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“Aladdin”, la recensione del remake in live-action

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Con quali occhi si guardano le rinnovate storie di Aladdin (cioè Aladino), della principessa Jasmine e del genio della lampada? Per non tacer della scimmietta Abu e del cattivissimo gran visir Jafar? Proviamo tre strade diverse per capire com’è il nuovo film della Disney, che esce oggi nelle sale.

Lo sguardo del seienne
La prima prima strada è quella degli occhi di un bambino, al quale in ultima analisi è destinata questa versione live-action del film di animazione omonimo. Realizzato sempre della Disney nel 1992, questo era a sua volta frutto del “Trattamento Walt” (noto per rimaneggiare e trasformare le fiabe e i racconti popolari rendendoli più palatabili ma profondamente diversi dagli originali) applicato a Le mille e una notte, la celebre raccolta di novelle orientali – in realtà di origine non solo persiana, ma anche egiziana, indiana e mesopotamica – del decimo secolo. Ma ci torneremo.

Veniamo allo sguardo del minore, anzi del seienne, nel caso il piccolo Leone, primogenito del vostro recensore.

«Il film mi è piaciuto, sì. Perché aveva un sacco di scene di azione molto emozionanti. La musica e le canzoni anche… però un pezzettino del film, una azione era troppo forte, faceva paura perché c’era la pioggia e c’era un signore che era fortissimo e cattivissimo. Ma poi è finito nella vecchia lampada e questo mi è piaciuto molto. E mi hanno dato anche il tappeto volante giocattolo da portare a casa. E le patatine erano buone: puoi dirlo forte. Ma nel film si baciavano troppo: anche due volte… io però ho tenuto gli occhi sempre chiusi quando lo facevano.»

A parte lo spoilerone (ma tanto lo sapete come va a finire la storia di Aladino, no?) c’è da dire che questo film, visto con gli occhi di un bambino, è una vera festa per i suddetti, forse anche troppo. Velocissimo, con scene di azione costantemente realizzate in sintesi digitale e una messa in scena che – nonostante tutto – non è prettamente cinematografica. Ricorda piuttosto una rappresentazione teatrale con relativamente poche ambientazioni e inquadrature “naturali” (con gli attori in carne e ossa) statiche, a parte quelle dove Aladdin scappa (e il ragazzo ha dei problemi con l’autorità, evidentemente, perché scappa spesso).

I (pochi) luoghi: c’è il deserto, c’è la caverna delle meraviglie, ma c’è anche la città con il mercato (perché queste città mediorientali sono tutte un gigantesco suk), “l’appartamento” di Aladino, l’entrata del palazzo reale, la sala del trono e gli appartamenti della bella Jasmine – terrazza inclusa – più un paio di altri posti minori tra cui i quartieri tetri del gran visir Jafar. Sembrano tanti ma in realtà sono pochi.

C’è l’elemento romantico che, come la minirecensione testimonia, nonostante sia tenuto a livelli ultra-disneyani, in realtà attecchisce solo più avanti, non certo a sei anni. C’è un po’ di spavento perché le scene improvvise, per quanto molto stemperate, sono comunque potenti e cupe («Perché nelle scene in cui combatte il cattivo piove sempre, papà?», chiede il giovane recensore).

E c’è la trasposizione assoluta in un mondo in cui le cose possono prendere qualsiasi forma e velocità: le magie del genio sono invenzioni costanti e stupefacenti ma anche un lavoro continuo di effetti speciali (nei titoli di coda la paginata scorrevole degli animatori digitali è ancora più impressionante di un film Marvel) che alla lunga rende i film live-action niente più di film in computer grafica con qualche siparietto interpretato dagli avatar in carne e ossa dei personaggi sintetici.

Per qualche strana ragione, poi, una scena di ballo che si conclude con una capriola di Aladdin rimane impressa non solo nello svolgimento della trama ma anche nella mente del fanciullo. Vai a capire l’alchimia tra il prodotto culturale e la psicologia del suo pubblico d’elezione. Comunque, qui il meme è Aladdin che fa la capriola quando balla.

