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Tutto il noir di Ed Brubaker

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Ed Brubaker ha sempre amato Hollywood, lo si può capire ancora prima di leggere una sola riga dei suoi fumetti. Basti vedere come racconta la sua vita. Figlio di un reduce del Vietnam, passa l’infanzia trasferendosi da una base della marina all’altra finendo per sviluppare un’indole chiusa e solitaria. A gettare ulteriore benzina sul fuoco arriva la madre, che pensa bene di portarselo appresso quando decide di frequentare le riunioni degli Alcolisti Anonimi.

Inevitabilmente arriva l’adolescenza, e con essa i piccoli furti e la dipendenza della droga. Ed non finisce mai in riformatorio, limitandosi a qualche visita ai commissariati di San Diego. Un’esperienza che lo terrorizza abbastanza da convincerlo a dedicarsi a hobby meno pericolosi – ma non meno colpevoli – come l’autoproduzione di serie a fumetti vagamente autobiografica intitolata Lowlife. Da lì arrivano presto le prime esperienze con le major, il successo con Marvel Comics, la svolta indie presso una rinnovata Image Comics – per cui firma un contratto senza precedenti – qualche contatto con il cinema e infine la televisione. Forse il traguardo più alto a cui possa ambire uno scrittore oggigiorno.

A pensarci bene, una storia fin troppo perfetta: l’infanzia difficile, la gioventù ribelle e infine la redenzione. Pare una di quelle che suo zio, John Paxton, scriveva per la vecchia Hollywood. Avere in casa la penna che ha firmato le sceneggiature di classici come L’ombra del passato, Odio implacabile e L’ultima spiaggia deve avere influenzato parecchio il giovane Ed, tanto da poterne vedere l’influenza in tutto il suo lavoro.

Perché sono davvero pochissimi gli scrittori attivi nel mercato mainstream odierno a poter vantare una voce così personale e al contempo così inscrivibile in un genere ben preciso. In qualunque cosa Brubaker si ritrovi a orchestrare riemerge prepotente lo spirito da noir classico. Macchinazioni, battute a effetto, personaggi maledetti, femme fatale, duri tutto d’un pezzo e tante persone che ci lasciano le penne.

Pragmatismo e trasparenza

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La copertina di An Accidental Death, disegni di Eric Shanower

Il suo possibile successo lo si intuì fin da subito, quando alle prime esperienze su Dark Horse Presents finì per essere nominato a due Eisner Award per An Accidental Death. Un durissimo racconto di formazione – disegnato dall’amico per la pelle Eric Shanower – ambientato in una base militare statunitense sul finire degli anni Settanta. Non male per qualcuno che fino a poco prima cercava di trovare la sua voce narrando le vuote giornate di giovani cinici e annoiati in pieno stile Generazione X.

Il racconto in questione si componeva di un pugno di pagine, ma avrebbe cambiato per sempre la vita dello scrittore. In primo luogo perché da lì in avanti con i fumetti avrebbe finito per camparci. Uno degli aspetti che rendono la vita di Brubaker qualcosa di tipicamente americano, quasi da cliché, è il suo ricondurre ogni aspetto del suo lavoro a un qualcosa di meramente professionale. Non lo sentirete mai parlare di arte o di passione sfrenata. Lui semplicemente scrive perché lo pagano e quello lo definisce, come i personaggi di un film di Michael Mann non sono altro che la loro occupazione.

Ho passato in rassegna molte sue interviste, soprattutto quelle in cui parla dei suoi cicli per personaggi di Marvel e DC Comics, e non ho mai trovato una singola volta in cui si dicesse profondo conoscitore del materiale di partenza. Al massimo aveva letto le storie più importanti, poi lo stretto necessario per scriverne con cognizione. Pensate alla differenza di approccio rispetto a un Jonathan Hickman o di un Geoff Johns, due che prima di essere scrittori sono grandissimi appassionati. Per loro lavorare su quei personaggi è un sogno che diventa realtà.

