione ce ne sono stati molti di anniversari: Topolino 3000, gli ottant’anni di Mickey Mouse (non festeggiati, come mai?), poi i novanta, gli ottanta di Paperino, i sessanta del libretto. Come li diversificavi?
Gli ottant’anni di Topolino personaggio non sono stati festeggiati perché in quel momento storico in Disney erano stati messi al bando tutti gli anniversari che riportavano in luce l’età dei personaggi, e così anche i sessanta del formato libretto sono passati in sordina. Però di quegli anni ricordo invece i festeggiamenti per Zio Paperone e la Numero Uno, una riuscita con i fiocchi dove anche l’azienda si era spesa tantissimo. Per fortuna, poi, ci hanno ripensato, ne è la dimostrazione di quanto messo in campo per il novantesimo di Mickey.
In generale le celebrazioni sono una grande opportunità per fare il punto della situazione e realizzare qualcosa di straordinario, nei limiti delle possibilità economiche, naturalmente. Sono anche anche un pretesto per uscire dalla routine del day-to-day e per rendersi conto della responsabilità enorme che chi lavora dietro le quinte deve avere nel trattare contenuti che hanno fatto la storia. E per capire quanto ancora hanno da dire i personaggi a fumetti Disney.
Con il numero 3000 secondo me abbiamo centrato in pieno tutti gli obiettivi, anche quello delle vendite, ed esserne stata il direttore è stato un enorme privilegio. Anche la mostra per gli 80 anni del giornale allestita al WOW – Spazio Fumetto è stata una fantastica avventura che porto tra i ricordi più belli. Che fatica. Ma che soddisfazione! E il numero dedicato a Paperino nel 2014 con la parodia di Steamboat Willie in cover e tutti gli omaggi al personaggio da parte del mondo del fumetto, meraviglia! L’interpretazione di Zerocalcare di Donald è appesa nel mio studio, così come quella di Alessandro Baronciani. Ah, che ricordi!
Durante la tua gestione, come sotto quella di Capelli, è cambiata la casa editrice di Topolino. In retrospettiva, l’arrivo in Panini pensi abbia cambiato in qualche modo le dinamiche interne alla redazione, quelle esterne (copertine variant, spinta verso volumi da collezionisti, maggior presenza nel circuito di fumetterie e librerie), il settimanale in sé o qualche altro aspetto? Oppure si è trattato soltanto di un passaggio “burocratico” che non ha intaccato gli equilibri?
Da fuori non è possibile capire cosa significhi un passaggio di editore di questa portata, per complessità, livello di attenzione, gestione delle persone, dei sistemi… Altro che burocrazia! Per non parlare del fattore emotivo. E la novità delle approvazioni da parte di Disney su tutti i contenuti…
Con il passaggio dell’era Capelli dove l’idea di diventare parte della casa madre e essere protagonisti dell’affermazione di Disney in Italia nella “golden age” dell’editoria aveva portato l’entusiasmo alle stelle, c’era un clima di invincibilità che si rispecchiava in ogni cosa che veniva realizzata e proposta. Nel 2013, in piena crisi economica, lo scenario era opposto.
Ma la positività di Simone Airoldi, manager illuminato, e anche la mia attitudine a pensare sempre positivo, hanno permesso al gruppo di non sfaldarsi, anzi. La difficoltà del momento ci ha regalato una bella carica ed è stato davvero come cominciare una nuova vita, una sfida.
Con Panini abbiamo sperimentato un mondo nuovo, soprattutto quello delle fiere del fumetto che hanno a poco a poco modellato il piano editoriale del Topo. Per me ha significato soprattutto un’opportunità in più per incontrare i lettori e per conoscere meglio il mondo dei fan del fumetto, una porzione di lettori importante ma meno conclamata nell’epoca Disney.
E poi, importante, la possibilità di valorizzare gli autori in quanto tali: il nome in copertina sui volumi è arrivato con l’impostazione Panini, con Disney non era mai stato possibile, c’era molta prudenza sul tema. Importante nel mio ruolo, anche, la possibilità di conoscere in anticipo e costruire il futuro delle storie fuori da Topolino.