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Live-action
Secondo possibile approccio per guardare il film: il modo dei live-action. Disney sta rivisitando un buon numero dei suoi classici, riscrivendoli – qui non ci sarebbe niente di male – e facendoli interpretare da attori in carne e ossa. Con il limite che si diceva della presenza strabordante di effetti speciali “en plein air”, che rende in effetti il numero di scene girate dagli attori probabilmente molto, ma molto inferiore a quelle di un film tradizionale in cui avessero la stessa esposizione.

Il film come detto è un remake del primo Aladdin, ma nella versione animata – con alterni risultati – il numero di titoli a disposizione è maggiore: oltre ad Aladdin (1992), ci sono anche Il ritorno di Jafar (1994) e Aladdin e il re dei ladri (1996). Si tratta insomma di una trilogia compiuta, con una chiusa finale neanche troppo banale. Per la critica, dopo il primo la serie precipita, ma il pubblico l’ha in ogni caso apprezzata.

In questa nuova vita come live-action, il regista – e co-autore della sceneggiatura – è il britannico Guy Ritchie, che alterna flop (come Travolti dal destino del 2002 con l’allora moglie Madonna) a successi (Lock & Stock del 1998 e Snatch del 2000), e che ha già avuto tra le mani grandi produzioni (Sherlock Holmes del 2009 e del 2011, un terzo è in arrivo) e film indipendenti notevoli (a me è piaciuto molto RocknRolla del 2007).

Ecco, la mano del Ritchie dei primi film indipendenti, delle trame intricate, delle azioni continue e sostenute da un ritmo incalzante, con dialoghi surreali e disarcionati dall’azione messa sullo schermo, eppure sempre rilevanti, è quasi scomparsa, completamente tritata dal meccanismo disneyano di produzione di belle storie per un grande pubblico planetario di bambini e dei loro genitori.

Rimane probabilmente qualcosa dei dialoghi disincantati (la scena in cui Aladdin si incarta nei panni del principe con Will Smith/Genio che lo supporta abbastanza poco, a partire dalle confetture, chi vedrà capirà), della visione tecnica, della capacità di muovere la camera, del tentativo di legare gli snodi della storia in modo sottilmente diverso da quanto ci si potrebbe aspettare. Ma il sapore complessivo è quello di una messa in scena molto differente da quello a cui siamo abituati quando pensiamo ai film di Ritchie. È un sapore generalizzabile anche ad altri film analoghi e che va oltre il paradigma autoriale della Nouvelle vague, tutt’ora imperante nell’immaginario collettivo dei film.

Mi spiego: è con il movimento cinematografico francese degli anni Cinquanta che celebra una “nuova ondata” di film a partire dal 1958 che viene superata la tradizione documentarista e moralizzante del dopoguerra sostituendola con una forma di sincerità espressiva e mezzi di fortuna: fin qui, è storia del cinema. Un aspetto importante della Nouvelle vague però è una nuova considerazione per il ruolo autoriale molto spinto del regista, che diventa adesso non più “solo” la persona che fa funzionare la macchina del film sul set, ma anche quella che “pensa” il film e la cui sensibilità è la lente con cui guardarlo.

Dentro la Nouvelle vague ci sono infatti i migliori registi francesi, che erano anche e prima di tutto un gruppetto di amici cinefili che si trovavano a guardare pellicole di tutto il mondo in un cineforum di Parigi. Gente come François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol ed Éric Rohmer. La loro sensibilità si trasforma in capolavori del cinema e non solo, crea un modo di guardare la realtà – quello in cui il regista sia il vero dominus del film – che risuona anche perché arruola d’ufficio molti altri registi, tra cui Alfred Hitchcock, Orson Welles, John Ford e Roberto Rossellini, per dire. Gente che prima veniva raccontata come tecnici della messa in scena, registi teatrali, coordinatori di una macchina complessa (pensate allo “studio system” di Hollywood, una vera e propria macchina per produrre un film dopo l’altro), e che invece all’improvviso si trova a essere considerate “autore” vero e proprio.

