Stan Lee pensava più in grande. Così in grande che a diciassette anni, sul soffitto di una scuola newyorchese, dipinse la scritta “Stanley is god”. Gli imbianchini che stavano ritinteggiando la redazione dal giornalino scolastico Magpie avevano dimenticato lì una scala. Stanley ci si arrampicò e scrisse quella dichiarazione perentoria senza uno scopo preciso, lo fece e basta. Forse trovava divertente giocare con le parole, forse era un compiacimento immediato per il suo ego. “Stanley è dio”. Suona un po’ retorico, profetico, egocentrico. D’altro canto, la sua carriera avrebbe scatenato la stessa reazione che la scritta doveva aver provocato a chi avesse alzato gli occhi al soffitto nella redazione del Magpie. Suonare un po’ retorica, profetica, egocentrica. Dubito che Jack Kirby fosse a conoscenza dell’aneddoto quando, intervistato dal Comics Journal una vita dopo, disse «Stanley ha il complesso di Dio».
Il diciassettenne di nome Stanley che scrisse di essere Dio non sapeva che, negli anni Sessanta, sarebbe diventato un perno del nostro immaginario, creando per la casa editrice Marvel Comics alcuni tra gli eroi più famosi della Storia. Super-icone diventate tali non perché fossero più potenti o sgargianti, ma perché erano più vulnerabili degli altri eroi, con gli stessi problemi che affliggevano i lettori e, in più, quelli derivanti dal condurre una vita a doppia identità. Nessuno, prima di Lee, Kirby e Steve Ditko – i tre si spartiscono la paternità di Spider-Man, Hulk, Thor, Iron Man, Dottor Strange, gli X-Men, gli Avengers e i Fantastici Quattro – aveva concepito i supereroi come un genere che poteva essere affrontato con intenzioni serie, trattando la materia senza il sorriso di sufficienza che era stampato in volto a quasi tutti i professionisti del settore.
Non sapeva nemmeno che sarebbe diventato un editor lungimirante, i cui meriti come sceneggiatore non sarebbero mai stati del tutto chiariti. Il metodo di lavoro impiegato alla Marvel avrebbe lasciato ampio spazio di manovra ai disegnatori nell’elaborazione della storia e questi, in seguito, avrebbero preteso il credito – economico o morale – che Lee aveva “sottratto” loro. A scapito della fama altrui, Stanley si sarebbe costruito un’immagine pubblica fortissima. Avrebbe riempito le pagine dei fumetti e quelle che ci stavano in mezzo, dando colore ai redazionali con la sua voce accogliente e entusiasta, facendo percepire il gruppo di lavoro dietro a ogni albo come una banda di circensi di cui Lee era il carismatico cerimoniere. Avrebbe ricoperto il ruolo per quasi tutta la sua vita e agli occhi del pubblico sarebbe sempre stato lì, a dirigere gli artisti, i clown, i mangiafuoco e le ballerine, anche quando la banda ormai rispondeva a un altro ringmaster.
Salendo su quell’impalcatura, tutto ciò che Stanley sapeva era che la sua infanzia non era stata delle più felici. Vide il mondo prima di lui, non granché colorato, e decise di fare ciò che lo avrebbe definito da adulto. Decise di aggiungerci del suo.
Stan prima di Lee
La porta si aprì come un fumetto sfogliato dal vento e sulla soglia si materializzò un giovanotto che diceva di chiamarsi Stanley Martin Lieber. Classe 1922, era lì per chiedere un lavoro al marito di sua cugina Jeanie, editore della casa editrice Timely Comics. Qualcosa gli avrebbe rimediato, a lui che alla soglia dei diciassette anni aveva già raggranellato i lavori più disparati. Fattorino, maschera in un teatro di Broadway, autore di necrologi, copywriter per un ospedale ebraico a Denver, illusionista conosciuto con il nome d’arte di Thimbilini (perché nei suoi trucchi usava i “thimbles”, i ditali). Alternava gli impieghi ai doveri scolastici, pur di aiutare la famiglia. La Grande Depressione aveva lasciato senza lavoro i genitori Jacob, sarto, e Celia, commessa in una drogheria, e le giornate colavano lente come miele. Il padre inchiodato al tavolo della cucina cercando annunci sul giornale, la madre sempre più insofferente nei confronti del marito. C’era anche un fratellino a cui badare, Larry, di nove anni più piccolo.
Quando lanciava lo sguardo fuori dalla finestra questo rientrava rimbalzando sul muro dell’edificio davanti al loro appartamento di Washington Heights. Non gli era concesso nemmeno uno scorcio sulla vita di strada, nessun amico con cui svagarsi o campeggio da frequentare. L’unica forma di escapismo erano i film di Errol Flynn, la radio e le letture di romanzi d’avventura, che spesso la madre gli chiedeva di leggere ad alta voce per lei. Quelle piccole messinscene allentavano la pressione della disciplina ferrea imposta dal padre e soddisfacevano il suo carattere esuberante.
Gli piaceva scrivere (un po’), lo affascinava la scrittura come strumento di vendita, come prodotto collaterale più che come fine ultimo, ma gli piaceva anche recitare e stare al centro dell’attenzione (tanto). Lo attiravano il ritmo delle parole e disegnare, anche se non si faceva illusioni di poter lavorare nei fumetti. E nemmeno ci fantasticava tanto: i fumetti nella giovinezza di Stanley erano ristampe di vecchie strisce come Mutt and Jeff che non reggevano il paragone con le attrattive immaginifiche dei film o dei romanzi. Al liceo collaborò con la rivista letteraria della scuola, Magpie, occupandosi del marketing e delle pubbliche relazioni. Facendosi ispirare da un ragazzo della scuola, John J. McKenna Junior, che girava per le classi a vendere abbonamenti al New York Times, iniziò a fare lo stesso per l’Herald Tribune. «Il modo in cui parlava lo faceva sembrare sicuro di sé, senza imbarazzi. Era un bravo venditore» ricorda Lee, che intanto era passato dalle letture ad alta voce per la madre alle arringhe in pubblico. «Pensai, ragazzi, sarebbe bello andare in giro e parlare come lui.»
Come raccontare una storia, Lee lo sapeva bene. La voce che preferiva era quella del narratore inaffidabile. Raccontava le cose dal suo punto di vista, le deformava, per malizia o semplice dimenticanza. «Ho sempre avuto una pessima memoria» è il refrain che gli si sente dire più spesso ed è la motivazione che usa per giustificare le eventuali lacune o incongruenze nelle sue reminiscenze. Negli anni ha dichiarato, ribadito, smentito se stesso. Ogni particolare della sua esistenza è allo stesso tempo scolpito su pietra e dipinto sulla sabbia.