Per Brubaker invece è qualcosa da quantificare. «Ho scritto circa 500 fumetti di supereroi, e penso di avere toccato il limite intorno ai 400» raccontava a CBR con finta nonchalance, prima di passare a parlare di quanto fosse economicamente vantaggioso sfondare da indipendente. «Quando cominciammo a lavorare su Criminal pagavo di tasca mia tutti i disegni e le colorazioni. Ero sempre preoccupato di guadagnare abbastanza da rientrare nei costi» spiegava sempre nella stessa intervista.

Difficile trovare un pragmatismo e una trasparenza simili in autori fuori dagli Stati Uniti. Le cose sono cambiate con il contratto firmato nel 2014 con Image Comics. Quello per cui, nei cinque anni seguenti, avrebbe goduto della libertà totale – assieme al suo sodale di lunga data Sean Phillips – di mandare in stampa praticamente tutto quello che gli passasse per la testa. Senza limiti e con il controllo completo dei diritti.

Si potrebbe parlare della massima aspirazione come autore, ma per Brubaker il discorso è un altro: «Il contratto con la Image è fantastico. Quest’anno è già diventato il mio anno di lavoro all’interno dell’industria del fumetto più lucroso di sempre. Ed è partito da soli tre mesi. Ho già fatto più soldi con la Image in questi mesi che l’anno scorso, quando è uscito Winter Soldier, con i fumetti di Captain America». Attenzione, quello su cui si vuole mettere l’accento non è l’avidità di Brubaker o il suo attaccamento al denaro, quanto una concretezza tutta americana che lo impregna fino al midollo.

Nessuna manfrina autopromozionale o discorsi vuoti da aspirante artista, ma solo un scrittore che veste benissimo il suo personaggio di duro senza troppi grilli per la testa. Uno che se ne esce con dichiarazioni come «Nel mondo reale Scrooge non si sveglia il giorno di Natale come un uomo nuovo. Si sveglia, scaccia gli incubi e torna a essere un tirchio del cazzo» senza paura di risultare ridicolo. Quasi come se fosse uno dei protagonisti dei film hard-boiled che ama tanto.

Super-polizieschi

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La copertina di The Fall, disegni di Jason Lutes

I primi periodi da scrittore full time Brubaker li passa diviso tra Dark Horse, dove riesce a collaborare con un gigante come Jason Lutes, e la Vertigo. Per la sussidiaria della DC scrive il noir La scena del crimine: Un pezzetto di buonanotte, che dà il via alla collaborazione con il disegnatore Sean Phillips (che disegna il fumetto insieme a Michael Lark).

Il suo diventa un nome che gli addetti ai lavori cominciano a conoscere molto bene, e così arriva il timido debutto su Batman. «Non ho idea di come ci sia arrivato» racconta.
«Sono stato abbastanza fortunato da scrivere alcuni gialli che hanno vinto premi e richiamato l’attenzione. Questo ha portato ulteriore lavoro. Se pensi di cominciare la tua carriera sperando di scrivere Batman, lo stai davvero facendo nel modo sbagliato, e per te sarà una strada molto lunga e difficile. Devi iniziare solo a voler fare fumetti. Un editore rimarrà sempre più impressionato da una buona storia che si regge da sola, visto che sono alla millesima idea di Batman che ottengono quella settimana. Quindi dico sempre agli aspiranti sceneggiatori di fumetti di scrivere solo una breve storia senza personaggi di proprietà dell’azienda, trovare qualcuno che sia bravo a disegnarla, e poi mostrarla agli editori, così vedranno che puoi scrivere una storia e vederla già a fumetti. È davvero difficile raccontare una sceneggiatura.»

Le sue storie su Batman funzionano, e la dirigenza pensa di farlo lavorare su gestioni di personaggi dello stesso universo narrativo più lunghe e continuative. Così ecco arrivare il primo, autentico, successo mainstream di Brubaker: Catwoman. Un personaggio al contempo iconico e delicatissimo – da sempre al centro di strascichi polemici per la sua iper-sessualizzazione – che lo sceneggiatore ha l’enorme fortuna di poter reinventare anche grazie ai disegni di Darwyn Cooke.