Ecco, Aladdin va tutto da un’altra parte. Non solo per il dispendio di mezzi e l’artificialità del racconto, ma anche e soprattutto perché secondo me sancisce ancora di più il ritorno alla figura del regista come tecnico tra i tecnici, e allo stesso tempo fa invece emergere il potere autoriale del produttore. In questo caso la coppia Dan Lin e Jonathan Eirich. Ma di queste figure quasi tutta la Hollywood dei polpettoni kolossal e best seller è oggi piena: persino i vari Steven Spielberg e per un po’ George Lucas si sono trasformati in “mostly produttori”, per poter riprendere in mano l’autorialità dei loro lavori. Essere registi non è più la cosa importante, quella che determina il film. Il regista diventa come il direttore della fotografia: un artista importante ma non creativo in senso completo, perché è lì per interpretare l’idea di qualcun altro. Un artista con una grande sensibilità, ma sempre un sottoposto.

Oggi infatti non c’è film di Guerre stellari, di Star Trek, della Marvel o della DC in cui il regista non sia stato retrocesso al rango di “tecnico sensibile” e magari di grande talento, ma sostanzialmente un giocatore della squadra di cui però l’allenatore è qualcun altro. Il vero direttore dell’orchestra è infatti diventato il produttore.

E non potrebbe essere diversamente, soprattutto con l’aumentare di peso non solo dei budget – a questo Hollywood ci è abituata -, ma anche per la diversità delle location, le tortuosità delle sceneggiature e ancora per via degli effetti speciali. Che poi è un modo riduttivo di considerare ad esempio che in questo Aladdin la buona metà del film è completamente realizzata con il computer, senza contare i set che sono per quattro quinti digitali, o la scimmietta Abu (il mio personaggio preferito) o la tigre della principessa, che non esistono o quasi nel mondo fisico.

Insomma, ciaone regista che fai il capitano della nave, adesso il vero comandante della missione è seduto nella stanza dei bottoni accanto alla rampa di lancio: è il produttore che immagina, pensa, decide, coordina sia il set vero che quello virtuale e poi fa realizzare. È l’unico ad avere una visione completa dell’opera, dalla sceneggiatura al montaggio e post-produzione finale.

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Stereotipi politicamente correggibili
E tutto questo ci porta al terzo sguardo possibile su Aladdin: quello della parità di genere e altri stereotipi che il film annuncia di voler superare. La derivazione della storia come sappiamo è mediorientale (per così dire), e quindi Disney mette in scena una pletora di attori dal DNA variegato. Accanto al genio Will Smith, che a me è piaciuto non poco, e a Jasmine, alias Naomi Scott (ci torniamo tra un attimo, ma è comunque di padre inglese e di madre ugandese di origini indiane), c’è questo bisogno un po’ ipocrita di riempire il film di attori che devono sembrare a tutti i costi mediorientali ma parlare bene inglese. Un dramma, visto che poi la produzione è probabilmente il più grande esempio di non-diversità e non-mediorientalità che la storia del cinema ricordi. I nomi “strani” sono tutti nel cast, zero o quasi nella produzione.

Akim è interpretato dal turco Numan Acar, l’ancella Dalia è l’iraniana (ma ora americana) Nasim Pedrad, il sultano è l’iraniano (ma ora americano) Navid Negahban, il gran visir Jafar è l’olandese di origini tunisine Marwan Kenzari. E il protagonista è il canadese Mena Massoud, che è nato al Cairo da genitori copti ma è cresciuto in Nordamerica (ha avuto un ruolo interessante anche nella serie Jack Ryan di Amazon Prime, per chi fosse interessato). Insomma, una Babele del politically correct. Un tentativo globale di far finta di aver creato un film del cinema indipendente persiano. Un prodotto genuino in vetrina da McDonald’s. Ma per piacere.