«Avevo finito il liceo e volevo entrare nel mondo dell’editoria» dirà nel 2000, raccontando come arrivò a lavorare per la Marvel, all’epoca conosciuta come Timely Comics. «C’era questa offerta per un posto di assistente in una casa editrice e quando seppi che pubblicavano fumetti pensai “Be’, starò lì un po’ per fare esperienza e poi andrò nel mondo vero”». Due anni dopo, nell’autobiografia Excelsior! The Amazing Life of Stan Lee scrisse invece che fu lo zio Robbie Solomon a consigliargli di fare domanda alla Timely, il cui editore, Martin Goodman, era sposato con la cugina di Stanley, Jeanie. «Mi disse che avrebbero potuto aver bisogno di qualcuno nella casa editrice dove lavorava. L’idea di entrare nel mondo dell’editoria mi attraeva.» Joe Simon, in The Comic Book Makers, avvalla quest’ultima versione, ma fornisce dettagli diversi: «Un giorno Robbie venne al lavoro portandosi dietro questo diciassettenne dinoccolato. “Questo è Stanley Lieber, il cugino della moglie di Martin” disse Robbie. “Martin vuole che lo teniate occupato”».
Nella sua autobiografia, Lee cita un altro momento fondamentale della sua vita: un concorso indetto dal New York Herald Tribune che premiava i migliori saggi scritti dai ragazzi delle superiori. Indetto nella primavera del 1936, il concorso “The Biggest News of the Week” invitava gli studenti a scrivere, in 250 parole o meno, quella che consideravano la notizia più significativa della settimana. Lee racconta di aver vinto il primo premio per tre settimane di fila. La sua bravura avrebbe costretto l’editor a contattare Lee per chiedergli di non partecipare più al concorso e lasciare la possibilità agli altri ragazzi di vincere, ma gli avrebbe anche consigliato di intraprendere la carriera di giornalista. Sulla carta, era l’epifania che serviva a Stanley per capire quale fosse il proprio posto nel mondo.
È una bella storia, ci sono i temi e gli elementi classici della narrativa – la figura paterna, un giovane promettente i cui talenti vengono riconosciuti e instradati – ma è inventata. Quantomeno, è fortemente distorta. Come dimostrano le ricerche di Jordan Raphael e Tom Spurgeon in Stan Lee and the Rise and Fall of the American Comic Book, Lee non ha mai vinto quel concorso. Negli archivi del giornale infatti nessun primo premio viene attribuito a Stanley Lieber, solo un settimo posto nella settimana del maggio 1938 e due menzioni speciali poco dopo.
Come il suo arrivo alla Timely, casuale e inaspettato (perché nessuna leggenda può iniziare con una raccomandazione), anche questo trascurabile evento di gioventù viene rimpacchettato per diventare il climax del primo atto, l’incidente scatenante, quello che porta l’eroe a intraprendere il suo viaggio nel mondo.
Stanley aveva diciannove anni quando nacque Stan Lee. Nel 1939, ottenuto l’impiego alla Timely Comics, riempiva le boccette d’inchiostro, consegnava i pranzi e rileggeva le bozze. Questi compiti saranno il dazio da pagare per potersi vedere pubblicato il testo in prosa Captain America Foils the Traitor’s Revenge, all’interno di Captain America Comics #3 (maggio 1941). Invece che firmarlo con il suo vero nome, scompose “Stanley” e creò il nome d’arte di “Stan Lee”. Quello vero, pensò tra sé e sé, era meglio tenerselo per firmare lavori importanti, opere letterarie di vero ingegno, non questa pseudo-letteratura per bambini. Stan Lee sarà l’autore di questa robetta, Stanley Martin Lieber quello del Grande Romanzo Americano, un libro epico che avrebbe fotografato un paese, una società, un tempo. Stanley si baloccava con le sue velleità letterarie, ma finirà che il Grande Romanzo Americano lo scriverà Stan Lee e si chiamerà Fantastici Quattro, Spider-Man e X-Men.
Prima di arrivare a quel momento ci sono vent’anni di attività che le cronache dimenticano. Lo fanno non per mancanza di notizie o per una qualche forma di ignoranza, ma perché la Storia di Stan Lee, il suo senso più profondo, sta altrove.
Diventato giovanissimo editor-in-chief dell’azienda, Lee vedrà il fumetto passare dall’essere una delle colonne portanti della cultura americana, con 143 titoli pubblicati e 50 milioni di lettori al mese, a nemico del buon gusto e poi di nuovo oggetto di culto della controcultura. Finirà sotto le armi, assegnato ai Signal Corps, la divisione dell’esercito addetta alle comunicazioni, scrivendo manuali, materiali informativi e poster per la prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili. Incontrerà a una festa Joan Boocock, una modella inglese con gli occhi blu e i capelli rosso fuoco che rimarrà affascinata da questo giovane scrittore capace di dichiararsi a lei davanti a un hamburger da Prexy’s con una poesia di Omar Khayyam. La donna, sposa di guerra, divorzierà dal marito e sposerà, a Reno, Nevada, questo venticinquenne con la mania per i guanti bianchi e i cappelli a “caciottella”.
Alla data cardine del 1961, l’anno di creazione dei Fantastici Quattro, vanno tolti un pugno di anni in cui, in maniera abbastanza indolente, Stan Lee arò il terreno per il proprio successo. Nel 1955 gli spettatori statunitensi videro la loro prima partita di baseball a colori (Dodgers contro Yankees) e il loro primo presidente, Eisenhower, in quadricromia. Erano gli inizi della televisione a colori e l’ennesimo chiodo sulla bara dell’industria fumettistica, dopo il polverone sollevato dallo psicologo Fredric Wertham, promulgatore di una caccia alle streghe contro i fumetti rei di deviare la psiche dei lettori con le loro storie piene di violenza. Le accuse di Wertham non toccarono direttamente i fumetti Marvel e Lee non era in alcun modo il volto pubblico della faccenda (l’onere spettò a William Gaines e alla sua EC, etichetta specializzata in fumetti horror che dovette chiudere). Nella sua autobiografia Stan dice di averci dibattuto (non è vero), ma è indubbio che l’intero settore risentì della cattiva pubblicità.
Per tagliare i costi di produzione dei comic book si ricorse a colorazioni spartane e vennero abbassate le tariffe dei disegnatori, costringendo molti professionisti a cercare altri ingaggi. I fumetti divennero sciatti e persero il loro potenziale visivo, proprio nel momento di maggior bisogno. La crisi vera arrivò quando il fallimento del distributore American News Company, a cui si era da poco affidata l’azienda di Goodman, fece convergere l’editore verso Independent News, che già gestiva le pubblicazioni DC Comics. Independent News pose il veto sul numero di titoli che avrebbe distribuito, limitandoli a otto. Data l’esigua quantità di materiale da scrivere e disegnare, Goodman disse a Lee di licenziare gran parte dello staff. L’editor chiamò a uno a uno i vari collaboratori nel proprio ufficio per comunicare loro la notizia. Un contabile ricorda che, dopo ogni licenziamento, Lee correva in bagno a vomitare.
Il Sorridente immaginava che, malgrado la parentela, Goodman avrebbe lasciato andare anche lui e cercò vie di fuga da un settore sull’orlo del tracollo. «Si affannava a diffondere il proprio talento al di fuori dei fumetti. Avevamo tutti un piano B in caso i fumetti fossero diventati verboten» ricorda Al Jaffee, storico nome di Mad che lavorò alla Marvel in gioventù. Il piano B di Stan – e di molti altri colleghi – erano le strisce. Pagavano bene e assicuravano una fonte di lavoro fisso. Tanti furono i tentativi, il più fruttuoso dei quali restò Mrs. Lions’ Cubs, una strip sulle avventure di un gruppetto di scout disegnata da Joe Maneely.