Per tutto il team, invece, è stata una bella prova di maturità poiché in Disney abbiamo lasciato molti colleghi e le strutture che ci aiutavano nell’operatività, e ognuno di noi (“quasi” tutti, in realtà) si è accollato un pezzo di responsabilità in più, anche per adattarci a un sistema editoriale completamente diverso dal nostro e a distanza (Panini è a Modena, si sa).
Con te è iniziata in maniera costante la prassi di ospitare un vip “paperizzato/topolinazzato” nelle storie, una pratica non nuova al settimanale ma diventata un pilastro della tua gestione. Cosa ti ha spinto a intraprendere quella direzione? Era tendenzialmente efficace agli scopi o fluttuante negli esiti, magari in base al personaggio coinvolto?
La scelta di avere un personaggio famoso tra le pagine non ha mai avuto come obiettivo la vendita. Sceglievo sempre personalità innamorate di Topolino o del fumetto, onorate di avere a che fare con il giornale-mito. I nostri ambasciatori, come si definì Stefano Bollani in un’intervista. Alla prima difficoltà o capriccio da parte delle star ho sempre mollato il colpo.
L’importanza di collocare Topolino nell’epoca in cui vive passa anche dalle persone che la rappresentano. È un modo per far capire che Topolino c’è, più che mai. Mi si rivoltava lo stomaco quando qualcuno faceva passare queste operazioni come marchette.
Purtroppo ho sentito persone molto vicine a me definirle così. Ma l’emozione di vedere Jovanotti a San Siro far vedere il Topo in cui si era realizzato un suo sogno davanti a 80mila persone o Andrea Camilleri che in più di un’intervista afferma che essere sulle pagine di Topolino è meglio del Nobel, o ricevere una telefonata da Mina che nella versione papera vuole i capelli più “mandarinetto”… Be’, sono cose che travalicano la soddisfazione personale.
Nell’articolo che abbiamo citato in apertura dell’intervista, Andrea Tosti ha parlato in maniera molto puntuale della tua gestione. Parlava della marginalizzazione della rivista che diventa una piattaforma momentanea per storie che troveranno giustizia solo in volume. E in effetti alcune storie sul formato Topolino sono difficili da leggere. Come hai cercato di contrastare questa controindicazione?
Non l’ho contrastata, l’ho voluta. Mi sembrava che fosse un’esigenza primaria del nuovo editore. Un’evoluzione naturale. Si poteva andare alle fiere solo con I Grandi Classici (con tutto il rispetto per l’ammiraglia dei mensili)? E non c’era altro modo per realizzare quelle storie particolari se non farle passare da Topolino. Sono state fatte cose di livello altissimo.
Secondo me il giornale ne ha guadagnato anche se qualcosa è andato a discapito dell’umorismo. Ma di questi tempi, giuro, è difficilissimo far ridere. Avete ascoltato i testi delle canzoni della generazione Z? Siamo in una fase storica particolare e gli autori non sono robot che scrivono a comando. Respirano la stessa aria che respiriamo tutti. Rassegnata.
Quindi far fatica a far ridere non è una colpa. Semmai l’unica colpa che hanno avuto alcuni autori è stata quella di farsi un po’ prendere la mano d’artista e anziché pensare al Topo lavorare pensando già al “libro” cartonato.
Ci sono stati molti restyling nella tua gestione. In un editoriale hai scritto : «Due mesi trascorsi tra analisi del passato, focus group con grandi e piccoli, tra lettori strong e quelli più distratti, ma anche i super impallinati ed esigentissimi». Che tipo di focus group e analisi facevate? Come è stato l’iter per arrivare alla nuova grafica?
