Con Avengers: Endgame è arrivato il momento dei saluti. Tre ore di saluti, per la precisione, con cui il Marvel Cinematic Universe si prende il tempo per rimettere assieme tutti i fili che ragionevolmente può tirare senza ingarbugliare il senso della storia che vuole raccontare. E chiude una fase epica, fondativa, amplissima, conflittuale, a tratti ripetitiva ma con delle perle e delle vette che rimangono insuperate.
E la chiude forse per sempre. Al punto che – unico spoiler che ci concediamo – alla fine dei 14 minuti di titoli di coda non c’è nessuna scenetta finale. Niente. Nisba. Come annunciato c’è (l’ultimo) cameo di Stan Lee, ci sono un po’ di chicche a cui siamo ormai abituati, a partire dai titoli di testa con immagini animate dei protagonisti in carne ed ossa di questo lunghissimo ciclo. Ma niente scenetta finale. Solo la scritta rossa “Marvel Studios”. E Sayonara.
Sappiamo già tutto ancora prima di entrare al cinema e, come dice il presidente dei Marvel Studios Kevin Feige, il vero deus ex machina del MCU e di questo episodio assieme ai due fratelli Anthony e Joe Russo che ne curano la regia, #DontSpoilTheEndgame. E no spoiler sia.
Il film vale la pena. Sia che siate cultori della materia – troverete pane per i vostri denti – sia che non conosciate la serie. I passaggi sono espliciti, le strade da percorrere lunghe ma sempre comprensibili. E di combattimento non ci si sazia mai, come di risate e di lacrime.
Avengers: Endgame è la storia che rimette in ordine tutte le storie. Una storia che cerca la propria pace per poter riposare. Finalmente, dopo dieci anni. È l’altro lato sul quale poggia l’arco lunghissimo dei personaggi che ci hanno accompagnato sino a qui. Un arcobaleno alla fine del quale c’è oro, ma ci sono anche lacrime e tanta azione.
È un film sui conflitti, quelli con un Thanos – perché c’è ovviamente Thanos, l’enorme cattivo – che è umano e al tempo stesso lontano da qualunque umanità. Un personaggio che cerca la pace per non sentire più quella furia cieca e assordante che lo consuma. Come molti dei Vendicatori, dopotutto. Ed è anche un film sul diritto che tutti noi abbiamo di essere felici, di vivere la nostra vita.
Gli Avengers sono diventati l’armata della Marvel. In un universo senza gli X-Men, combattono tenendo assieme volti, caratteri, storie e poteri molto differenti. Se c’è una delusione, quella delusione è Captain Marvel, che si è meritata un film delle origini tutto per se, che ha creato grandi aspettative, ma che poi ha un ruolo tutto sommato accessorio, secondario. Questo è un film di Iron Man e di Captain America, un film anche un po’ di Thor e di Vedova Nera e di Occhio di Falco.
Se non corressimo il rischio di essere fraintesi e di lasciare l’impressione di essere di fronte a un film esistenzialista francese in bianco e nero, calcheremmo la mano sul fatto che questo è un film psicologico, che lavora sulla fisicità degli attori, sulla loro capacità di mostrare le emozioni, la sofferenza, la gioia, i momenti di vuoto che la paura mette nel cuore.
Gli eroi di questo ciclo della Marvel hanno costruito una ragnatela non banale di relazioni e conflitti, di contraddizioni, di doppi legami che impediscono loro di essere sino alla fine quel che sono veramente. E cosa sono? Hanno fatto tutto quel che potevano fare con il materiale a loro disposizione: i loro limiti sono stati una parte di loro, qualcosa con cui fare i conti, e i loro peggiori errori non sono il modo con il quale dobbiamo giudicarli.
Le due grandi abilità tecniche degli artisti che i Marvel Studios hanno impiegato nella realizzazione di questo ciclo di 21 film si possono a mio avviso condensare in due aspetti.
Il primo è la capacità, presa dai migliori autori di comics, di riuscire a dipingere con due pennellate un intero personaggio all’interno di un cameo che dura pochi secondi, un paio di scene al massimo. Una comparsata che però è coerente con il ruolo e la storia di quel personaggio. Che si è mosso e continua a muoversi lungo la sua traiettoria, con costanza, e che entra nel campo inquadrato dal nostro punto di vista per dare un contributo logico allo sviluppo della storia.
Il secondo è la capacità di plasmare i colpi, i volti, le espressioni, trasformandole in scene e immagini di fumetto. Dare vita, in maniera rispettosa dell’originale cartaceo, agli avatar in carne e ossa di Tony Stark, di Steve Rogers, di Bruce Banner. Perché c’è sempre stato, in questo lungo, decennale ciclo, un rispetto enorme per la caratterizzazione sia psicologica che fisica dei personaggi che hanno avuto oltre settant’anni di storie. Riprendendo, semplificando, trasformando il piano sul quale si è giocata la loro messa in scena (non più così ricca di conflitti e contraddizioni nei singoli personaggi, ma capace di creare una lunga narrazione in cui la psicologia e addirittura il fisico degli eroi cambia, si modifica) per arrivare a restituire su schermo una dose di umanità enorme.
In conclusione, perché Endgame è davvero la conclusione, possiamo dire che Marvel Studios ha trovato un modo per aiutarci a superare il dolore della fine – una fine che fa ovviamente parte del viaggio – con grazia e precisione. Rivisitando momenti clou della “ventunologia”, anzi “ventiduelogia” contando anche Endgame. Si viaggia attraverso i luoghi della memoria, fisici come non mai. E si ha l’opportunità di dire i nostri addii, di accarezzare e abbracciare con lo sguardo, per un’ultima volta, l’emozione di vivere di nuovo un’avventura con gli Avengers così come non torneranno mai più.
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