Ci siamo, è arrivato il “Nuovo Dylan Dog” firmato Roberto Recchioni. O meglio, la sua prima variazione sul tema sclaviano. Dopo aver tagliato la testa del padre Tiziano Sclavi nel poco riuscito “Ciclo della meteora”, il curatore Recchioni può finalmente dedicarsi alla propria visione del personaggio, libero dai vincoli che lo legavano al canone paterno.
Con L’alba nera, episodio 401 della serie, Dylan Dog cambia di nuovo logo, aggiunge il suffisso 666 – che resterà presente in copertina almeno per questo primo ciclo di 6 albi – e si presenta con una barba lunga tardo-hipster e un più confortevole cappotto al posto della solita giacca, oltre a mostrare una maggiore familiarità con la tecnologia contemporanea.
Ma i cambiamenti non finiscono qui: L’alba nera di questo nuovo Dylan riprende in modo abbastanza letterale gli eventi accaduti nel primo numero della serie, quell’Alba dei morti viventi del 1986 di Sclavi e Stano con cui cominciò la luminosa carriera del personaggio, alle prese con un’epidemia di zombie, con la prima fiamma Sybil Browning e con l’acerrimo nemico Xabaras.
Questo nuovo Dylan Dog presenta elementi che rimandano non solo al Dylan degli esordi, ma anche a un altro personaggio sclaviano, il Francesco Dellamorte protagonista di un romanzo di Sclavi (Dellamorte Dellamore, 1984), poi di un film (1993, con la regia di Michele Soavi e il protagonista interpretato da Rupert Everett, ovvero il volto stesso di Dylan), e che fu ospite dello Speciale numero 3 di Dylan Dog, Orrore Nero (1989, colore non a caso ripreso in questo episodio). E come Francesco Dellamorte, questo nuovo Dylan porta con sé come assistente (dopo la dipartita narrativa di Groucho) il muto Gnaghi, conosciuto in un passato da guardiano di tombe (dalle parti di Boffalora?), e anche una passione per il modellino di un teschio umano (in luogo del galeone).
Insomma, se volessimo riprendere l’intuizione originale di Recchioni (Lo spazio profondo su DYD 337, 2014, il primo della sua gestione) questo clone numero 666 è un miscuglio del modello originario (il clone 1) e del suo epigono letterario: come ammesso da lui stesso, quando si presenta a Sybil Browning e di conseguenza a noi lettori «Il vero Dylan Dog è morto trecento anni fa, secolo più secolo meno. Io sono un suo discendente. O forse una reincarnazione, un sequel, o magari un reboot. Di questi tempi nessuno si inventa più niente».
La trama di Dylan Dog 401 dunque è un’intelligente riscrittura del numero 1, dove il piacere della lettura sta soprattutto nel confronto con quanto narrato nell’originale, e nelle variazioni più o meno inattese che vengono man a mano snocciolate, inerenti luoghi, situazioni e personaggi già noti coinvolti in situazioni sorprendenti, potenzialmente gravide di conseguenze. Non vogliamo dire di più, per non rovinare questo approccio: il “gioco del riconoscimento”, se preso in questo modo, funziona. E l’intreccio, pur semplificato rispetto al modello, risulta un’efficace attualizzazione della storia originale, in cui si supplisce alla mancanza di suspense con il ritmo, l’atmosfera, la rielaborazione e la ricombinazione degli elementi originari.
La versione dylaniana di Recchioni è dunque una interessante e consapevole variazione sul tema: il racconto originario diventa la traccia potenziale su cui fissare le molteplici varianti narrative previste da questo nuovo racconto, dall’inserimento di vecchi personaggi in ruoli inattesi all’uso di uno stile più moderno, con ritmi dilatati, dialoghi più secchi (con qualche rimarchevole eccezione), e ampio spazio alle tavole ariose ed eleganti di Corrado Roi, qui particolarmente a suo agio nel rendere l’atmosfera nebbiosa e onirica del racconto, e nel dare sostanza ai corpi imputriditi degli zombi. Non era facile gestire il confronto con l’originale di Stano: la scelta di Roi si rivela azzeccata perché reinterpreta gli eventi con personalità, con interessanti invenzioni visive e di storytelling e con un uso della gabbia più libero e ispirato rispetto al passato.
Fin dall’inizio della sua gestione della serie, Recchioni è sempre stato consapevole dell’impossibilità di riproporre il modello di Sclavi. Il suo approccio al personaggio è sempre stato volto a una rilettura critica e metanarrativa, lontano da ambizioni di originalità e innovazione. L’invenzione del cattivo manipolatore John Ghost, per quanto spesso pretestuoso e poco funzionale da un punto di vista narrativo, va interpretata proprio come strumentale a un’elaborazione critica del discorso Dylan Dog, effettuata all’interno del discorso stesso.
Questo approccio speculativo alla fiction è oggi molto diffuso, in linea per certi versi con l’operazione che sta facendo oltreoceano Jonathan Hickman sugli X-Men. Con House of X e Powers of X, Hickman non riscrive semplicemente gli X-Men per le nuove generazioni, ma attua una profonda rilettura del lavoro fatto da Claremont, Morrison e dagli altri autori della serie, e lo fa all’interno della serie stessa, ricollocando i vari elementi sparsi nella storia dei personaggi in un discorso critico coerente, introducendo con intelligenza degli elementi di innovazione per adattarli allo spirito del tempo.
Recchioni si muove lungo lo stessa direzione: il virus che riporta in vita i morti è un’idea abusata, l’orrore è un concetto che non fa più paura a nessuno, persino le barzellette di Groucho non fanno più ridere. Di questi tempi nessuno si inventa più niente, dice il Dylan 666, figlio di Recchioni e di John Ghost. Si può non essere d’accordo, ovviamente, ma questa è la visione di Recchioni, il punto da cui partire per una profonda riflessione sul personaggio che possa proiettarlo nel presente e iscriverlo nell’immaginario seriale dei nostri tempi.
La lucidità analitica di Recchioni potrebbe coincidere con quella di tanti lettori: persino il “vero Dylan Dog originario”, in fondo, è morto anni fa, soffocato da storie banali e ripetitive, senza energia, molto prima di Groucho e della morte metaforica di Sclavi (la meteora, ovvero la testa mozzata del suo Creatore). Allora, per riportarlo in vita, non rimane che ripensarlo in forma narrativa, immaginarlo da capo, creare un Nuovo Dylan Dog partendo dalle ceneri del vecchio.
Questo Dylan 666, il primo Dylan post-Sclavi, prende il citazionismo di Sclavi e lo applica a se stesso; non cita solo libri e film e videogiochi, alla maniera del passato sclaviano, ma cita anche il Dylan Dog delle origini, le storie che costruirono il mito del Dylan Dog di Sclavi, e le mischia alla materia narrativa contemporanea. Le sue storie più belle, i suoi leitmotiv (il quinto senso e mezzo, il clarinetto, il maggiolino con targa Dyd666) non sono più vincoli di un canone da rispettare pedissequamente, ma diventano omaggi al personaggio che fu, elementi testuali da reinterpretare in funzione di una rilettura critica.
Il virus del citazionismo ha riportato in vita il morto Dylan Dog. L’orrore del presente ha preso forme suadenti e rassicuranti, che non fanno più paura. Non rimane che evocare l’orrore del passato, per fare rivivere l’incubo.
Dylan Dog 401
di Roberto Recchioni e Corrado Roi
Sergio Bonelli Editore, gennaio 2020
brossura, 96 pp., b/n
3,90 €
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