Smoky man, tra i principali studiosi dell’opera di Alan Moore in Italia, ha realizzato assieme ad Angelo Secci di Diart Digital Art un volumetto autoprodotto intitolato Alan Moore: 5 interviste (A5 brossurato, 112 pagine, b/n) che raccoglie cinque interviste allo scrittore britannico. Tre di esse sono del tutto inedite in Italia; due oramai di difficile reperimento, ossia l’intervista inclusa nel volume Alan Moore: biografia, testi, fotografie (2002, Black Velvet) e quella apparsa nel 2008, in due parti, sulle riviste Scuola di Fumetto e Blue (Coniglio Editore).
Le interviste, pubblicate tra il 2000 e il 2017, sono firmate da Koom Kankesan, George Khoury, Omar Martini, Raphael Sassaki e da Antonio Solinas e smoky man. L’edizione comprende l’introduzione di Adriano Ercolani e le illustrazioni di Tiziano Angri, Onofrio Catacchio, Massimiliano Leomacs Leonardo, Gianluca Pagliarani e Armando Rossi.
Il volume, stampato in 100 copie, può essere acquistato online al prezzo di 11 euro spedizione inclusa cliccando qui.
Di seguito presentiamo un estratto dalle interviste contenute nel libro:
[Estratto da un’intervista pubblicata su The Jack Kirby Collector N.30 (2000, TwoMorrows Publishing). Traduzione: smoky man.]
George Khoury: C’è un fumetto di Kirby oppure un suo disegno che spicca tra i tuoi ricordi?
ALAN MOORE: Ho molto apprezzato alcune delle cose che realizzò per The Three Rocketeers, in cui utilizzò degli incredibili collage in anticipo rispetto a quelli dei Fantastici Quattro. In termini d’impatto, alcune delle apparizioni di Galactus, sì, erano incredibili. Ego, il Pianeta Vivente! Quella tavola alla fine dell’albo di Thor dove all’improvviso ti trovavi di fronte a un ritratto a tutta pagina di Ego, il Pianeta Vivente, con quella piccola astronave di Thor o del Recorder, o chiunque fosse, in primo piano: quella è probabilmente l’immagine che è più impressa nella mia mente!
[Estratto da un’intervista pubblicata su Alan Moore: Biografia, testi, fotografie (2002, Black Velvet). Traduzione: Omar Martini.]
Omar Martini: La presenza della Storia nelle tue opere serve a osservare il passato, capire come siamo arrivati a questo stadio e, in più, fornire delle informazioni?
ALAN MOORE: Sì. L’intero From Hell, in un certo senso, era… a me sembra che si possa far risalire la maggior parte dei progressi tecnologici, politici, artistici o letterari del Ventesimo secolo al decennio del 1880. Per esempio, in quel decennio l’invasione dell’Indocina da parte della Francia portò alla guerra del Vietnam, gli esperimenti di Michelson e Morley portarono ad Einstein e alla bomba atomica… mi colpii il fatto che quel decennio sembrava il Ventesimo secolo in miniatura e allora forse gli omicidi di Jack lo Squartatore potevano rappresentarne la punta assoluta. Ecco come sono arrivato all’idea di From Hell: nell’ultimo omicidio William Gull si comporta più o meno come la levatrice della sanguinolenta nascita del secolo successivo. Quell’opera cercava di mostrare alle persone la connessione delle cose, le forme che esistono nella Storia, i collegamenti degli eventi… a volte coincidenze, a volte percorsi di significato. Penso che se la gente fosse in grado di vedere le cose da quella prospettiva, avrebbe un’esperienza della vita molto più ricca.
[Estratto da un’intervista pubblicata, in due parti, su Scuola di Fumetto N. 60 e Blue N. 189 (2008, Coniglio Editore). Traduzione: smoky man con la supervisione di A. Solinas.]
smoky man & Antonio Solinas: Conosci i lavori di qualche autore erotico italiano?