Maneely era un disegnatore apprezzato per la qualità dei suoi lavori e la velocità con cui li produceva. Lee lo considerava uno dei suoi preferiti, nonché un amico. Uscivano spesso insieme a bere o a fare serata con le rispettive mogli. Secondo Lee, sarebbe potuto diventare un altro Jack Kirby, addirittura migliore. Una sera del giugno 1958, Maneely era di ritorno da una cena con alcuni colleghi. Aveva dimenticato gli occhiali a casa. A metà del tragitto, sul treno che l’avrebbe riportato a casa nel New Jersey, uscì tra due vagoni per prendere una boccata d’aria, mise male il piede e cadde sui binari.
La morte di Maneely spense i sogni di gloria di Lee, le sue idee per le strisce continuavano a venire rifiutate e comunque lavorare senza Maneely non sarebbe stata la stessa cosa. Rimase in Marvel, che nel frattempo aveva cambiato nome per la terza volta (dopo Timely Comics e Atlas), e assemblò un gruppo di lavoro, partendo da Ditko, Kirby, Don Heck e Paul Reinman. Kirby prese il posto di Maneely come suo disegnatore di riferimento.
Stan Lee, Jack Kirby e la nascita dell’epopea
I due arrivavano con atteggiamenti diametralmente opposti. Stan Lee era stanco e restio a rimanere nel settore. Nei vent’anni precedenti non aveva fatto altro che seguire le mode. Aveva varato fumetti romantici, thriller e western, nulla che valesse la pena di essere riletto o salvato per i posteri e gli anni Sessanta saranno l’apice indiscusso della sua produzione. Kirby, invece, in quegli stessi generi aveva lasciato il segno: alcuni li aveva creati, altri rivitalizzati, dando ottime prove e lasciando un corpo di lavori meritevoli di studio. Per lui sarà un momento come un altro di grande ispirazione, «un gioioso pomeriggio in un lungo giorno di fumetti» scrivono Raphael e Spurgeon.
Si presentava così, con vent’anni di esperienza, una manciata di collaboratori e una ripresa delle vendite che faceva ben sperare, alla nascita di una nuova era. Come tutto ciò che di importante riguarda Lee, l’episodio è avvolto dall’apocrificità: a un incontro di golf con la concorrenza, Goodman sarebbe venuto a sapere del successo della Justice League of America e avrebbe incaricato Stan Lee di scrivere una serie con un team di supereroi. Lee si sarebbe detto stanco delle restrizioni di Goodman, avrebbe voluto scrivere altro o lasciare la Marvel, dopo anni passati a mettere in piedi personaggi di poco conto. La moglie di Lee, Joan, lo avrebbe ispirato a scrivere un fumetto «a modo tuo, perché tanto la cosa peggiore che potrebbe succederti è che ti licenzino, ma tu te ne vorresti andare comunque».
Il risultato fu The Fantastic Four, realizzato insieme a Jack Kirby. Uscito nell’estate del 1961, arrivò pochi mesi dopo la missione di Jurij Gagarin, il primo uomo ad andare nello spazio. Anche se Gagarin non era stato investito dai raggi cosmici, la premessa da fantascienza speculativa di un gruppo di persone che va nello spazio e torna per raccontarlo era più in sintonia con i lettori dell’ennesimo cowboy pistolero.
L’albo sgretola le convenzioni del genere supereroistico. I Fantastici Quattro sono una famiglia disfunzionale che resta unita nonostante le tensioni interne (il senso di colpa di Reed per aver causato l’incidente che ha trasformato l’amico Ben Grimm in un mostro, l’irrequietezza adolescenziale di Johnny Storm, la situazione tragica di Ben). All’inizio non hanno costumi e quando iniziano a indossarli non si nascondono con delle maschere, la loro identità è conosciuta, sono eroi reali, vivono a New York e hanno una forte connessione con il tessuto cittadino. «Quello che mi piaceva della Marvel, più della DC, era il fatto che Stan trattava i Fantastici Quattro come persone» dice Chris Claremont. «Facevano cose da supereroi, certo, ma non erano Mr. Fantastic, la Ragazza Invisibile, la Cosa e la Torcia Umana. Erano Reed, Sue, Ben e Johnny. Erano persone, avevano desideri, ambizioni, paure».
L’anno dopo toccò all’Uomo Ragno, un altro supereroe atipico: Peter Parker è un adolescente a cui vanno tutte storte e la cui trasformazione in eroe non migliora affatto la vita, anzi, la complica. Anche quando vince, l’Uomo Ragno perde, perché per sconfiggere un criminale ha saltato un appuntamento importante o non è potuto stare accanto alla zia malata. Mai prima d’ora a un ragazzino veniva concesso un ruolo di spessore che andasse oltre la spalla dell’eroe principale. Se eri un adolescente nei fumetti, il massimo a cui potevi aspirare era la tutina da saltimbanco di Robin.
E poi Hulk, un concept merlettato di influenze della tradizione ebraica (il Golem) e della letteratura gotica (Frankenstein, Notre-Dame de Paris, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde), i conflitti interiori degli X-Men, il ritorno di Capitan America, tutte storie innervate dai temi politici e sociali dell’epoca, dalle questioni razziali alla quiete perturbante della Guerra fredda, passando per la paura della minaccia nucleare.
«I fumetti Marvel nascono già pronti a un’America multiculturale e multirazziale» ha scritto Daniele Barbieri in I linguaggi del fumetto, «isolamento ed emarginazione sono problemi sentiti fin dall’infanzia, e si riveleranno nei decenni successivi molto più adeguati di quelli della DC ad affrontare il cambiamento sociale».
Marvel parlava alle nicchie, agli emarginati, agli adolescenti, a chi non si vedeva mai rappresentato. DC Comics, regina delle vendite, iniziò a vedere la propria fetta di mercato assalita dalla rivale e tentò di studiarne le strategie editoriali, analizzando le copertine, la carta, i colori, i loghi e il design, senza comprenderne la reale forza. Jim Shooter, che lavorò da adolescente per la DC e poi in Marvel, diventandone uno dei più famelici editor-in-chief, dirà che: «In DC pensavano che i fumetti Marvel avessero più successo perché erano disegnati rozzamente, come li avrebbe disegnati un bambino. Dicevano “Magari dovremmo iniziare a disegnare peggio”».
I supereroi Marvel, quelli immediatamente associati da tutti al concetto di fumetti e che con la loro stazza fagocitavano un’espressione artistica intera, fecero capire alle persone non addentro al settore che con balloon e vignette si potevano anche raccontare storie di tumulti adolescenziali, morte o dipendenze e che non tutti gli albi dovevano finire con una scazzottata tra Batman e un gorilla bombarolo.
Il metodo Marvel
Una troupe tedesca una volta riprese la sessione di scrittura nella stanza degli autori dei Simpson. Il regista voleva che tutti si comportassero come se non ci fossero telecamere, per catturare l’essenza del processo creativo. Gli sceneggiatori accettarono. Dopo dieci minuti di silenzio, qualcuno propose una possibile battuta per Marge, un autore rispose con un mormorio. Trascorsero altri minuti prima che qualcuno prendesse la parola. Il regista chiese allora se potevano muoversi un po’, forse perché si aspettava di filmare la frenesia che avviluppava la redazione del Dick Van Dyke Show. Inscenare brainstorming e dietro le quinte energetici era una pratica all’ordine del giorno. Nessuno voleva far sapere che l’atto della creazione era un gesto banale.