La grafica non è strettamente legata ai focus group. Questi servono per capire come si è evoluto il pubblico nel corso del tempo. Come il lettore vive il giornale. Come lo sfoglia e che cosa gli rimane dopo la lettura. I risultati dei focus group non ti danno la ricetta per affrontare un restyling. È dall’incrocio di molte variabili, tra cui anche i risultati di un focus group qualitativo (gruppi di lettori divisi per caratteristiche e fasce di età che vengono condotti nell’analisi del giornale da due psicologi, che poi hanno il compito di sintetizzare gli incontri, mentre la redazione è dietro al vetro oscurato a seguire ogni parola e ogni gesto.
Le analisi quantitative, invece, sono altra cosa e riguardano di più il gradimento), che si arrivano a definire le nuove linee guida del giornale. La decisione di mettere Silvia Ziche in apertura per segnare la settimana non l’hanno mica data i focus, per dire. Però è anche vero che la variabile che fa la differenza alla fine di un lavoro così importante come quello di un restyling è l’investimento economico di cui si dispone e il tempo a disposizione.
Più allarghi il campione degli intervistati e il tempo a disposizione, più puoi entrare nello specifico di alcune domande che necessitano di risposte e più hai strumenti per ragionare. Più hai la possibilità di provare soluzioni grafiche e chiamare in causa contributor d’eccellenza, avendo la possibilità anche di osare per poi sintetizzare, e più ti distanzi dal rischio di “dare un colpo al cerchio e una alla botte” e di fidarti troppo delle tue intuizioni.
La mia esperienza più importante con un restyling in realtà è quella del 1996, quando direttore era Paolo Cavaglione che mi ha insegnato più di tutti l’approccio giornalistico: Topolino è un giornale a tutti gli effetti e merita tutta l’attenzione di un periodico d’eccellenza. Non è che siccome c’è il fumetto allora va bene tutto, tanto fa lo stesso. Mi affidò il coordinamento di un restyling costruito su due ipotesi di giornale, una delle quali sviluppata da un prestigiosissimo studio editoriale di Milano.
I focus group vennero fatti prima della fase progettuale, ma anche successivamente per far scegliere ai lettori la versione preferita. Vinse il progetto realizzato parallelamente dalla redazione, in particolare con Cristina Meroni che ancora oggi è una colonna della redazione grafica del Topo. Un’esperienza che vale un master in editoria, per me.
Dai focus del 2018, invece, mi porto a casa la conferma che i lettori “nerd” – analizzati per la prima volta, pochi ma interessanti – se ne fregano della parte giornalistica e cercano tra le pagine le storie di quando erano nella loro età dell’oro, i tredici anni diciamo, per fare un confronto, e di solito per loro il passato è meglio del presente a prescindere, salvo poi commuoversi di fronte, che so, alle tavole di Metopolis e sprecare fiumi di parole sull’analisi della saga di PK.
Gli adulti “normali”, invece, genitori e no, che si dichiarano “forti lettori”, in realtà hanno soprattutto un legame di nostalgia nei confronti del giornale ma leggono pochino, rispondono per slogan. I più attenti e interessanti sono i bambini. Si parte da loro per parlare di futuro, avendo sempre presente il passato di cui, però, non si può essere schiavi.
Raccontaci un’idea ambiziosa/folle/matta che avresti voluto realizzare ma che non è stato possibile ultimare, e il perché non sia stata fatta.
Rifare l’Inferno con la collaborazione di Roberto Benigni (e Mollica) e l’ambizioso progetto di Topolino nelle scuole. Oltre alla caparbietà e passione con cui di solito mi butto nelle imprese, serve anche la giusta congiunzione astrale. Diciamo che in questi casi non si è realizzata.
Secondo te, Topolino avrà ancora un ruolo nelle edicole e nelle nostre case? E, guardando al futuro, ci sarà ancora spazio per una produzione popolare e periodica di storie a fumetti legate all’immaginario disneyano?
Domanda difficilissima alla quale non so rispondere. La storia del Topo, di sicuro, non si cancellerà mai. È un patrimonio indelebile. Fare la storia del Topo, ecco: quella è un’altra faccenda. Le famose congiunzioni astrali mi pare non siano di grande aiuto in questo momento. Speriamo in un allineamento dei pianeti.
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