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Da Catwoman #1 del gennaio 2002, disegni di Darwin Cooke

«Ho studiato tutte le precedenti uscite di Catwoman, e sono rimasto inorridito da quanto fossero sessisti i disegni. [Darwyn] l’ha resa elegante e sexy» spiega Brubaker. In effetti il costume sviluppato dal fumettista canadese è qualcosa di mai visto per un personaggio femminile, soprattutto dopo la sbornia di bad girl desnude del decennio precedente: una tuta funzionale al suo scopo e non solo provocante. Vi siete mai chiesti perché Red Sonja  combatta con un reggiseno corazzato lasciando scoperto il ventre? Ecco, Cooke ci porta agli antipodi di quello a cui eravamo abituati.

Nel ribaltare ulteriormente gli stereotipi Brubaker ci mette del suo e prende come principale fonte di ispirazione il Matthew Scudder di Lawrence Block. Una serie di libri «su un ex poliziotto che diventa un investigatore privato ma che finisce per aiutare le persone che non potrebbero mai andare dagli sbirri. Mi è piaciuto il modo in cui ha dimostrato che anche se qualcuno è un criminale può ancora essere umano. Mick Balou (uno dei personaggi del libro) ci era arrivato molto prima di Tony Soprano». Così la serie finisce per riguardare «la causa e l’effetto di prendere decisioni simili. Riguarda il restituire ciò che si è ricevuto». Oltre a essere, senza bisogno di dirlo, una serie poliziesca tosta come non se ne vedeva da troppo tempo. 

Quella per distretti febbrili popolati da poliziotti sfatti dalle troppe ore di lavoro e vicoli pericolosi è una passione che porta Brubaker, un paio di anni dopo, alla creazione di Gotham Central. La serie è, a partire dal titolo, uno degli ammicchi più espliciti fatti dal fumetto statunitense alla nuova serialità televisiva. L’aspetto che più colpisce dell’intera operazione è quello della suddivisione del cast corale con Greg Rucka. Se lo scrittore di Whiteout pensa agli agenti del turno di giorno, a Brubaker toccano le lunghe ronde nelle strade illuminate dai lampioni.

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Da Gotham Central #8 del agosto 2003, disegni di Michael Lark

«L’idea centrale è raccontare cosa significhi essere un poliziotto in una città con il Joker, il Cappellaio Matto, lo Spaventapasseri e un Bat-segnale sul tetto quando hai bisogno di chiamare i rinforzi. Come sono le scene del crimine? Come si pongono gli agenti con Batman? Roba così. Si tratta di un modo di vedere Gotham da una prospettiva diversa e, allo stesso tempo, di scrivere un poliziesco procedurale a fumetti» spiega lo sceneggiatore.

Ma allora cosa rende Gotham Central diverso da un mero scimmiottamento di quanto raccoglie consensi sulle emittenti televisive di tutto il mondo? «Penso che la ragione principale sia che si tratti di un fumetto che parla di Gotham City come se fosse un personaggio tanto quanto i poliziotti. Penso che questo la renda qualcosa di davvero speciale, perché ti concentri sulle forze dell’ordine e pensi che si tratti di un procedurale piuttosto standard, ma all’improvviso arriva Mr Freeze e l’intero mondo finisce sottosopra. Così hai un indagine su di un crimine che può accadere solo a Gotham.» Tra il concept blindato, il mestiere dei due scrittori e le matite di Michael Lark (almeno nei primi archi narrativi) la serie sbanca la critica, vincendo sia l’Eisner che l’Harvey Award del 2004.

Contemporaneamente a questo successo Brubaker comincia a sperimentare anche percorsi diversi rispetto a quelli battuti fino a quel momento. Inizia a collaborare con la Wildstorm a titoli lontani dalla sua sensibilità e subito ci si rende conto di come si senta un pesce fuor d’acqua appena lo si allontani dai suoi generi prediletti. Lo dimostra con The Authority e con gli X-Men, portando avanti in entrambi i casi gestioni poco più che mediocri.

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La copertina di Sleeper: Season Two #10, disegni di Sean Phillips

Per la casa editrice di Jim Lee arriva però anche Sleeper, prima vera collaborazione duratura con quel Sean Phillips che da lì in avanti lo avrebbe accompagnato in tutti i suoi progetti più folli e personali. La serie vende pochissimo, ma è il banco di prova di quello che da lì a poco avrebbe fatto con Capitan America per la Marvel. Se non posso cambiare l’archetipo del supertizio rendendolo un moderno Marlowe in spandex, allora posso cambiare tutto il mondo attorno a lui.