Nel dicembre 1965 Stan Lee fece la stessa cosa quando il giornalista Nat Freedland del New York Herald Tribune visitò la Marvel per scriverci un articolo. Casualmente, Freedland assistette a una riunione tra Lee e Kirby in cui discutevano di un numero de I Fantastici Quattro. Stan Lee saltava sul divanetto, era un fiume in piena di parole, mentre Kirby se ne stava seduto ad annuire e a dire solo «grandioso». Freedland rimase affascinato da quel fuoco d’artificio umano, mentre a Kirby dedicò poche, meste parole: «Un uomo di mezza età con le borse sotto agli occhi e un largo vestito alla Robert Hall. Tiene in bocca un grande sigaro verde e se te lo ritrovassi seduto di fianco in metropolitana lo scambieresti per il vicecaporeparto di una fabbrica di cinture».
Se l’aveste chiesto a Stan Lee, vi avrebbe risposto che non ha mai nascosto nulla e che tutto quello che è successo è successo perché le persone hanno cominciato a travisare i suoi discorsi, che tutto quanto è stato male interpretato, che non aveva potere su quello che avrebbe scritto il giornalista. Vi avrebbe detto che lui aveva provato a proteggerli, i propri disegnatori, offrendo a Kirby il ruolo di art director dell’azienda, non una, due volte, vi avrebbe detto che avete ragione, che lui non può farci nulla, ma nel frattempo armato del sorriso di circostanza vi avrebbe sussurrato che ai miti della creazione serve un diavolo.
La lavorazione in stile Marvel prevedeva lo sviluppo completo da parte del disegnatore di una breve sinossi fornita dallo sceneggiatore, il quale tornava poi sulle tavole complete per aggiungere i dialoghi. Lo stesso Lee ha confermato che Kirby, Ditko e gli altri a volte disegnavano una storia sulla base di una vaga indicazione («L’Uomo Sabbia rapisce Mary Jane», «Dottor Destino ruba la tavola di Silver Surfer»). Il cosiddetto “metodo Marvel”, che Stan Lee iniziò a utilizzare quando gli albi da scrivere presero a contendersi il tempo che avrebbe dovuto dedicare ad altre mansioni, rendeva fumosa l’assegnazione dei crediti. Negli albi realizzati con il metodo Marvel, Lee deteneva saldo il controllo dei testi e al disegnatore di turno venivano attribuiti soltanto le matite.
Capire di chi sono i meriti sarebbe un esercizio deduttivo vano, e le posizioni critiche occupano tutto lo spettro: troverete fonti pronte ad assicurarvi la totale estraneità a qualsiasi input creativo da parte di Stan, altri vi diranno che Lee contribuiva in modo fondamentale al prodotto finale, altri ancora sono convinti che i fumetti Marvel fossero il parto di due menti che viaggiavano parallele e non si incontravano mai. John Romita rammenta di un viaggio in macchina con Lee e Kirby in cui ognuno stava esponendo la propria idea di una storia e ogni loro concetto non teneva conto di quanto appena detto dall’altro. E non ci sono testimonianze scritte che districhino la questione (o se ce ne sono, come nel caso della sinossi di Fantastic Four #1, è impossibile stabilire se quei testi fossero stati preceduti da colloqui orali con il disegnatore).
Se il concept dei Fantastici Quattro per alcuni non è che una rielaborazione da parte di Kirby della serie realizzata per DC Comics nel 1957 Gli esploratori dell’ignoto, è evidente che le avventure del Quartetto fossero innervate dall’umorismo di Lee, una caratteristica che a Kirby è sempre mancata. Che le avesse scritte di proprio pugno o meno, a quelle pagine disegnate Lee doveva aggiungerci i dialoghi cercando di dare senso alla successione delle vignette, come un enorme cruciverba senza definizioni. Poteva non concordare con le svolte prese, quindi modificava gli snodi che riteneva deboli tramite tozze didascalie o dialoghi rifioriti e, quando la situazione lo richiedeva, mandava indietro le tavole per farle ridisegnare.
Nella storia dei Fantastici Quattro Panico al Baxter Building, Kirby aveva messo in scena un Dottor Destino impossibilitato a usare le mani, perché ferite nella precedente avventura, e costretto a utilizzare un macchinario per intralciare il matrimonio di Reed e Sue. Nella versione finale, riveduta da Stan Lee, la nota di Kirby («Destino straccia un foglio. Gli fanno male le mani, questo lo fa arrabbiare ancora di più. Medita vendetta») viene stravolta: nella riscrittura di Lee, Destino usa la macchina perché desideroso di compiere un attacco in grande stile che cancelli le umiliazioni subite.
Ancora: l’idea che Lee si era fatto di Goblin, l’arcinemico dell’Uomo Ragno, era parecchio bislacca. «Stan mi scrisse di questa troupe cinematografica alla ricerca di una location che trova un sarcofago egiziano» racconta Steve Ditko in The Comics, A Mini-History #1. «All’interno, un antico demone mitologico, il Goblin. Stravolsi l’idea perché un demone mitologico avrebbe reso il mondo di Spider-Man metafisicamente impossibile». Stan, nel ruolo che più gli si confaceva di editor, non si oppose alla trovata e seguì l’intuizione di Ditko. Altri – come il temibile editor DC Mort Weisinger, passato alla Storia per i modi draconiani – non avrebbero fatto altrettanto.
Nel 1989, in un’intervista a Gary Groth sul Comics Journal, Kirby arriverà a dire che Lee non aveva in alcun modo contribuito alla realizzazione degli albi. Lo stesso Groth si vedrà costretto, anni più tardi, a contestualizzare le parole di Kirby su The Jack Kirby Collector #19: «Quando Jack dice che Stan non ha mai scritto nulla, è vero dal suo punto di vista, perché Jack ha sempre considerato che dettare il ritmo, disegnare e annotare i margini fosse scrivere. Credo che rifletta molta dell’amarezza che Jack covava». Era chiaro che Kirby stesse offrendo una versione distorta dei fatti. La moglie Roz dirà: «Se Stan Lee può mentire, anche noi possiamo». Lee rinuncerà a intraprendere vie legali. «Non voglio peggiorare le cose» disse a Greg Theakston nel libro Jack Magic. «Gary Groth avrebbe dovuto saperlo. Farei causa a lui ma dovrei coinvolgere i Kirby, quindi me ne lavo le mani».
Roland Barthes potrebbe correre in aiuto di Stan Lee dicendo, come fa in Il brusio della lingua, che la questione della paternità è irrilevante, che le parole sono già cariche di significato da non aver bisogno di un autore che le legittimi. Un’opera sarebbe il prodotto culturale di una comunità, delle infrastrutture in cui ha preso vita, della cultura conservatrice a cui l’opera reagisce. Quel Batman che combatteva contro il gorilla bombarolo, i pessimi esempi di comic book, Martin Goodman, sarebbero tutti autori di Spider-Man e degli X-Men tanto quanto Lee, Ditko e Kirby.