ALAN MOORE: Sì, conosco diversi autori erotici. Penso che alcuni di loro siano degli eccellenti disegnatori e ci sono state un paio di opere che penso fossero particolarmente riuscite ma non sono di mio gusto. Non voglio dire che ci sia qualcosa che non va ma semplicemente la maggioranza non è di mio gusto. Anche con Milo Manara che riconosco essere un grandissimo disegnatore (ha collaborato con Hugo Pratt su Un’estate indiana che penso sia uno dei suoi lavori migliori, probabilmente perché lavorava con Pratt), quando vedo i suoi fumetti erotici, i disegni sono perfetti ma non fanno per me. Le donne mi sembrano sempre la stessa donna con una parrucca diversa, non sembra esserci una specificità nei personaggi femminili e tendono ad apparire come dei manichini erotici: va bene se è il genere di materiale che uno predilige ma io non li ho mai trovati interessanti.
In Guido Crepax riesco a vedere l’eleganza del suo lavoro ma le sue donne sembrano aver patito la fame, la maggior parte delle volte sembrano figure uscite da un campo di concentramento. So che è il suo stile ma, ai miei occhi, il suo lavoro mi sembra morboso.
Come ho detto ammiro l’eccellenza della tecnica di molti di questi autori ma per me è difficile trovare interessante la produzione erotica attuale, non vuole essere una critica, semplicemente voglio dire che suppongo non si possa piacere sempre a tutti.
Robert Crumb è invece un autore per cui nutro un’ammirazione incondizionata anche se non so se possa essere classificato tra gli autori erotici. Non so davvero se possa essere classificato in questa categoria ma riesco a ritrovarmi nei suoi lavori: mi sembrano abbiano una dote di umanità mentre molti artisti erotici sono freddi, inumani, almeno secondo la mia percezione. Non voglio togliere nulla alle loro qualità ma c’è qualcosa nell’atmosfera delle loro storie o nella presentazione dei personaggi che mi lascia indifferente.
[Estratto da un’intervista pubblicata il primo gennaio 2017 sull’edizione online del quotidiano brasiliano Folha de São Paulo. Traduzione: Antonio Pala.]
Raphael Sassaki: Cos’è per te l’anarchia? Quali sono le tue convinzioni politiche?
ALAN MOORE: Anarchia, nel suo significato letterale di “nessun governante”, per me implica una situazione in cui ognuno deve prendersi la responsabilità delle proprie azioni e quindi essere il governante di se stesso. In tale stato, la cooperazione fra individui è la forma di interazione che ha il migliore effetto e quindi il maggiore successo. Questo è il motivo per cui la nostra specie, per le centinaia di migliaia di anni del suo stadio di cacciatori/raccoglitori, è stata priva di gerarchie e per cui il peccato più grave in quelle proto-società era il tentativo di assurgere a uno status più alto degli altri, peccato punibile col ridicolo e, quando questo non era sufficiente, con l’esilio. Apparentemente, questa è ancora oggi la tradizione vigente in alcune popolazioni aborigene.
Oggi si ritiene che queste prime comunità in qualche modo avessero capito che lo status sociale avrebbe creato divisioni che alla fine avrebbero destabilizzato l’intera cultura.
Per me, l’anarchia suggerisce che per essere pienamente realizzati come esseri umani, dobbiamo individualmente fare pace con l’universo e stare come donne e uomini, spogliati di ogni status sociale, nel cuore di questo stellato e stupefacente contesto che sicuramente rende qualsiasi nostro status del tutto insignificante.
L’anarchia è la posizione politica che Charles Darwin concluse essere la più razionale e umanitaria e, nella forma qui espressa, è una rappresentazione pressoché esatta delle mie convinzioni politiche.
[Estratto da un’intervista pubblicata sul sito canadese open-book.ca il 19 Gennaio. Traduzione: smoky man.]
Koom Kankesan: Una volta suggerii che la gente avrebbe dovuto fare una petizione per candidarti al Nobel per la Letteratura. A quanto pare ti giunse voce e dichiarasti il tuo totale disappunto per la cosa. Tuttavia, visto che Bob Dylan ha ricevuto il premio l’anno scorso e che i fumetti, seppur con qualche difficoltà, entrano nei negozi di libri e nel mondo della letteratura come un inquieto scalatore sociale al pranzo di Natale, non pensi che le tue opere siano originali e valide quanto meno per essere prese in considerazione? Da ragazzo ero solito cercare di convincere i miei amici a leggere i tuoi lavori dicendo “se questo tizio scrivesse romanzi al posto dei fumetti vincerebbe il Nobel”. Successivamente ti sei dedicato, ovviamente, anche ad altri media, tra cui diverse incursioni nella prosa e, recentemente, i lavori in ambito cinematografico.