Il protagonista di Sleeper non salva il mondo volando tra i palazzi di qualche città invasa da mostri di dimensioni parallele. Per lui la vita non è così facile. Forte del suo potere di non avvertire nessun dolore viene inviato come talpa nei meandri di un’organizzazione criminale ispirata alla vera malavita. I cattivi non sono buffoni in tutine improbabili, ma mostri disumani in grado di spingere il protagonista oltre ogni limite. Oltre a portare a termine la sua missione il personaggio deve stare bene attento a non smarrire anche se stesso. Che è poi quello che rischia di succedere anche a uno dei simboli più luminosi dell’interno fumetto statunitense, uno Steve Rogers/Capitan America ormai fuori posto in un’America ben diversa da quella che aveva conosciuto prima di finire congelato.

Stelle e strisce

Non puoi rendere Cap qualcosa che non è. Lui è indomito, trasparente, granitico. Puoi divertirti con la versione grim & gritty di ogni altro eroe, ma non con lui. E allora caliamolo in una spy story dove lui pare essere l’unico in grado di ricordarsi i valori sui cui è stata costruita la nazione di cui porta il nome. Anche se questo significa essere più un soldato che un eroe. Perché, nelle pagine scritte da Brubaker, Rogers uccide terroristi, picchia durissimo, si fa richiamare più volte dallo S.H.I.E.L.D. per la sua condotta «un po’ troppo estrema», diventa un ricercato, sfugge alle leggi, combatte quelli che erano suoi amici da una vita. E infine muore.

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Da Captain America #3 del febbraio 2005, disegni di Steve Epting

Nel suo essere aderente in maniera stoica agli ideali che lo avevano spinto a offrirsi come volontario per la cura sperimentale del super-soldato, emerge un personaggio sfaccettato, diviso tra giusto e sbagliato. Se in quegli stessi anni Tony Stark viene riscritto come una sorta di maniaco del controllo che si crede al di sopra di ogni legge dell’uomo comune – notate qualche paragone con gli oligarchi della Silicon Valley? Rogers è altrettanto reazionario, ma in una chiave molto più aderente al mito delle stelle e strisce delle origini. Quando alla frontiera si parlava poco e si agiva in fretta.

Capitan America senza accorgersene diventa il protagonista di un film di John Milius, un regista ricordato come «un decisionista (si definirà più avanti un anarchico zen), non sopporta il clima che lo circonda e, soprattutto, vuole combattere una sua guerra, come tutte le generazioni di uomini che lo hanno preceduto». A conferma di questa nuova visione del personaggio la nuova serie che gli autori gli costruiscono attorno è una delle più politiche di tutta la storia della Marvel.

Come scrive Darren Mooney, «particolarmente evidente è la reinvenzione da parte di Brubaker di Bucky, ex aiutante di Steve Rogers. In questa nuova versione Bucky rappresenta la politica estera americana, un ragazzo venduto al pubblico come un ragazzino ottimista, innocente e dallo spirito libero, anche se in realtà viene forgiato in qualcosa di più oscuro e più acuto – un’arma feroce – ora distorta da coloro che si oppongono all’America in qualcosa di grottesco e osceno». La serie è spesso piuttosto verbosa e i temi non sono dei più allegri, eppure è un successo pieno.

Brubaker continua a scrivere il fumetto per quasi dieci anni, arrivando perfino a uccidere il personaggio (che poi torna, ovviamente) tra il clamore della stampa internazionale. Nel frattempo la Marvel porta Cap al cinema in una versione affettuosa e retrò, diretta dal veterano degli effetti speciali Joe Johnston. Il risultato è un polpettone dove si cita letteralmente uno degli inseguimenti più iconici di Star Wars, il diesel punk regna sovrano e Hugo Weaving è costretto in un make up ben oltre i limiti del camp. Ben diverso da quello che arriverà da lì a tre anni: la trasposizione della saga del Soldato d’Inverno, una delle prime orchestrate dallo stesso Brubaker durante la sua lunghissima gestione.