Tuttavia il problema non si è generato cercando di capire chi avesse realizzato cosa bensì enfatizzando il contributo di alcuni a scapito di altri. La nomea di Lee risiede nel malinteso, incentivato o lasciato perpetrare dal Sorridente in anni di interviste, che l’unico padre di quei supereroi fosse lui. Gli si recriminava che la sua immagine avesse oscurato il lavoro dei disegnatori e che gli avessero riservato un trattamento immeritato. Quando gli eredi di Kirby fecero causa alla Marvel, nel 2010, Stan Lee fu chiamato a testimoniare e fornì l’ennesimo racconto delle origini dei personaggi. Sono deposizioni giurate, ma leggerle non vi porterà più vicini alla verità di quanto un volo di linea vi avvicinerebbe al centro dell’universo.
D’altronde, si pretendono i particolari di quello che era un lavoro come tanti, come lo era stato nei decenni precedenti, passati a scarabocchiare fumetti di poco conto di cui nessuno ricordava l’esistenza. Sono dettagli impossibili da recuperare a posteriori, perché quel lavoro non era diverso da quello del giorno prima o del giorno dopo. E il vostro continuo ritornello «non è che me lo ricordo granché» (o, nel caso di Stan Lee in sede giudiziaria, «c’era bisogno di creare un personaggio che fosse diverso», risposta proferita allo sfinimento) è molto poco appetibile per chi vi intervista. Capace che la prossima volta eviteranno di chiamarvi e il vostro successo scemerà in favore di qualche altro imbonitore pronto a infiocchettare una storia notiziabile.
La sua pessima memoria una volta lo portò a dire a Roy Thomas, in risposta a una serie di domande sui suoi anni in Marvel, «è difficile per me ricordare specificatamente ogni evento particolare o perché è successo». È certo che, quello che si ricordava, Stan lo ribadiva a ogni intervista o apparizione, rimanendo coerente con la sua verità. Il problema è che pochissime di queste versioni coincidono con quelle fornite dagli altri narratori. Stan Lee citò i protagonisti di Frankenstein e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde come modelli per Hulk, mentre Jack Kirby raccontò, in maniera più semplicistica, di essersi ispirato a una donna che aveva alzato un’auto per liberare il figlio. «Realizzai immediatamente che in momenti di disperazione siamo capaci di tutto. Possiamo sfondare muri e abbattere case»; nel libro Son of Origins of Marvel Comics Lee scrisse di aver creato Daredevil basandosi su Duncan Maclain, detective cieco protagonista di una serie di romanzi scritti da Baynard Kendrick. Bill Everett dichiarò invece che, quando lo convocò, Lee aveva deciso per il personaggio soltanto il nome. Fu la primogenita di Everett, Wendy, legalmente cieca ma con un udito ipersviluppato, a ispirargli il personaggio. Randy, l’altro figlio di Everett, lo consigliò invece sul costume, prendendo le mosse da quello di Batman.
Stan era lo sceneggiatore, ma ero io che mi facevo venire in mente la gran parte delle idee. Arrivammo a un punto in cui gli dissi che se davvero era lo scrittore, avrebbe dovuto fornirmi delle trame. Restammo seduti alle rispettive scrivanie, uno di fronte all’altro, in silenzio.
Wally Wood
Non una questione rilevante
Il momento buono per dargli contro non c’è mai stato perché quando gli autori avrebbero voluto, al pubblico non interessavano queste beghe (e la spinta mediatica di una narrazione con buoni e cattivi che cavalchi un tema è cruciale). Nel 1986, il notiziario 20/20 dedicò un servizio al 25° anniversario della Marvel raccontando le origini dei personaggi principali e attribuendone il merito a Stan Lee. Né Ditko né Kirby vennero nominati. Lo stesso successe nel 1992, quando il Washington Post pubblicò un profilo di 17.000 battute su Lee in cui i nomi dei due disegnatori comparvero una sola volta.
Era la prassi. Persino negli anni Duemila c’erano lettori a cui non importava: su Fantastici Quattro n. 243 un fan inviò una lettera per esprimere il suo disappunto verso una storia del Quartetto in cui i protagonisti conoscevano Dio, disegnato con le fattezze di Jack Kirby. «La sortita dei F4 in Paradiso è la trovata più demenziale dell’anno!» si legge nella missiva. «A me non importa sapere chi sia il vero inventore degli eroi Marvel; Lee o Kirby, non è una questione rilevante.»
Al cambio di secolo, quando sarebbe stato un contenzioso che la Marvel non avrebbe potuto mettere a tacere, gli autori non c’erano più e a quelli ancora in vita andare contro un personaggio affrancato presso il pubblico pareva una battaglia persa in partenza. «Quando parli con Stan Lee e lui riesce a evitare di interpretare il personaggio “Stan Lee”, è un essere umano per bene ossessionato da se stesso» diceva Mark Evanier. «È molto insicuro. Quelli di noi che si fanno problemi ad arrabbiarsi con lui per le cose successe nel passato lo fanno perché hanno visto il vero essere umano.»
Alex Pappademas riassunse il senso di impotenza in un pezzo per Grantland. L’occasione era l’uscita del documentario With Great Power: The Stan Lee Story, un santino ciondolante sul cruscotto di qualche nerd-mobile. Pappademas aveva l’opportunità di mettere all’angolo Lee, di fargli qualche domanda ficcante, spiazzarlo, imbarazzarlo, irritarlo. Qualsiasi reazione sarebbe andata bene in nome di una rivincita. Non fece nulla, perché sapeva come sarebbe finita. Lee si sarebbe limitato a snocciolare la sua routine per le interviste, il misto di salamelecchi e dribbling verbali, una transazione in cui le merci di scambio erano qualche frecciata che lo portava a dire di essere un genio e uno scalzacane nella stessa frase.
Di tutt’altro avviso era Jonathan Ross, popolare presentatore britannico nonché appassionato di fumetti che nel 2007 realizzò In Search of Steve Ditko, un documentario che raccontava la misteriosa figura di Ditko e che, per forza di cose, doveva affrontare anche Stan Lee e le origini del loro personaggio più noto, l’Uomo Ragno.
A metà degli anni Sessanta, il co-creatore dell’Uomo Ragno Steve Ditko aveva abbandonato la casa editrice senza fornire spiegazioni. «È un tipo peculiare» disse Lee nel 1966, parlando con gli studenti della Princeton University. «Dotato di un grande talento ma… un po’ eccentrico. Un giorno ha telefonato dicendo “Basta, me ne vado” e così fu.»
Nel 2015, in uno dei suoi fumetti autoprodotti, Ditko spiegò che si era stancato di «realizzare tutti quei fumetti e storie originali per un uomo troppo spaventato e arrabbiato per qualcosa da non voler nemmeno vedermi o parlarmi. L’unica persona che aveva il diritto di sapere perché me ne stavo andando si era rifiutata di uscire dal suo ufficio per discuterne. Stan si rifiutò di sapere il perché».
