Bisogna che ci diamo una mossa e saldiamo un debito morale da galantuomini con il tempo: anche se chi scrive ha lasciato colpevolmente filtrare fin troppa sabbia tra le dita, in realtà non è mai troppo tardi, e si può sempre rimediare. Infatti, questa estate Gea ha compiuto venti anni. Il fumetto, pubblicato a partire dal luglio del 1999 sino al novembre del 2007 in diciotto albi (più un fuoriserie) da Sergio Bonelli Editore, è stato il primo lavoro “molto importante” di Luca Enoch, e anche il primo interamente scritto e disegnato da un unico autore per la casa editrice milanese.
Tra l’altro, Enoch – che è un bravo disegnatore ma un soggettista e disegnatore decisamente ancora più dotato – ha anche creato Lilith, di cui ho già parlato e che è stata la seconda serie Bonelli realizzata in “solo”, nonché la mia preferita (solo perché citare Sprayliz fa un po’ snob, ma era bellissima e da qualche parte ho anche un suo disegno, recuperato durante una lunga sessione pomeridiana in fumetteria a Scandicci, mille anni fa).
Rispetto a Lilith, più matura e dalla ricchezza di toni e trame che è stata sconfitta paradossalmente – per una serie che si occupa di viaggi nel tempo e ucronie – solo dai lunghissimi tempi editoriali (18 puntate un po’ compresse sul finale), Gea è tutta un’altra cosa.
Intanto, è un altro tipo di personaggio femminile, un’adolescente orfana che vive al confine tra mondi reali e di finzione. Si connette con la vita reale – e anche un po’ aspirazionale – degli adolescenti (suona il basso, fa kendo), ma è anche la persona incaricata di difendere la Terra da creature di altre dimensioni. La Casta dei Baluardi, di cui Gea fa parte (fotofobici e acromatopsici, cioè daltonici totali), è la cosa più importante, assieme al gatto-spirito guida Cagliostro (con la stella bianca sulla fronte). Gea ha inoltre uno “zio” che fa da handler per i suoi “lavori”. E affetta tutti con la sua spada magica.
Gea è stata un personaggio importante per la sua capacità di giocare su un registro di scrittura conosciuto soprattutto per il lavoro di romanzieri come Ken Follet. In I pilastri della Terra, lo scrittore costruisce un mondo medioevale sfruttando una reinterpretazione dei misteri (magia, streghe, fatti inspiegabili) alla luce di competenze e conoscenze moderne molto più spiegabili. Si ha la sensazione di veder costruire in tempo reale le leggende di cui abbiamo sentito però solo secoli dopo. È una tecnica che anche Michael Crichton ha usato spesso (ad esempio nel suo romanzo sui viaggi nel tempo Timeline – Ai confini del tempo, non uno dei suoi migliori) e che Enoch utilizza da un angolo diverso ma in maniera ben strutturata.
Gea infatti reinterpreta i temi della stregoneria – come farà ancor più Lilith – mettendo in scena gli elementi caratteristici (il sesso femminile della strega, il gatto, l’esoterismo, la capacità di violare le convenzioni sociali, la libertà sessuale) fornendo però una spiegazione fantascientifica e non realistica allo spostamento di prospettiva. Le creature che arrivano da altre dimensioni sono la spiegazione di quelle note attraverso la mitologia (orchi, ciclopi, centauri, sauri e tutto il resto del caravanserraglio), mentre il conflitto diventa una sorta di rivelazione che spiega, in chiave appunto fantascientifica, la magia.
L’elemento caratterizzante le narrazioni di Enoch, che tornerà (e porterà a problemi di strutturazione degli archi dei personaggi, a mio avviso), è sempre il medesimo: il bisogno dell’autore di trasformare sistematicamente le storie in territori di ambiguità postmoderna, dove non esiste più un confine tra buono e cattivo, giusto e sbagliato.
La confusione di ruoli e aspetti diversi della realtà è in verità presente in maniera coerente nella poetica dell’Enoch scrittore: tutto, dalla promiscuità sessuale allo stesso mescolarsi di piani e dimensioni, miti e leggende, realtà e sogno, indica la direzione relativista verso cui spinge. Il culmine però arriva sempre (perlomeno quando guardiamo Gea e Lilith) nell’esplosione dei confini dei racconti di evasione e consolatorie, trasformandoli in altro.
Enoch mette in campo, sistematicamente, le sue carte, a partire dalla cronaca, dalla ricerca sulle contraddizioni della storia, dall’analisi delle pulsioni umane – violenza, sessualità, amicizia, desideri che impregnano i suoi personaggi sino a trasformarli in manifestazioni di aspetti della personalità umana più che in persone a tutto tondo; ma anche discriminazione, conflitti etnici, disabilità, musica, sessualità e omosessualità –, fino alla ricerca di una chiave narrativa in costante movimento fra tragedia e commedia.
Gea, andrebbe ogni tanto ricordato, è stata un fatto editoriale unico nel panorama del fumetto italiano, non solo perché ha abbracciato il suo pubblico passando dalla porta del maggiore editore di fumetti popolari del nostro Paese, ma anche perché l’ha fatto partendo da temi e personaggi più vicini alla nostra realtà – oltretutto di italiani – senza esplodere in voli fantasy o nella ricerca di paradossi temporali e assoluti cosmici. Sono passati vent’anni, ma rileggere Gea – o scoprirla se non la si è mai conosciuta – è ancora una piccola e piacevole emozione. Consigliato, perché per le cose di valore il tempo quando passa aggiunge e non toglie.
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