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La variant cover di Captain America #25, disegnata da Steve Epting, dove va in scena la morte del personaggio

Si tratta di uno dei primissimi contatti effettivi tra lo sceneggiatore e il suo amato cinema, un regno davvero duro da espugnare anche per un nome affermato come il suo. «Il primo anno in cui arrivi a Hollywood capisci perché tutte le persone di successo hanno in corso qualcosa come sette o otto lavori contemporaneamente» racconta ad A.V.Club. «C’è almeno il 90% delle probabilità che qualsiasi progetto non si realizzi. C’è solo una possibilità su dieci che prenda effettivamente forma, a meno che tu non sia Quentin Tarantino o qualcuno che semplicemente ha accesso a tutto quello che vuole. Ma sono casi rari.»

Nel giro di pochissimo Brubaker diventa uno degli scrittori di punta della Marvel, nonostante non ami in maniera sconvolgente il tema dei supereroi. Parliamo di uno scrittore di razza – uno di quelli che dove li metti stanno, probabilmente facendo meglio del 90% di quelli che vorrebbero essere al loro posto – ma che non sempre riesce a lasciare il segno come vorrebbe. Fuori dal suo habitat naturale non riesce a esprimersi con altrettanta efficacia, e non è un caso se l’unico altro titolo davvero rappresentativo su cui abbia lavorato alla Casa delle Idee sia Daredevil.

Un personaggio crudo e legato a doppia mandata con la sua natura urbana, che in quel periodo usce dalla gloriosa gestione di Brian Michaels Bendis e Alex Maleev. Un lunghissimo ciclo di storie che ha reso la serie di Matt Murdock un affresco livido e crudo, dove la consueta cosmogonia del ninja cieco viaggiava fianco a fianco con una rappresentazione del crimine organizzato mai così realistica. Ne è uscito un eroe sfaccettato, calato in un contesto violento e concreto, dove la tutina rossa non ha più tutta l’importanza delle gestioni passate. Brubaker prende le redini della testata in un momento delicatissimo – seppure concordato con il precedente sceneggiatore – con Daredevil in prigione assieme al suo nemico, il boss del crimine Kingpin.

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Da Daredevil #95 del marzo 2007, disegni di Stefano Gaudiano e Michael Lark

Da lì in avanti la serie diventa un cupissimo salto nel buio, dove ogni cosa va nel peggiore dei modi. Lo sceneggiatore «porta Daredevil in un tour dei suoi più grandi fallimenti. Per Brubaker, è tutta una questione di personaggio-come-artefice-del-suo-destino, e Daredevil è sempre stato responsabile per qualcosa di più della sua giusta quota di dolore e sofferenza, andando a coinvolgere anche chi gli stava vicino. Eppure Daredevil semplicemente continua a tuffarsi nel pericolo, incurante di tutto. Quindi cosa si deve fare con questo personaggio? Di che utilità può essere? Il genio di Brubaker sta nel mettere Daredevil nella condizione di affrontare la minaccia finale, la Mano stessa. Con la sua vita personale decimata, Daredevil può finalmente gettarsi nel vuoto e provare a riscattare la Mano, o morire dopo aver fallito nel tentativo».

Siamo dalle parti del noir più classico, quello alla Detour di Edgar G. Ulmer, dove niente pare andare come dovrebbe. In più, il carattere autodistruttivo e le contraddizioni di Matt Murdock, ormai in pieno trip cristologico, raggiungono una profondità che nessuno scrittore aveva toccato. Non è un caso se Mark Waid – dopo una fase interlocutoria firmata da Andy Diggle – deciderà di trasformare la serie in qualcosa di completamente diverso, più solare e positivo. Semplicemente, più in basso di così non si poteva andare e una vecchia volpe come lui non poteva non accorgersene.