Tra gli anni Ottanta e Novanta, se la relazione con Kirby poteva dirsi conclusa, quella con Ditko era sul punto di riaprirsi. L’allora editor-in-chief della Marvel Tom DeFalco aveva convinto Ditko a farsi coinvolgere in un nuovo progetto con Stan. Ravage 2099 sarebbe stata la serie che li avrebbe rivisti insieme come team creativo. Le cronache raccontano che, durante il meeting organizzato da DeFalco, la conversazione si era mantenuta cordiale e amichevole. Ravage 2099 vide la luce senza l’apporto di Ditko, che non condivideva i sottotesti filosofici della serie, ma almeno una delle coppie artistiche più famose dei fumetti aveva trovato una closure.
Poi le brutte abitudini rovinarono tutto, di nuovo. Nel 1998, Lee scrisse per il Time un elogio funebre di Bob Kane. La rivista presentò Lee come unico creatore di Spider-Man. Ditko lo scoprì e chiese al Time di rettificare l’errore, cosa che la testata fece. Ma a Stan la specifica non andò giù. Chiamò Ditko per dirgli come la pensava, cioè che solo chi ha avuto l’idea originaria per un personaggio può definirsi il suo creatore. «Avere un’idea non significa niente, perché fino a quando non diventa qualcosa di concreto, resta solamente un’idea» gli rispose Ditko.
«Steve era davvero convinto di essere il co-creatore di Spider-Man» spiegò Lee. «Quando lo disse, mi resi conto che per lui il fatto di averlo disegnato significava molto. E così gli dissi: “Okay, dirò a tutti che sei il co-creatore”.» In un memo aziendale fatto circolare nel 1999 Stan dichiarò, con uno studiatissimo panegirico a prova di tribunale, di «considerare» Ditko come il co-creatore dell’Uomo Ragno. Il disegnatore si impuntò sul termine “considerato”, che «non significa ammettere, sostenere o dichiarare che Steve Ditko sia il co-creatore di Spider-Man». Non ci furono ulteriori chiarimenti e ognuno dei due proseguì sulla propria strada.
Stan ha più volte ribadito questa visione dei fatti. Nella sua autobiografia. Nella conversazione Stan Lee – Mostri e meraviglie con un genuflesso Kevin Smith tutto assensi e continui “ah-ah”, “right”, “sure”. E di fronte a un più dubbioso Jonathan Ross nel documentario In Search of Steve Ditko. Lo schema è lo stesso di ogni sua intervista: elenca le creazioni degli anni Sessanta, i Fantastici Quattro, Hulk, gli X-Men, per poi concludere con una battuta megalomane: «E ovviamente il settimo giorno mi riposai».
Questa volta, però, invece dei tappeti rossi e delle spallate amichevoli di Smith, c’era il contraddittorio di Ross ad attenderlo. Il presentatore gli chiese di approfondire la questione di Spider-Man. Questa storia Ross già la conosceva, ma se la fece ripetere per uso e consumo dello spettatore. Finito il racconto, insistette chiedendogli se lui personalmente considerasse Ditko l’altro genitore dell’Uomo Ragno. Lee restò in silenzio per un momento che durò in eterno. Dentro quel breve tentennamento ci furono anni di rapporti lavorativi, titubanze legali e preoccupazioni relative all’immagine pubblica. Poi cedette. Parlò a denti stretti e voce bassa, togliendosi la maschera del Sorridente. Vederglielo fare, dopo una vita di interviste con il piede premuto sul pedale dell’entusiasmo, è quasi inquietante.
ROSS: Tu pensi che Ditko sia il co-creatore del personaggio?
LEE: Sono disposto a dire che è così.
ROSS: Non è quello che ho chiesto.
LEE: No, ma è il miglior risposta che ti potrò dare.
ROSS: Quindi è un no.
LEE: No, penso davvero che chi ha l’idea di qualcosa possa definirsene il creatore. Immagini qualcosa e la fai disegnare a chiunque.
ROSS: Ma se fosse stata disegnata diversamente non sarebbe stata di successo, forse.
LEE: E allora avrei creato qualcosa che non ha avuto successo.
Se ne pentirà immediatamente («Me l’hai fatto dire tu, ora»), ma Stan Lee è convinto di essere l’unica persona a potersi legittimamente proclamare creatore del personaggio. Niente gli farà cambiare idea, men che meno la domanda di qualche gotcha journalist.
Una volta lo spiegò in riferimento alla serie tv A-Team: ci sarà anche stato uno squadrone di autori e tecnici a lavorarci sopra e a condurre le operazioni giornaliere, ma in apertura di ogni puntata la scritta «Created by Stephen Cannell» rendeva inequivocabile la paternità del prodotto. «Sarebbe legittimo affermare che Lee era il caddie dei suoi artisti» ha scritto Robert Fiore, tentando di invalidare l’argomentazione del fumettista. «Un caddie può guidare o fornire consigli, ma è il golfista che gioca la partita».
C’è un momento importante nella vita di ogni lettore di fumetti, cioè il rito di passaggio in cui si smette di credere in Stan Lee, o se non altro se ne ridimensiona il giudizio. Succede soprattutto se si inizia a leggere fumetti da bambini: si fa la conoscenza di questo Lee, il suo nome inizia a spuntare su tutti i fumetti su cui mettiamo mano, sia un’avventura dell’Uomo Ragno, di Hulk o dei Fantastici Quattro. Poco dopo arrivano i camei nei film, le interviste, i documentari. E, ragazzi, la sua parlantina e il suo entusiasmo perenne saranno anche irritanti, ma ne veniamo gasati come una bottiglia di seltz. La sua faccia diventa un volto riconoscibile, criogenicamente bloccato a quello di un eterno settantenne che nello stretto giro di un decennio aveva creato la mitologia moderna su cui si abbeverano le nostre fantasticherie. L’attaccatura dei capelli posticci che pare disegnata da Al Hirschfeld, gli occhiali a goccia, i baffi a spazzola, i pantaloni cachi e le sneaker bianche. Tutto immutabile nel tempo. E quando troviamo delle foto di lui da giovane, la differenza è talmente inconcepibile da non riconoscerne i lineamenti. Per la prima fase della frequentazione, Stan Lee è il padre dei nostri sogni, lui ha fatto il grosso del lavoro, lui è la Marvel. Come guardando un genitore, non gli troviamo difetti.
Se la conoscenza prosegue e il tempo si allunga, vengono a galla notizie, racconti bofonchiati o testimonianze gridate con fierezza da amici e colleghi di cui non siamo sicuri di volerci fidare. Dicono che Lee è un passacarte che si è appropriato del lavoro altrui, che non è per niente geniale. Lo vogliono al rogo, in sacrificio di tutti gli artisti a cui ha tolto fortuna e gloria. Cerchiamo conferme del contrario, neghiamo. Ci sembra ingiusto vedere imbrattata una figura che si era guadagnata la nostra fiducia. Continuiamo a cercare conferme.
Il tempo continua a slabbrarsi e la realizzazione che Stan Lee non era chi diceva di essere, non era chi sembrava essere, si cementa nella nostra coscienza. Siamo alla ricerca di qualcosa di buono in lui, qualcuno ci viene in aiuto, elencando i pregi, altri lo declassano a un imbonitore dalla bocca larga che si è trovato nel posto giusto al momento giusto e in seguito ha arraffato il possibile dalle fortune accidentali delle sue creazioni, quelle che lui stesso pensava troppo sciocche per poter durare oltre il tempo di una merenda. Smettiamo di guardare, abbiamo il fiammifero in mano ma preferiamo non divampare altri fuochi.
