In occasione di Lucca Comics & Games 2019 (30 ottobre – 3 novembre) saranno festeggiati i 30 anni di Rat-Man, il personaggio dei fumetti creato da Leo Ortolani nel 1989.


Poche settimane fa è arrivato il momento del trasloco quinquennale, una sorta di rito apotropaico e catartico di casa mia. I fumetti e i libri più vecchi vanno in soffitta, qualcosa anche su eBay, insieme a parte di quelli meno importanti (in soffitta). È un processo darwiniano, la lotta delle generazioni: lo spazio in casa mia o nella mia soffitta è limitato, e un fumetto, se vuole restare al calduccio, deve guadagnarselo.

Finora Rat-Man era rimasto in casa: un po’ perché è finito solo due anni fa, con la “decalogia della fine“, come potremmo chiamare il finalone con scoppi e botti. Un po’ – e forse di più – perché mi è sempre piaciuto molto, forse di quel piacere segreto e inconfessabile di molti snob che si dilettano a parlare di autori raffinatissimi ma poi, nel privato, sghignazzano sulle battutacce facili ma a getto continuo partorite da un ratto non troppo sofisticato.

Adesso però, nonostante il trentennale, è arrivato il suo momento. Di Rat-Man, intendo dire: devo decidere se tenerlo, o spostarlo in archivio (o soffitta o box o vedete voi). E assieme a quello è giunta anche l’occasione per una rilettura pressoché completa del lavoro di Leo Ortolani.

Un fumetto “bottom-up”
Vedete, è facile sottovalutare Ortolani. O anche sopravvalutarlo, se è per questo. L’autore pisano trapiantato a Parma ancora nella culla, classe 1967, ha costruito una traiettoria artistica che un informatico definirebbe “agile” (si pronuncia all’inglese, “agiail”), nel senso di un processo di creazione del software bottom-up, dal basso, non pianificato in partenza. È partito come appassionato smanettone del mondo del fumetto, con le sue strisce quotidiane per un quotidiano locale e poco altro, e una grandissima passione per il fumetto supereroistico americano. È una dote comune a molti della sua generazione, cresciuti a cavallo tra Alan Ford e i Fantastici Quattro, tra Magnus, Max Bunker, Jack Kirby e Stan Lee.

rat-man fumetto ortolani

Ortolani univa un tratto indeciso e approssimato a una sagacia rara anche in un esordiente o un amatoriale: oggi sarebbe un fenomeno delle vignette fulminanti disegnate con Illustrator e condivise su Facebook, probabilmente. L’uomo però è un costruttore e, con una metodologia appunto “agile”, bottom-up, fatta di improvvisi “spike”, fughe in avanti per vedere e testare ipotesi e prototipi di narrazione, per rivisitare immaginari già noti in maniera nuova, ha costruito lentamente, sotto gli occhi di tutti – e senza che (buon dio) nessuno o quasi se ne accorgesse – un vero castello. Una città. Un mondo che funziona.

Rat-Man (con il trattino, mi raccomando) compie trent’anni. Non è una cosa seria, come tutte le cose che fanno ridere, un po’ (tanto) surreali, ironiche, sfacciate e sfasciate. Ma va presa sul serio, perché è una delle creazioni più originali, genuinamente divertente e ricche di contenuti della storia del fumetto italiano. Senza contare che è entrato a far parte, almeno un po’, del “costume” italiano.

Se pensiamo a una fetta di lettori della mia (e successiva) generazione, Ortolani era con L’ultima burba – nel ’93/94 su Sturmtruppen, e nel 2002/2005 su Rat-Man Collection – l’alternativa a fumetti al Vernacoliere, tanto per citare un altro prodotto ‘off’ che viene dalla costa Toscana (ma non mescoliamo Pisa con Livorno, per piacere). Piaceva ai ragazzi durante il servizio di leva o negli ultimi anni delle superiori, e già c’era chi si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere al passaggio storico verso un differente assetto – su base professionale e volontaria – delle nostre forze armate.