Libertà di creare

Per ora abbiamo parlato di come Brubaker sia riuscito ad adattare il suo universo a personaggi già codificati, ma è con la libertà guadagnata in anni di successi che arriva l’autentica consacrazione. Il motore di tutto è Criminal, serie antologica disegnata – come quasi tutte quelle che arriveranno negli anni seguenti – da Sean Phillips. Si tratta di un esperimento rischiosissimo, praticamente un salto nel vuoto. Partendo da anni di visioni e di letture, i due autori costruiscono un affresco criminale che riesce a unire meta-riflessioni sul genere e crudo realismo. Esce per la linea Icon della Marvel, ma nessuno ci crede davvero.

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La copertina di Criminal #1 dell’ottobre 2006, disegni di Sean Phillips

A dispetto di tutto la serie è un autentico successo di critica – vince due Eisner Award – e viene opzionata per il cinema. A curarne la trasposizione dovrebbe essere il sud-coreano Jee-woon Kim, un ex-regista teatrale balzato agli onori delle cronache per le sue virtuosistiche riletture dei generi più popolari. Uno che riesce a passare dell’heroic-bloodshed hong konghese allo spaghetti western deviando per l’horror senza perdere un grammo di potenza estetizzante e di adesione alla materia. Il connubio sembra perfetto, ma il progetto sfuma nel vuoto. Poco male, perché ormai ogni cosa scritta dallo sceneggiatore del Maryland e disegnata dal suo compare britannico diventa un must buy. Anche le più assurde.

Per la Marvel arriva Incognito, una rilettura degli eroi dell’epoca pulp dove tutto viaggia al limite dell’eccessivo. Basti pensare che il protagonista viene battezzato Zack Sterminio. In fin dei conti si tratta di un escamotage di Brubaker per scrivere supereroi rimanendo il fedele possibile al materiale di partenza senza rinunciare a quello che gli piace davvero. Poi, poco prima dell’esplosione della rinnovata Image, lo sceneggiatore ha il fiuto (o la fortuna) di convincere Eric Stephenson – caporedattore della casa editrice – a pubblicare Fatale, una serie dove hard-boiled e Lovecraft convivono a braccetto.

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Da Fatale #21 del marzo 2014, disegni di Sean Phillips

Quando, pochi mesi dopo, tutti i più grandi autori sgomiteranno per avere la propria serie creator-owned presso la casa editrice di Portland, Brubaker sarà già lì, facendo la figura del visionario. Così ecco in rapida successione Velvet – disegnata da Steve Epting – dove riscrive la figura della Bond Girl adattandola ai tempi moderni. La protagonista è una ex-spia di mezza età, tanto talentuosa quanto solitaria, lontana da ogni cliché. Tostissima e sexy in maniera non convenzionale, ma soprattutto umana e fallibile.

Poi il successo di vendite di Dissolvenza a nero, morbosa vicenda ambientata nella Hollywood degli anni Quaranta (seconda sortita di Brubaker in quel mondo dopo gli anni Settanta post-Manson raccontati nel secondo story-arc di Fatale). Un fumetto che «parla di Hollywood e del business che gli gira attorno, ma che riguarda anche il compromesso artistico, la disperazione della Gold Rush e di ciò a cui la gente rinuncia per questa speranza di far parte di questa magia che è Hollywood. Tutto gira attorno ai personaggi. Cosa passerebbero se fossero reali? Avevo letto di quello che le attrici dovevano subire, dei capi degli studi e di cosa sopportavano i fixer, così come Chandler e F. Scott Fitzgerald e tutti quei grandi scrittori che andavano a Hollywood per farsi masticare e sputare via».

E infatti, più che di lustrini e vite da sogno, la serie parla di sessimo, sfruttamento, omofobia, pedofilia e tutto il peggio vi possa passare per la testa. Pare assurdo, ma è il titolo più venduto della carriera di Brubaker.

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La copertina dell’edizione italiana di Dissolvenza a nero (The Fade Out), pubblicata da Panini Comics

Subito dopo arriva Kill or Be Killed, strana riflessione sulla figura del vigilante. Il protagonista, uno studente di nome Dylan, finisce per essere intrappolato nello spietato giogo di un demone. Il ragazzo, che in realtà dovrebbe essere già morto, potrà vivere un mese in più per ogni omicidio che commetterà. Una situazione tremenda e claustrofobica, che Brubaker e Phillips riescono a rendere sfruttando ogni mezzo a disposizione. Il più coreografico, e forse quello più riuscito, è l’avere eliminato ogni cornice bianca dalle tavole, facendole arrivare direttamente al vivo della pagina. Visivamente la vicenda risulta schiacciata dentro i bordi fisici in cui viene confinata, sempre a un passo dal soffocamento. Proprio come il protagonista.