«Non darmi i convenevoli»
«Questo non significa che fosse senza talento» chiosa Joe McCulloch (The Comics Journal). «Basta guardare le cose prodotte insieme a Steve Ditko. Se paragoniamo Spider-Man al resto della produzione di Ditko appare chiaro che è abbastanza atipica. C’è un livello di frizzantezza nei dialoghi e un umorismo autoreferenziale che è tutto di Stan Lee. Quello fu un lavoro di vera collaborazione che non credo sarebbe diventato così popolare se l’avesse realizzato Ditko da solo.»
Stan voleva solo semplificare una situazione complicata. Era il suo stile. I fumetti che scriveva dovevano essere cristallini nell’esposizione, lapalissiani nello svolgimento ma non scontanti, semplici eppure non banali. Immediati, divertenti e imprevedibili a ogni pagina, per ventidue pagine al mese, ogni mese.
La narrazione di Lee e Kirby era paternalistica, erano informali ma mai allo stesso livello comunicativo del lettore, stavano un po’ più in alto, un po’ più distaccati dalla materia. Obbligati alla chiarezza, l’unico peccato capitale che non potevano commettere era rendere una situazione noiosa o confusa. Le loro letture giovanili erano simili, i grandi classici, la Bibbia e Shakespeare erano un potenziale suggestivo di archetipi narrativi che venivano semplificati attraverso una retorica iperbolica ed esagerata. Quando spiegava una scena d’azione Lee diceva sempre: «Portala all’estremo. Non darmi i convenevoli».
Lee, a differenza degli altri, si impegnò a introdurre nelle conversazioni lo stile, a dare una voce realistica e a far diventare rilevanti le battute tanto quanto lo erano le didascalie. Sapeva rendere una voce specifica: i tipi borghesi, i soldati e i burberi (Nick Fury, Ben Grimm). Non ha mai posseduto molti colori quando si trattava di dipingere donne o minoranze (la cui trattazione, per quanto lodabile all’epoca, era tutto tranne che informata dei fatti). Quando si prendono in mano i primi albi degli Avengers si nota la difficoltà di Lee nel diversificare le singole voci. Hank Pym e Janet van Dyne vengono utilizzati per battibecchi da screwball comedy, Thor ha la parlata arcaica, ma tutti gli altri personaggi sono scritti nell’unico modo che conosce Lee: figure autoritarie, brillanti e borghesi. Tony Stark, Reed Richards, Spider-Man quando ha addosso la maschera, sono emanazioni della stessa voce, all’epoca molto peculiari e per questo in difficoltà nelle variazioni. Un problema che riscontrerà quarant’anni dopo anche Brian Michael Bendis con il suo “bendis-speak”.
«Nessuno mi ha detto come si faceva, nessuno aveva rispetto per i fumetti. Era l’ultimo gradino della scala creativa», ricorderà Lee. E gli editori di fumetto quando assumevano non si preoccupavano certo delle credenziali. Bastava essere in grado di mettere in fila una parola dietro l’altra e non costare molto. Non c’è spazio né tempo per lo sviluppo di temi o personaggi quando il termine per consegnare la sceneggiatura è ieri. Lee lavorava improvvisando, gettando i binari poco prima che passasse il treno. Un incipit semplice, che permettesse il maggior numero di improvvisazioni possibili, così da poter riempire le pagine della storia.
Era veloce. Scriveva due o tre storie a settimana, non perché avesse irruenza creativa ma per l’impazienza di dover passare altro tempo su sceneggiature di bassa lega: «Tutto quello che scrivo, di solito lo termino in una sessione. Sono veloce. Magari non il migliore, ma il più veloce. Scrivere è un’azione solitaria, cerco di terminarla prima possibile».
Al Jaffee ricordò di essere rimasto impressionato dal furore di Lee. «Non importava quanti titoli gli venissero affidati all’ultimo minuto, riusciva sempre a consegnare in tempo. Mi torna in mente la prima volta che fui convocato per una riunione sulle copertine, ero editor associato all’epoca e supervisionavo venti serie. Pensai che ci sarebbe voluta una giornata intera. Stan disse “Leggi i titoli uno a uno”. Iniziai e lui sfornò idee più velocemente di quanto potessi abbozzarle. In meno di mezz’ora avevamo le venti copertine».
Più che come sceneggiatore, Lee si fece notare nel ruolo di editor assertivo e promoter dell’azienda. Durante i suoi anni come editor-in-chief, e poi come editore, la sua preoccupazione maggiore era distinguere i prodotti Marvel da quelli della concorrenza. Attraverso trame e disegni ma soprattutto con gli aspetti paratestuali, come la progettazione delle copertine, arrivando a produrre uno schizzo per il disegnatore. Dove mettere le scritte, i balloon, che composizione usare, quali colori adoperare.
Il contributo su cui è impossibile nutrire dubbi è il circo che Lee costruiva attorno a ogni uscita. Gli altri editori offrivano un albo, Stan un posto in prima fila allo spettacolo della creazione fumettistica.
L’idea era di raccontare in una pagina di dispacci e resoconti la vita giornaliera della redazione, il Marvel Bullpen, un posto incasinato, dove il genio era inscindibile dalla sregolatezza. Già in voga nelle pubblicazioni europee come Spirou e Pilote, la trovata si concretizzò nella rubrica Marvel Bullpen Bulletins, che debuttò su The Amazing Spider-Man #31 nel dicembre 1965 e dette poi vita a un mini-impero fatto di fan club e merchandising griffato. Nella realtà, Lee aveva da tempo preso l’abitudine di scrivere le sceneggiature sul portico di casa sua, visitando gli uffici una o due volte la settimana. Lo stesso facevano i disegnatori, che passavano solo per consegnare le tavole. Quelli che abitavano nei paraggi almeno, gli altri inviavano i plichi per posta. In redazione c’erano soltanto gli editor e la contabilità, ma era bello credere altrimenti.
Dai crediti ai saluti, passando per la pagina della posta, in cui si invocavano pareri e suggerimenti o si alimentava la rivalità con DC Comics a colpi di nomignoli (Brand Ecch) e dissing, il lettore trovava testi caldi, scrittura frizzante, allitterazioni, slogan e tormentoni (“Excelsior!”, “’Nuff said”, “Face front”, “True believers”), tutti espedienti che Lee, da pubblicitario mancato, sapeva far funzionare bene sulle menti dei giovani.
Non si comprende appieno quanto rivoluzionario fosse se non si tiene presente il contesto. E il contesto era la pagina della posta DC Comics in cui l’editor/sceneggiatore Robert Kanigher rispondeva malamente ai lettori troppo pignoli che non avevano lasciato correre tale errore di continuity. Nessuno scriveva come Stan. Dove gli altri incutevano un timore che obbligava ad apporre in incipit alle missive il vocativo “Egregio Editore”, Lee accoglieva i lettori in un luogo dove erano liberi di inviare lettere che iniziassero con un “Ciao Stan!”.
