Il primo Lego Movie ha cominciato qualcosa. Era il 2014, giusto cinque anni fa, e non mi sto riferendo a quel che è venuto dopo: ai film Lego Batman (2017) o Lego Ninjago (2017), al (futuro) Billion Brick Race o al (futuro) sequel di Lego Batman (yeah!), alla serie dedicata a Unkitty! (confermata per una seconda stagione), ai due videogiochi “principali” e ai tre spin-off videoludici, o ai 21 (dico: 21!) cortometraggi. No, c’è di più. Mi riferisco ad altro.
The Lego Movie ha fatto uno scarto, un salto laterale. Ha aperto una strada. E questa strada sta lasciando un segno. Ci sono vari piani di lettura, svariate componenti, ma il nocciolo secondo me è che The Lego Movie ha azzeccato un modo di raccontare una storia mescolando due piani – il mondo magico dei mattoncini di lego e quello delle persone reali – con leggerezza e garbo ma anche in maniera intrigante ed efficace.
E ha trovato un corpo, anzi una materia – quella del Lego e dei suoi infiniti mattoncini – che non soltanto si adatta plasticamente alle esigenze e alle capacità dell’animazione digitale (per quello, da Toy Story in avanti, di giocattoli che si fanno renderizzare bene ce ne sono in abbondanza), ma è anche una potente tavolozza capace di fornire adeguato colore e supporto a una potenza espressiva come non se ne vedeva dai tempi di ben altri personaggi animati, topi inclusi.
I mattoncini Lego e i loro personaggi sono parte della nostra esistenza di ricca e opulenta società occidentale dalla notte dei tempi (sono nati nel 1949 in Danimarca), incapsulati, anzi fortemente agganciati al nostro inconscio. Come prescindere allora?
E poi arriva The Lego Movie 2, e capisci che siamo solo all’inizio. Perché alla fine è tutto frutto della capacità creativa di due sole persone: Phil Lord e Christopher Miller. Come sceneggiatori avevano già lavorato alla serie di film di 21 Jump Street, ma anche al recente Spider-Man: Un nuovo universo (folle e geniale, ne abbiamo parlato qui) e non si fermano davanti a niente. Hanno un tipo di satira che è perfettamente compatibile, anzi che si incastra perfettamente con la natura intrinsecamente multigenerazionale dei film sui lego. Ironia, sarcasmo, ma anche non-sense (che è – badate bene – è la cosa più difficile da fare) e rottura di tutte le possibili quarte, quinte e seste pareti, per parlare allo spettatore da angoli molteplici e plurali. Multidimensionali, o come si dice quando ci si vuol riempire la bocca di gnocchi sociologici: il discorso è “meta”.
C’è tutto: umorismo a bizzeffe, un cast coi fiocchi (compreso il doppiaggio italiano), velocità e ironia, animazione fluida e inedita (la fisica dei mattoncini ipnotizza), spettacolare se si pensa che di cose come questa se ne son viste ben poche finora. Aggiungiamoci poi citazioni a go-go (il primo Lego Movie era molto Matrix/Signore degli Anelli, il secondo invece è tanto Guerre stellari), con una capacità di scrittura epica.
La storia si snoda su più livelli che nascondono, ma solo parzialmente, altri livelli e altri piani di lettura. Non è tanto il “metodo Pixar” di inserire qua e là un po’ di battute “adulte” per non far annoiare i genitori che accompagnano i bimbi al cinema. No, qui è proprio un progetto di costruzione dell’esperienza video pensata come una lasagna, dove ogni strato aggiunge gusto e sapore ed è funzionale alla storia finale.
«Niente di questo mondo ha senso», dice a un certo punto uno dei personaggi. Ma non è la chicca rivelatoria del film, che dopo È meraviglioso, la canzone pialla-cervelli del primo capitolo, si lascia andare a una straordinaria (e funzionale) nuova edizione che canta Non è meraviglioso con altrettanto vigore e intenzione.
I protagonisti sono loro. Emmet, Lucy e Batman. Si parte da dove avevamo finito la volta scorsa, anzi da cinque anni dopo: Bricksburg è diventata Apocalypseburg, molto più tosta, Mad-max-esca e survival, “edgy” insomma. E l’incontro-scontro con il mondo della sorellina del protagonista, oltre al passare degli anni, ha reso tutto molto più complesso e conflittuale. Cosa può succedere?
Nello svolgersi della trama – che ovviamente qui non viene anticipata – valgono regole che sono come i principi della geometria euclidea. Quanto più folle e surreale, non-sense l’universo evocato, tanto più bisogna che la scrittura sia gestita e portata avanti come un teorema matematico. E le regole di fondo ci sono tutte: l’approccio del maiale (nella storia non si butta via nulla), la pistola di Checov (quel che mostri all’inizio poi deve essere usato, altrimenti non ha senso e va tolto), la lezione dei fratelli Marx (andare oltre il senso per il puro gusto di farlo, senza secondi fini), la lente lacaniana per la lettura della storia (perché il montaggio rende il cinema un gemello astrale del sogno), la legge della crescita (la storia evolve dalle sue premesse del primo capitolo in modo naturale) e l’essenzialità universale dei sentimenti.
Quest’ultimo punto è fondamentale: tutto il film, non importa quanto surreale, cosmico, folle, sarabandesco o corale sia, racconta una storia basata su conflitti emotivi universali e perfettamente comprensibili dalla totalità degli esseri umani, anche senza aver mai visto un mattoncino di lego prima. Non è una cosa banale, a ben guardare.
La parte finale, dal punto di vista dei pesi e della struttura, poteva essere un filo più veloce. Ma c’è talmente tanto cinema, talmente tanta vita, talmente tanta voglia di divertire e di stupire, che ci sta. Anche perché questo è un film corale, ancora più del primo, il cui centro – in maniera non troppo distante dal film di Lego Batman – è il concetto della collaborazione, dello stare assieme. I personaggi sono tanti, sono vivi, sono ognuno funzionale a qualche parte della storia: una scrittura così fluida e naturale è favolosa, visto che ci possiamo immaginare i chilometri di storyboard realizzati e cambiati mille volte prima di arrivare alle sequenze finali.
Un film da vedere, in conclusione. E se vi vergognate perché non avete più l’età e non avete bambini, offritevi volontari per portare quelli di qualche parente. Vi ringrazieranno tutti, grandi e piccini.