Collegato a questo c’è un altro discorso. Veniamo cioè all’altra “correzione”: il ruolo della principessa. Che nelle intenzioni dei produttori non è “una bionda, bella e stolida” (la definizione canonica di principessa) bensì una donna forte, che ha studiato (nella sua cameretta da adolescente iper-ricca ci sono libri buttati qua e là, e lei fa riferimento alle sue mappe che sono praticamente depliant di Disneyworld) e che vuole diventare sultano anche se la tradizione lo impedisce. La legge invece le impedisce di sposare un non-principe, da cui deriva tutto lo sbattimento del film in cui lei da una parte rifiuta i pretendenti e dall’altra ecco il perché di Aladino che le si presenta sotto mentite spoglie di principe creando poi il problema di non averle detto la verità, con relativi sensi di colpa e fraintendimenti. Giulietta e Romeo si sono suicidati per molto meno, viene da pensare.

La donna – Jasmine – è forte, insomma: una icona femminista verrebbe da dire. Se non fosse che il suo afflato («Questa voce non tacerà», più che cantare urla nella scena madre che dovrebbe essere il trionfo dell’attrice – e per noi della sua doppiatrice canora – ma che alla fine non va da nessuna parte) è in realtà una presa in giro. Perché il superamento degli ostacoli non deriva dalla sua capacità ma passa solo ed esclusivamente dal riconoscimento paternalistico del padre-padrone, il sultano al quale lei deve assoluta (e non solo filiale, direi) obbedienza. Il padre che in cinque minuti, in un esercizio di mansplaining di tutto livello, le dice chi è veramente (non più una bambina ma una donna, nientedimeno), la “capisce”, la perdona e cancella leggi e tradizioni millenarie trasformandola in sultano e quindi in donna liberata (e non libera), quindi capace di sposare il ladro perché così qualcun altro vuole e acconsente. Ci voleva poco, no? Dopotutto, la bambina può solo avere desideri e fantasie ma sta al maschio adulto il potere di decidere se realizzarli o no.

Questo, signore e signori della corte, non è femminismo. Questo è paternalismo da far paura: brutto brutto. Al confronto Wonder Woman e Captain Marvel sono due film di suffragette pelose e incazzate con i maschi (no, non lo sono, però era per dare il senso di una proporzione). Se proprio bisognava emancipare la figura della ragazza, si poteva fare di più e meglio, considerando anche che le seienni e i seienni presenti in sala hanno certamente problemi con l’autorità (vista la loro età devono decisamente chiedere sempre il permesso) ma non sono dei piccoli idioti.

Sono anzi sempre alla ricerca di esempi per formare la propria identità e prontissimi a recepire se quelli che loro vedono come giovani adulti – come Jasmine – devono a loro volta chiedere il permesso o possono veramente prendere da soli le proprie decisioni importanti. E noi cosa diamo loro? Dei bambini in età fertile, che si baciano, che montano una pantomina da paura per salvare il mondo, salvo poi chiedere il permesso a papy per decidere cosa vogliono.

I rapporti tra sessi e le generazioni qui in Aladdin sono oltretutto importanti perché in realtà costituiscono anche una delle chiavi della raccolta di racconti originaria: Le mille e una notte sono costruite attorno ai racconti di Sherazade, la figlia del Gran Visir, che si immola come possibile sposa del Sultano per salvare le altre giovinette del regno, uccise in serie dopo la prima notte di nozze dall’uomo che è stato ferito a suo tempo dal tradimento di una delle sue prime mogli. Egli le sposa, le possiede e poi il giorno dopo le fa uccidere.

Sherazade rompe il ciclo sabotandolo con il continuo rinviare la conclusione degli infiniti racconti (questo il significato in arabo di “mille e uno”: cioè molto “molto numeroso”, anzi “infinito”, nonostante poi i compilatori delle varie edizioni del volume nei secoli l’abbiano portato esattamente alla cifra di mille e un racconto) che narra ogni sera al Sultano. È l’espediente con il quale la donna sopravvive a molte notti e lentamente fa breccia nel cuore di un personaggio dal quale ogni ragazza sana di mente in realtà si terrebbe alla larga. Ma vabbé. Quando poi diventi sultana, tutto cambia (se lui non ti fa ammazzare la mattina dopo).

