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Sunday Page: Giulio D’Antona su Bonvi

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Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Questa domenica è ospite Giulio D’Antona. Classe 1984, ha scritto di cultura statunitense per Linkiesta, Blow Up, Il Mucchio, Internazionale, IL, L’Espresso. I suoi testi sono apparsi anche su Vanity Fair e Topolino, per cui ha scritto diverse sceneggiature. Nel 2016 ha pubblicato con minimux fax Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America.

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Questa tavola, in realtà non particolarmente rappresentativa non solo del lavoro di Bonvi, ma nemmeno di Sturmtruppen, contiene alcuni elementi familiari e, per qualche ragione, è una di quelle che ogni tanto mi tornano in mente. Per prima cosa, sono cresciuto con mia madre che è un chirurgo, per cui il tema del “mediken militare” mi suonava già come comprensibile e avvicinabile. Poi, il contesto ricorda un’altra mia piccola ossessione precoce: M*A*S*H* di Robert Altman, altra eredità genitoriale che mi porto dietro. Trovo che sia un’ottima sintesi dell’umorismo del Bonvicini, che pure si rifaceva in qualche modo alle commedie nere degli anni Settanta: caustico ma non esagerato, sciocco, ma non stupido, a volte crasso ma sempre nel punto giusto.

Infine, il “mediken militare” in generale e in questa tavola in particolare, mi ricorda un altro libriccino che avevo scovato da qualche parte e letto e riletto da ragazzino: un Oscar Mondadori intitolato Il letale ospedale del dottor Smock, che raccoglieva le strisce degli anni Sessanta di George Lemont e che, peraltro, lo stesso Bonvi cita direttamente (non so se anche volutamente) proprio in questa tavola. Confesso che non so altro, in proposito.

Ti ricordi come hai scoperto Bonvi?

Credo di aver visto per la prima questa tavola a undici o dodici anni, in un volume intitolato Il Mediken Militare, pescato in chissà quale cestone di libri a poche lire. Conoscevo Bonvi solo come una firma di lato su una delle ultime vignette, non sapevo che faccia avesse, che fosse già morto (non da molto, sarà stato il 1996), che fosse stato quello che è stato. Conoscevo il suo tratto, ma quasi istintivamente. Lo riconoscevo, sarebbe più giusto dire, perché lo frequentavo. Frequentavo i fumetti umoristici, e le strisce erano un formato che mi si addiceva, le avevo scoperte coi Peanuts di Schulz e non le avrei mai più abbandonate, da lettore. Da fumettista non so se sarei in grado di utilizzarle, ci vuole un senso dell’umorismo puro e tagliente, diretto ma non banale.

Perché hai scelto proprio questo autore?

Quando ho scoperto Bonvi, sempre a undici/dodici anni, era un periodo nel quale compravo tutti i fumetti umoristici che mi venivano sottomano: Lupo Alberto di Silver, Alan Ford di Magnus e Bunker, Cattivik… Avevo imparato a ridere coi fumetti frugando nella libreria di casa, dove mia madre e mio padre (credo soprattutto lui, che è morto lo stesso anno del Bonvicini) mi avevano lasciato una selezione invidiabile di B.C. di Johnny Hart, Doonesbury di Garry Trudeau, Beetle Baley di Mort Walker, Calvin & Hobbes di Bill Watterson, il già citato Lemont, Schulz e via dicendo… E avevo scoperto che il fumetto può essere un veicolo fondamentale per l’umorismo e che tutto ciò che preferivo leggere, guardare o ascoltare doveva necessariamente contenerne. Bonvi è stato, lo avrei scoperto col tempo ma anche questa è un’informazione che istintivamente ho la sensazione di avere sempre conosciuto, uno straordinario umorista, non solamente per quello che disegnava, scriveva o filmava, ma anche nella vita, nella quotidianità.

Molti degli episodi che hanno caratterizzato la sua esistenza sono stati, espressamente, comici. E la sua era una comicità nella quale io mi sono sempre ritrovato molto: la scelta fatta con Sturmtruppen, provocatoria fino a un certo punto, di prendere le fila tedesche come scenario per una serie di assurdità, bassezze, giochi di parole, scorribande, profondamente comiche incarna quella vena provocatoria e in qualche modo dissacrante che ha sempre stimolato il mio senso dell’umorismo.

L’uso della lingua era eccezionale: i tic linguistici delle “truppen” sono rimasti iconici, ma anche quelli di Cattivik e di alcuni personaggi dell’universo di Nick Carter. Le “truppen” spesso commentano a mezza voce, nell’ultima vignetta, quanto è appena successo nella striscia, quasi con complicità verso il lettore. Mi ricorda Mel Brooks che ammicca allo spettatore commentando il suo stesso film in Robin Hood – Un uomo in calzamaglia.

In più, Bonvi per me è stato la crasi perfetta —un passo oltre è andato probabilmente solo Silver, in questo senso— tra le strisce americane che ho sempre divorato e il fumetto italiano, che adoro. In lui c’era l’umorismo espressivo che si è incarnato in alcuni capolavori topoliniani come Topokolossal di Silvia Ziche, o nelle splendide assurdità di Enrico Faccini, assieme all’ironia tagliente e nemmeno troppo nascosta della tradizione che va da Johnny Hart a Richard Thompson (Cul de Sac), Tony Millionaire (Sock Monkey) e Stephan Pastis (Perle ai porci).

C’è una lezione che hai imparato da Bonvi e che utilizzi come autore?

Sarebbe bello poter imparare qualcosa da Bonvi, perché vorrebbe dire possedere almeno una piccola percentuale del genio e della sregolatezza che incarnava. Anche se in realtà la sua sregolatezza un po’ mi fa paura. L’ho sempre immaginato come un autore abbastanza istintivo, sia come scrittore sia come disegnatore. Una delle cose che pare dicesse più spesso era di non saper disegnare, in realtà molto del piacere nel leggerlo deriva secondo me proprio dall’espressività che riusciva a conferire ai personaggi e dall’abilità con la quale sapeva restituire i vari movimenti, comici e grotteschi allo stesso tempo.

Uno dei miei momenti preferiti in Sturmtruppen è quando qualcuno dei personaggi scappa velocemente dal bagno, dalla sala operatoria o da un cespuglio dove si stava lasciando andare ad azioni poco consone alla decenza, di solito sono nudi o coi pantaloni calati, fermi a mezz’aria con entrambe le gambe nell’atto della fuga, quasi perfettamente ovali, tozzi come erano quasi tutti tranne gli ufficiali. La trovo una delle immagini più comiche che esistano.

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