La profezia di Ortolani, che cioè avrebbe tirato giù la clér del suo negozio immaginario al compimento dei cento numeri, prevista per il gennaio del 2014, sembrava fortemente esagerata. Arrivarci, a cento numeri! E invece li ha superati e la profezia non si è avverata: le storie da raccontare erano molte di più e occorreva più tempo per mettere la parola fine a tutte. Per la precisione sino al numero 122, un po’ più in là (bersaglio sbagliato di quasi il 25%, insomma: mica male).

Nel frattempo sono successe varie cose. Rat-Man è diventato per Panini Italia quel che Topolino era per Disney Company, o poco ci mancava: un clamoroso affare editoriale. Una di quelle cose tipo L’amica geniale che vende tantissimo e tiene ben in nero i conti dell’azienda, con un costo di produzione relativamente basso, perché Ortolani i fumetti se li scrive, se li disegna e fa colorare le copertine dal fratello. Serve solo un aiutino in redazione dal personaggio fisso anche nella serie, Andrea Plazzi, e grosso modo è fatta.

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Un percorso di crescita
Rat-Man intanto cresce: da scherzo goliardico, da supereroe parodistico, diventa un personaggio sempre più sfaccettato ma senza mai abbandonare la sua carica distruttiva e nonsense, che lo rende la cosa più vicina ai fratelli Marx che sia mai stata prodotta in Italia, nella migliore traccia di un surrealismo yiddish che solo dalle nostre parti poteva fiorire in questo modo.

Con le serie di archi narrativi che si susseguono Rat-Man costruisce dal basso una sua mitologia, complessificandola sempre di più, cercando temi portanti che si sviluppano da soli, come per accumulazione, vere e proprie stalattiti e stalagmiti percolanti dall’inconscio di Ortolani, il quale stabilisce così una base narrativa all’interno della quale crescere e spaziare. Abita il suo stesso mondo, la caverna della sua mente, dove percorre strade narrative che sono il riflesso della sua capacità da un lato di arricchirsi quotidianamente ed enciclopedicamente con infiniti immaginari fumettistici e cinematografici (siamo dopotutto nell’epoca del citazionismo) e dall’altro di costruire una sua narrazione unica e originale. Intensamente glocal, globale e locale al tempo stesso, perché legata alla sua epoca.

Sì, perché Rat-Man assume le caratteristiche contraddittorie di un eroe generazionale, nel senso che rappresenta una figura stabile e statica del mondo immaginario vincolato a un determinato passaggio storico (la fine degli anni Ottanta, quando nasce). D’altra parte, il personaggio si sviluppa in maniera completamente dinamica e mercuriale, crescendo-maturando-invecchiando con il suo autore, che nel frattempo si fa una vita e, pur mantenendo uno stile goliardico e una certa distanza (dettata da timidezza o pura antipatia?) nei confronti dello star system e dei fan scatenati alle fiere (per tacer della stampa), costruisce un personaggio sempre più tridimensionale.

Ortolani rende Rat-Man portatore delle sue ansie e problematiche, del suo bisogno di risolversi, delle sue nevrosi. L’uomo comunque macina centinaia di tavole di fumetti all’anno, come un diesel marino in grado di sorprendere e variare, ritmando e rimando su una serie di standard degni di raccoglitori di cotone del delta del Mississippi. E Ortolani porta Rat-Man anche sempre più incontro al pubblico, con un mestiere di narratore, illustratore e intrattenitore quasi autocostruito, efficacissimo nella sua apparente semplicità.

Perché negli anni Ortolani cresce, caspita se cresce. Rileggendo i suoi fumetti uno dopo l’altro si vede chiaramente. Alla genialità quasi incontenibile e surreale dei primi anni si avvicina non tanto un mestiere – che c’è ed è enorme – nel raccontare, quanto una costante crescita delle abilità grafiche, della capacità di alternare registri di disegno e di scrittura, che si avvicinano e si saldano come difficilmente riescono a fare le coppie di autori (uno alla macchina da scrivere e l’altro al lapis) perché non hanno questo loop, questo spike rapidissimo di prova-test-fallimento-riprova-rifallimento-miglioramento-riprova-successo che invece è stato il processo di Ortolani.

