Uscire alle 23 di un piovigginoso lunedì di inizio marzo da un’anteprima per la stampa di un film del Marvel Cinematic Universe, anche se a Milano, è pur sempre una esperienza surreale. Perché il folto pubblico di addetti ai lavori e degli invitati speciali spazia dai 30 ai 70 anni e sentire le voci di attempati signori discettare della seconda scena di raccordo alla fine del film di Captain Marvel fa un certo effetto. Ma questa è l’industria culturale di oggi, bellezza, ed è qui che i piani del senso del cinema e non solo oggi si incrociano, si sovrappongono e si mescolano.
I film Marvel, che si avviano con questo Captain Marvel a chiudere il loro decennale ciclo (toccherà ad Avengers: Endgame finire tutto e aprire un altro giro), ormai spaziano attraverso settori e territori della cultura che non avremmo immaginato. Attori e registi di colore per uno dei pochi e genuini film dedicato all’Africa in maniera non paternalistica. Eroine e vere donne, testo e regia, costruzione di intrecci, scelte di fotografia, allegorie, immagini, inquadrature. Narrazioni. La capacità di creare una compatta e robusta mitologia, un vero e proprio ecosistema di storie e di eroi, è sicuramente il riflesso dello straordinario effetto che ha avuto la Marvel (e DC) sulla cultura americana in particolare ma anche su quella planetaria in generale. Però oggi siamo arrivati all’acme, al punto che articola un nuovo discorso. E non solo metaforicamente.
Prendiamola da un altro punto di vista. Com’è dunque questo tanto atteso film di Captain Marvel? Com’è lei, l’eroina che deve salvare il mondo, ieri (a metà degli anni Novanta) e domani, nel tempo degli Avengers massacrati dallo schiocco delle dita di Thanos? La buona notizia è che tutto fila, anche se tutto adesso diventa sempre più vuoto.
Captain Marvel è una storia autoconclusiva ma è anche ed evidentemente un film di raccordo tra i due degli Avengers. Serve a preparare il grande finale. E lo fa in 25 secondi di scena supplementare, non certo nella storia del film che ha (forse) come obiettivo involontario quello di cercare di guarire il mondo dalla attuale ossessione e nostalgia possessiva per gli anni Ottanta, spostandola in avanti al decennio successivo. Top Gun, il grunge e mille altre citazioni che riempiono tutto. Il film è fatto di tempi lentissimi e di bellezze cinematografiche che danno senso alle scene con le persone in carne e ossa (apparentemente) e poi a violentissimi e prolungati incontri-scontri di pura energia fatti di computer grafica che svuotano di senso quello che noi chiamiamo cinema e lo trasformano in qualcosa di diverso.
Persone apparentemente in carne ed ossa dicevo, perché il buon Nick Fury e il caro Phil Coulson qui sono ringiovaniti. Computer grafica di quella più insidiosa e strisciante, che neanche te ne accorgi da quanto è naturale.
In un film così minuziosamente artefatto, il ventunesimo – dicevamo – prima del gran finalone di aprile con Avengers: Endgame, come ritrovare le tracce di una umanità attoriale? Difficile, anche se la ricchezza di immagini e di intensità dei momenti c’è in abbondanza. Brie Larson è perfetta, Lashana Lynch deliziosa, Annette Bening e Jude Law si aggiungono senza problemi alla lunga lista di attori “di serie A” che hanno sposato il set della saga Marvel.
Ci sono momenti di intensità e una fotografia significativa, anche se per rendere il modo concitato dell’azione si esagera sui piani ravvicinati che rendono tutto un po’ troppo convulso. La fisicità c’è ma è di gomma, senza sudore e senza muscoli, come ci si aspetta da un film Marvel, agli antipodi di un Rocky o di un Rambo, per intendersi.
È un film femminile ma non in maniera programmatica o addirittura ideologica, come ad esempio il concorrente Wonder Woman. E Captain Marvel è un diavolo di personaggio da gestire, vista la potenza infinita che racchiude in sé – ma che ignora e non sa controllare. È una sola persona che, per quanto forte, non può arrivare ovunque. Combatte un cazzotto alla volta, per quanto potente.
Il film di avventura si regge, l’ambientazione nei Novanta appare credibile (anche se non coerente) e alla fine il punteggio è positivo. Ma con qualche perplessità. Il film non ha la coerenza e la forza ideologica di Black Panther, i toni cupi di Infinity War, la durezza dei Thor migliori, ma fa il suo mestiere. E lo fa bene. Segna una fase di passaggio e, come dicevo sopra, vale per la scena di raccordo alla fine: è sostanzialmente un gigantesco flashback ambientato nel 1995 che serve a spiegare chi è che sta arrivando sulla Terra decimata, come il resto dell’universo, dallo schiocco delle dita di Thanos.
E poi cosa succederà? Non manca molto per saperlo.
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