A conti fatti, da quando hanno siglato il contratto che gli assicura completa libertà creativa,
Brubaker e Phillips non hanno esitato un solo minuto a sfruttarlo fino in fondo, dagli speciali in formato magazine al rilancio completo di Criminal.

L’ultimo trionfo è I miei eroi sono sempre stati tossici, graphic novel livido e intimista che frutta l’ennesimo Eisner Award. Si tratta di un premio particolarmente importante, perché celebra la prima incursione dei due in un territorio ben diverso dalla serialità che masticano ormai da decenni. In un momento che premia soprattutto le uscite da libreria, eccoli proporsi con uno stile nuovo, anche a livello grafico, staccandosi solo in apparenza dai luoghi a loro più congeniali. Si tratta di un azzardo, ma ancora una volta i due dimostrano di essere all’altezza della sfida.

Un sogno chiamato schermo

A questo punto chiunque potrebbe ritenersi più che soddisfatto, ma non uno che ambisce a diventare il James Ellroy del fumetto americano. Il grande sogno rimane lo schermo, grande o piccolo che sia. Stiamo parlando di una persona così innamorata del cinema da inventarsi i trailer su carta come preview delle proprie serie. Montaggi serrati di poche pagine dove si intravedono scene del fumetto mesi prima che il disegnatore le sviluppi completamente. O anche trailer recitati in prima persona, come quello di Fatale che potete vedere di seguito.

Non riesco neppure a immaginare come possa aver vissuto l’annuncio di essere stato scelto come consulente per la serie HBO Westworld dopo averne parlato a colazione con il creatore Jonathan Nolan e sua moglie Lisa. Stiamo parlando di un western per l’emittente via cavo più prestigiosa della nazione, quella che ha reinventato la televisione. Un’opportunità enorme, per Brubaker, di calarsi tra ingranaggi ben più imponenti di quelli a cui è abituato e che, ancora una volta, Brubaker sfrutta nel migliore dei modi.

Nel 2019 debutta infatti Too Old to Die Young, serie co-creata per Amazon in collaborazione con Nicholas Winding Refn. Difficile pensare a un regista più adatto a tratteggiare un affresco di crimine e disperazione ambientato nell’ irrinunciabile Los Angeles divisa tra visioni notturne al neon e deserti polverosi. Il trailer viene reso pubblico e pare subito qualcosa di grandioso – complici anche le musiche di un Cliff Martinez ormai in piena simbiosi con Refn – e all’altezza delle aspettative legate ai due nomi coinvolti.

Una volta disponibile in streaming la serie si dimostra l’ennesimo progetto a perdere del regista danese, raffinatissimo e studiato a tavolino per essere il più divisivo possibile. Proprio come il suo cinema traccia una strada personalissima, ultra-estetizzante, totalmente menefreghista di quello che il pubblico vuole. Più passano gli anni e più il bellissimo e accattivante Drive si dimostra uno scherzo girato per dimostrare la propria superiorità rispetto allo shooter medio, oggi considerato regista a tutti gli effetti.

Per Brubaker non si tratta della miglior lettera di presentazione possibile per ricominciare a bussare alle porte di Hollywood, ma siamo comunque anni luce avanti rispetto agli sgarrupati esordi della webserie Angel of Death. A oggi non si hanno novità circa nuovi progetti, se non le opzioni per adattare Velvet (in tv) e Kill or Be Killed (al cinema), ma il recente contratto da lui firmato con Legendary Television Studios fa ben sperare. Perché continuare a leggere ancora per molto tempo fumetti scritti da Brubaker è qualcosa che ci auguriamo tutti, ma vedere finalmente la sua penna al servizio di qualche grande regista sarebbe un sogno che tutti ci auguriamo diventi realtà il più presto possibile.

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