Come un soufflé, Love, Death and Robots sembrava una gran cosa, ma una volta tolto dal forno si è sgonfiata in uno sbuffo di vapore.
L’antologia animata a tema fantascientifico prodotta da David Fincher e Tim Miller (del primo penso non serva dire nulla; il secondo ha fondato i Blur Studios, ha diretto Deadpool e il prossimo capitolo di Terminator) è uscita su Netflix il 15 marzo 2019, ma la gran parte dei suoi episodi grida “tardo 2003”.
Il 2003 è anche l’anno in cui uscì Animatrix, un prodotto molto simile a Love, Death and Robots, dove alcuni grandi nomi (tra cui Shinichirō Watanabe e Peter Chung) realizzarono una serie animata antologica dal gusto cyberpunk, tenuta insieme dal nome degli allora fratelli Wachowski.
Il paragone è più che sensato, dato i temi di alcuni corti (Il vantaggio di Sonnie, La testimone) molto affini alla poetica e all’estetica delle Wachowski, ma il confronto con Love, Death and Robots vede quest’ultimo uscirne sconfitto per il grado di arretratezza che attanaglia il progetto e la debolezza dei registi coinvolti. E quando ti poni sul limite dell’avanguardia ma perdi contro un prodotto di sedici anni fa, c’è un problema bello grande.
Forse sono state le dichiarazioni roboanti o il coinvolgimento di Fincher ad alzare le aspettative su quella che, per un pubblico non avvezzo al genere, sarebbe una serie di tutto rispetto. Per chiunque sia appena un po’ scafato la visione di questa serie sarà un rimestare nella solita zuppa, sperando di trovare qualche ingrediente a sorpresa.
Qualcosa d’interessante c’è: la direzione artistica de La testimone, mediata dallo stile sporco di Spider-Man: Un nuovo universo, o quella di Zime Blue, riflessione sull’arte e l’identità a opera di Robert Valley; o Il vantaggio di Sonnie – il racconto di una mercenaria che si connette mentalmente a un mostro e combatte in incontri clandestini all’ultimo sangue – che prende l’impianto estetico di Tron: Legacy e lo butta in un sobborgo di Nuova Delhi. E quelli prodotti da Blur Studios assumono la forma di cutscene scartate da qualche videogioco patinato.
I corti, di lunghezza variabile tra i cinque e i diciassette minuti, sono quasi tutti adattamenti da racconti brevi di grandi autori (Joe Landsdale, John Scalzi, Alastair Reynolds, Liu Cixin, Marko Kloos), ma propongono una serie di gusti limitati e di idee non più fresche.
Ci sono ladri cyborg che progettano di rubare un convoglio corazzato (Punto cieco), un artista concettuale e la sua ricerca identitaria attraverso l’arte (Zima Blue) redneck che difendono la loro baracca tra montagne di rifiuti (La discarica), esploratori che risvegliano inavvertitamente il mostro di Dracula (Il succhia-anime), un distaccamento dell’Armata Rossa che combatte una forza mistica nella Siberia selvaggia (La guerra segreta), due marine in Afghanistan che si scoprono lupi mannari (Mutaforme), una ragazza costretta a scappare dall’omicida di un delitto di cui è stata testimone (La testimone), due uomini nel deserto protagonisti di un’apparizione spettrale (La notte dei pesci), un app che mostra le possibili linee temporali risultati dalla morte di un giovane Hitler (Alternative storiche), un gruppo di agricoltori che deve difendersi dall’invasione aliena (Tute meccanizzate), una razza senziente di yogurt che conquista il mondo (Il dominio dello yogurt); e poi tanti soldati, tanti combattenti, mercenari, guerrieri.
Sembra che si siano confinati di proposito in un angolo della fantascienza e non abbiano voluto osare altre declinazioni. Molto presente è l’ambito militar-fantascientifico, con quel tipo di immaginario alla Aliens che abbiamo tutti bene in mente; c’è un po’ di sci-fi campagnolo, un’oncia di horror, un poco di commedia (in questo ambito Tre robot – la scampagnata di tre cyborg-turisti in un futuro post-apocalittico – vince a mani basse per la sua simpatia ruffiana), molta violenza e nudità, che sono i due soggetti che più interessano agli autori.
Seppur pensata come antologia di corti indipendenti l’uno dall’altro, la matrice comune è abbastanza evidente e tenuta insieme dalle sceneggiature di Philip Gelatt, che ha scritto la quasi totalità delle puntate: amore e morte, fatti irrazionali, che entrano ed escono nelle storie senza che ci sia una giustificazione e che si scambiano volentieri posto.
Amarsi è una questione di corpi che impattano l’uno nell’altro, intellettualmente asettica ma fisicamente brutale, morire un’esperienza replicabile e soggettiva tutt’altro che ineluttabile. Nella sfilata di storie assistiamo a scambi di corpo, loop temporali, esseri immortali e in certe puntate si è spronati a tifare per il percorso più efferato piuttosto che per il lieto fine.
I soggetti di Love, Death and Robots appaiono datati (i materiali di partenza non freschissimi in questo possono essere stati responsabili) e derivativi; su tutti, l’ibrido cgi-live action diretto da Tim Miller L’era glaciale, un remake pedante e impersonale di due episodi di Ai confini della realtà e I Simpson, rispettivamente I piccoli uomini e La vaschetta della genesi.
Tutta l’innovazione si riduce a una dose generosa di nudità e violenza, su cui ci si limita ad abbozzare un vago ragionamento. Sul tema tecnologica, il ruolo dell’intelligenza artificiale e l’umanità delle macchine si dicono un paio di ovvietà e nulla più. Non c’era bisogno di andare in modalità hardcore e tentare esperimenti sull’onda di Off the Air o The Shivering Truth ma mi aspetto che un lavoro su cui Fincher appone il proprio nome non si limiti a farmi vedere gli showreel di animatori rimasti sotto con Halo e Starship Troopers.
Leggi anche: 30 anime che dovreste vedere