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Non so quanto consapevolmente, ma Rat-Man, o meglio Ortolani, avrebbe potuto avere anche un suo futuro nel mondo della consulenza aziendale come veicolo per l’apprendimento e il miglioramento delle tecniche produttive delle strutture lean, facili, semplici, sdraiate, non gerarchiche. Perché rileggendo di fila i 122 numeri del topo e guardando molti altri materiali fuori canone dello stesso autore, sia Venerdì 12 che la lunghissima serie di parodie, crossover e contaminazioni Marvel, senza perdere però l’immancabile L’ultima burba, emerge un doppio piano di lettura.

Da un lato un ritratto onesto e sincero di un autore che ha fatto del suo essere provinciale un punto di forza, lasciando libero sfogo alla sua fantasia e a una invidiabile verve narrativa: oltre al gusto della battuta – che potrebbe riempire varie petroliere – Ortolani ha anche una stupefacente e quasi invisibile capacità di sceneggiare e strutturare le sue storie. Una tavola alla volta, con un passo sapiente, in preda a deliri di apparente nonsense ma in realtà sempre controllati e strutturati.

Dall’altro lato come si è detto il suo tratto cresce e diventa non solo più sicuro – ma questo tutto sommato lo era fin dall’inizio o quasi – quanto più duttile e consapevole. C’è uno studio visivo dei classici dei comics non solo americani, del cinema, e di buona parte di quel che è stata (e diventata) cultura pop che consente a Ortolani di costruire citazioni, omaggi, pastiche ispirati ai più grandi autori contemporanei, senza mai tradire il suo stile originario. Passa così da una mimesi verso Jack Kirby a un gioco con Frank Miller, e molte sue copertine sono quadretti pop che riprendono una situazione o un pensiero dei comics americani originali. Con umiltà, strafottenza, superiorità, intelligenza, sagacia, continuità, omaggiante trasporto, divertimento.

Quel che resta
Trent’anni dopo Rat-Man è finito ma non è certo finita l’attività di Ortolani, che si sta dispiegando in forme più mature: graphic novel tra lo spazio esterno e quello interiore, da C’è spazio per tutti (con un seguito in arrivo) a Cinzia. L’avventura di Rat-Man però è significativa sia dal punto di vista del costume del nostro Paese che da quello del mercato editoriale. Rat-Man è riuscito a crescere, secondo me proprio perché partito sotto tono e al di fuori dei radar del nostro meccanismo editoriale e culturale, portando con sé uno spirito profondamente differente da quello che solitamente viene concepito e accettato all’interno dei salotti dell’editoria italiana, o delle riviste “in” o, peggio ancora, dal mondo degli “indie-pendenti”.

Rat-Man ha portato una lezione differente e ha mostrato non soltanto una traiettoria capace di accompagnare una generazione di lettori (intrigando lungo la strada nuovi lettori più giovani) ma ha anche sconfitto il cinismo del calcolo editoriale e dei fogli Excel come strumento di comprensione e azione nel mondo. O lo snobismo della cultura alta del fumetto impegnato, solido, compiaciuto.

I momenti più alti di Rat-Man non sono alla fine del suo ciclo: non è la decalogia finale a segnare il mondo del comics italiano, ma tutta la sua storia. È il talento esplosivo di Ortolani, il cui merito maggiore sta nell’essersi saputo controllare e coltivare nel tempo, continuando a crescere con fatica (per un periodo si è anche autoprodotto) ma realizzando un fumetto vivace e per questo intelligente, forse più intelligente di noi critici che non lo abbiamo saputo cogliere subito, con chiarezza e la necessaria lucidità.

Da noi piacciono i vincenti, ma Rat-Man non è ganzo perché è un vincente (e poi lui vincente, proprio no: casomai dal punto di vista editoriale) ma è ganzo perché è un piccolo mondo con dentro moltissime altre cose che alla fine, proprio come per le storie dei big americani di Marvel e DC Comics, è cresciuto assieme a noi, ci ha fatto ridere e commuovere quando eravamo allegri, spensierati, tristi, disperati, soli, annoiati e lasciati per l’ennesima volta dalla fidanzata dell’epoca. E poi Rat-Man a me è piaciuto perché è “pulp”, nel senso che ha “polpa”. Tanta polpa.

Più ne scrivo, più ci penso, e quasi quasi lo tengo ancora un po’ a casa. Al calduccio.

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