Gran parte dei tuoi fumetti, da Watchmen a Supreme fino alle serie per la linea ABC, si occupavano soprattutto di catalogare forze culturali e tendenze, inserendole all’interno di un contesto e di un’epoca specifica. È facile per te ripensare ai tuoi lavori passati e al loro impatto? Oggi riesci a valutare il tuo lavoro con obiettività, la tua influenza sulle cose? Questo ha un qualche peso sulla scelta dei progetti che decidi di realizzare oppure tremi al solo pensiero?
ALAN MOORE: Mi dispiace ma credo che tu abbia sottovalutato la mia assurda arroganza: credo che tutti i premi, dall’Eagle al Pulitzer alla bottiglia di bagnoschiuma di Bart Simpson che mi fu data come premio alla carriera durante una convention inglese, siano privi di significato e ho detto chiaramente che non ho intenzione di accettarne alcuno, né ora né in futuro. Per cui non è una questione di domandarmi se il mio lavoro sia originale oppure sufficientemente degno di nota per essere candidato a un premio, questo vorrebbe dire essere umili e non penso davvero che potrei reggere la parte mantenendo una faccia seria. È piuttosto una questione di valutare se i premi siano o meno sufficientemente degni per essere presi in considerazione da me. Spero che questo chiarisca le cose sul fronte premi.
Riguardo al ripensare ai miei lavori, avendone disconosciuto la maggior parte e non possedendo più alcuna copia, posso in tutta onestà dire che non ci penso proprio per nulla. Sul giudicare l’impatto della mia opera, anche questo è qualcosa che non rientra tra le mie preoccupazioni, in parte per l’evidente e ovvia futilità di un simile giudizio. Ad esempio, l’impatto di Watchmen va misurato in termini di quante nuove idee avrebbe apportato al medium oppure rispetto alla strategia di marketing che lo promuoveva come “fumetto per lettori maturi” e ci ha lasciato con un’industria del cinema, apparentemente un’arte adulta, dominata da concetti pensati per i ragazzini che Jack Kirby buttò giù in un impeto d’ispirazione cinquant’anni fa?
Obiettivamente, da quello che vedo, la parte più consistente del lascito di Watchmen è il permanente stallo e l’impoverimento intellettuale dell’industria dei comics mainstream. Per questo, no, anche per opere che mi sono ancora care, preferisco evitare di giudicare il loro impatto. Se un mio lavoro ha funzionato e ha avuto l’effetto sociale che speravo, allora non c’è davvero alcuna reale ragione per prestare attenzione all’opera in sé. Allo stesso modo, se non ha funzionato, si applica lo stesso esatto ragionamento.
Penso che qualcosa come l’impatto sia un argomento che è meglio venga considerato e valutato da altri, preferibilmente molto tempo dopo che il soggetto del loro giudizio è morto.
Di conseguenza, alla luce di quanto detto, pensare all’impatto delle mie opere non gioca, di certo, alcun ruolo nella ideazione di nuovi lavori, per lo meno non per me. D’altra parte David Foster Wallace sembra fosse fissato sulla necessità che il suo terzo romanzo, Il re pallido, avesse un impatto superiore all’immenso successo del suo secondo libro, Infinite Jest. Non si vorrebbe mai semplificare eccessivamente eventi così dolorosi ma tuttavia pare plausibile che l’ossessiva ricerca di questo maggiore impatto abbia giocato un qualche ruolo nella sua decisione di togliersi la vita nel 2008, lasciando Il re pallido a metà. Se da questo si può trarre un qualche insegnamento per tutti gli artisti di successo credo sia “Non assillarti con considerazioni sull’impatto o il lascito della tua opera perché questo genere di cose può paralizzarti o persino ucciderti.”
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