Come nota laterale, osservo una cosa: anche il film della Disney si apre in forma di racconto da parte di Will Smith che parla ai suoi due bambini sulla barca con la quale sta veleggiando assieme alla moglie e a un paio di marinai. È una narrazione nella narrazione che echeggia lo schema delle mille e una notte, dove infatti molti dei racconti erano costruiti attorno a un ulteriore personaggio-narratore che aveva originariamente riferito a Sherazade la sua avventura o comunque introduceva i protagonisti della singola storia e la narrava sostituendo la sua voce a quella della cornice offerta da Sherazade. In questo il film della Disney adesso è non solo strutturalmente originale e rispettoso in modo virtuoso della formula delle mille e una notte, ma si permette anche un piacevole colpo di scena finale ben costruito e ben giocato. Bravo Ritchie (se sei stato tu).

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One more thing
Ah, un’ultima cosa: l’elefante nella stanza (che poi è la mia stroncatura finale). Il perché questo film è una sofferenza: è un mezzo musical. Nel senso non che c’è una bella colonna sonora (no, non c’è), ma che gli attori cantano mentre fanno altre cose. A cominciare da Will Smith – che come sappiamo lo faceva anche da ragazzo con il rap, una specie di Jovanotti ante litteram – e come lui anche gli altri. Poi ci sono svariate coreografie di ballo e balletto: da cui la scena del ballo in cui Aladdin/Mena Massoud esagera, ma anche l’arrivo di Aladdin come principe e la coreografia con tanto di genio nella parte del presentatore del circo, che invece è molto ben pensata e ci è piaciuta. Veniamo alla magagna, che non è l’aspetto musicale perché ci sta. È come arriva a noi, ai nostri seienni e dintorni.

La produzione italiana del doppiaggio musicale a mio avviso infatti non è di livello adeguato, né per i testi né soprattutto per le voci. Peccato. Abbiamo vissuto troppo a lungo con traduttori sempre meno ispirati e purtroppo con parti di canto che non ci stanno dentro. In particolare Jasmine, alias Naomi Rivieccio, nota per X Factor (un karaoke per gente che ha tanta voce più qualche altro fenomeno da baraccone) ma che è diplomata al conservatorio di Salerno: è tecnicamente brava ma molto sbagliata per la parte, fidatevi.

Ahimé, avendo chi scrive figli italiani, il film in lingua originale non si pone neanche come alternativa possibile se non tra un bel po’ di tempo. Peccato, perché in passato Disney riusciva meglio nella localizzazione e le sue voci erano davvero “giuste”. Il Sultano, come una specie di retaggio di altri tempi (è stato il genio della lampada nei tre film a cartoni animati, ma ha dato la voce anche a vari altri personaggi a cartoni per il grande schermo della Disney), è interpretato da Gigi Proietti, spentissimo anche quando non dovrebbe, autorevole in modo paternalistico e inflessibile. Non aveva voglia? Ha litigato con la produzione? Chissà.

Il problema vero è però un altro: la nostra epoca di cose sottotitolate da guardare su Internet e Netflix sta secondo me facendo evaporare il nostro bacino di artisti del doppiaggio: soprattutto in un film come questo dove – unica nota percepibile a mio avviso dello stile di Ritchie – c’è compressa troppa roba nel parlato (mal recitato in italiano) e soprattutto nel canto (mal tradotto e cantato in modo dimenticabile). Insomma, non se ne esce: un film dove gli attori fanno capolino tra una scena in computer grafica e l’altra, la regia è una festa per gli occhi di una banalità e rigidità non comuni e il doppiaggio/canto non risuonano. Meno male che la storia è millenaria e va avanti praticamente da sola. Se avete tra i cinque e i dieci anni ci sta che lo andiate a vedere, perché è una bella festa per gli occhi. Sennò mettetevi le AirPods, socchiudete gli occhi e ascoltate la suite sinfonica Scheherazade composta da Nikolai Rimsky-Korsakov badando ai fatti vostri.

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