E fu con Stan Lee che gli autori iniziarono a diventare prodotti tanto quanto i fumetti e i fan presero a leggere certi titoli non perché vi appariva un tale personaggio ma perché lo disegnava o lo scriveva un dato autore. Con la creazione del culto dell’autore Lee fece conoscere chi c’era dietro le storie, un duplice passo avanti rispetto alla consuetudine di non accreditare gli artisti e di farli restare nomi stampati sulla carta.
«Misi il mio nome – e quello dei disegnatori – all’inizio delle storie, quindi immagino che chi leggesse gli albi continuasse a vedere il mio nome. E poi cercavo di personalizzare i fumetti, con le rubriche in cui parlavo di me e non necessariamente dei fumetti» è la risposta che sciorina a Larry King quando il presentatore gli domanda «Perché conosco il tuo nome e non quello degli altri?».
Rompeva la quarta parete inserendo se stesso e i disegnatori nelle avventure (uno dei primi esempi fu su Fantastic Four #10). Lee dette loro una personalità anche attraverso l’uso di soprannomi (“Jolly” Jack Kirby, “Jazzy” John Romita, “Gentleman” Gene Colan). Per quanto bravi nel loro mestiere, autori come Kirby, impacciatissimo nelle pubbliche relazioni – tanto che, quando ne capirà il valore, sarà per lui una visibile fatica scivolare indenne tra gli ingranaggi della macchina promozionale – e Ditko, per nulla interessato ad apparire e votato a una vita di continui dinieghi verso le interazioni con stampa e lettori, non avrebbero potuto fare quello che faceva Stan. Il suo carisma mangiattenzioni era una storia più facile da raccontare, e parte dei media ebbe le sue colpe nel corroborare la leggenda del Sorridente.
Narratore (inaffidabile) di se stesso
Estate 2000, Ellis Island. È la premiere del primo lungometraggio di un grosso franchise Marvel, X-Men. I cinecomics si stanno riprendendo dopo che alcuni montanti ben assestati (Batman & Robin, Superman IV) ne avevano dislocato la mascella. Stan viene intervistato sul tappeto rosso, al suo fianco c’è il regista Bryan Singer. Gli chiedono se X-Men non sia il solito film con gli effetti speciali e basta. «Oh no, gli effetti speciali ormai ci sono, li usano tutti. Alzi la cornetta e dici “voglio un effetto speciale, fatemelo”». Al suo fianco, un imbarazzato Singer alza gli occhi al cielo e nasconde malamente un sorriso di circostanza. «Sono un po’ geloso, pensavo di essere io il narratore» lo rimbrotta Lee.
È un’uscita esagerata, roboante e inconsapevole – o consapevole al punto da voler ridurre la complessità a una sparata che sta comoda su un titolo di giornale – ma segnala il cambio di carriera dell’uomo: quando Lee non ha più potuto controllare le narrazioni dei personaggi ha iniziato a controllare la propria. Stan Lee aveva contribuito al cambio di paradigma dei supereroi e ora recitava la parte di se stesso, nei film o nella vita vera.
Negli anni Sessanta, quando alle feste di società gli chiedevano che lavoro facesse, Lee rispondeva “lo scrittore”, «e poi tentavo di svignarmela, ma questi insistevano chiedendo che tipo di scrittore fossi. “Scrivo storie” dicevo, tentando di allontanarmi ancora. E loro: “Quali storie?”, “Fumetti”. A quel punto erano loro che si allontanavano da me».
Fu solo quando gli inviti a parlare nei campus universitari si fecero frequenti che i mass media capirono che a leggere i fumetti non erano più solo i bambini, ma anche ragazzi e adulti. Nel 1965, Spider-Man e Hulk erano apparsi nella lista di Esquire dedicata agli eroi degli studenti universitari, insieme a Bob Dylan, Fidel Castro, Malcolm X e John F. Kennedy. Da allora, Lee aveva viaggiato in tutti i college d’America, abbracciando a tempo pieno il ruolo di promoter. Nel 1972 aveva ceduto senza troppi crucci le redini creative al pupillo Roy Thomas. Smessi i panni del «tizio nell’altra stanza che tentava di scrivere i fumetti», ora si vestiva per l’incarico che meglio gli calzava: essere Stan Lee.
Ma anche quando lo stigma sembrava svanito e i comic book erano diventati à la page, il mestiere del fumetto lo imbarazzava. Il padre continuò a non considerarlo una persona di successo, nonostante i traguardi raggiunti, e Stan desiderò sempre una carriera diversa per se stesso. «Provavo molto pudore» disse a Playboy nel 2014. «Una parte di me ha sentito di non avercela mai fatta davvero».
Lee non amava granché i fumetti, di certo non ne aveva grande considerazione. «Non riesco proprio a capire i lettori di fumetti» disse in una conversazione con il regista Alain Resnais. «Io, se potessi e non fosse il mio lavoro, non li leggerei mai». Nel 1981, intervistato dal Comics Journal, Roy Thomas, alla domanda «Stan Lee è un fan?», rispose «Oh Signore, non credo proprio! Voglio dire, probabilmente lo era da ragazzino, ma non penso che Stan si sia mai divertito a lavorare nel campo dei fumetti… Una delle ragioni per cui piacevo a Stan era perché dopo un paio di numeri sentiva di potersi fidare abbastanza da non dover leggere le cose che scrivevo».
Anche se non erano la sua forma d’intrattenimento preferita, non fece mai l’errore di trattare il fumetto come un mezzo da poco. Ed è qui che sta la sua grandezza.
Nel 1947 Lee scrisse un articolo per Writer’s Digest intitolato “There’s Money in Comics”, in cui spiegava che i lettori di fumetti non andavano presi per sciocchi, «molti sono lettori adulti e gli altri, se giovani, sono abituati a vedere film o ascoltare programmi radio e sanno quello che vogliono leggere […] Ogni storia è pensata con cura ed è piena di stratagemmi, sottotrame e angoli d’interesse umano». Marshall McLuhan usò le parole di Lee come spunto per un saggio, poi pubblicato ne La sposa meccanica, che argomentava la sostanziale somiglianza tra l’arte middlebrow e quella lowbrow, rivendicando anzi una superiorità di quest’ultima in quanto meno pretenziosa dell’arte middlebrow, che si camuffa e inganna il proprio pubblico.
«Avrei dovuto lasciare questo ambiente vent’anni fa. Mi sarebbe piaciuto fare film, essere un regista o uno sceneggiatore, avere un lavoro come Norman Lear, fare quello che faccio ora ma per un pubblico più vasto». Come Lear, creatore e showrunner delle serie tv I Jefferson, Arcibaldo e Sanford and Son, la sua inclinazione era supervisionare i progetti, non realizzarli in prima persona.
Sean Howe, in Marvel Comics – Storia di eroi e supereroi, lo dipinge come un tipo trepidante di fare il grande balzo. Aveva visto Batman diventare la terza grande B degli anni Sessanta, dopo i Beatles e James Bond. Se ci era riuscito quel pagliaccio con le sopracciglia dipinte, perché l’Uomo Ragno o Hulk non potevano aspirare a diventare beniamini di cinema e televisione? Per questo, quando negli anni Ottanta si presentò l’occasione di avviare un dipartimento dedicato agli adattamenti filmici, Lee non si fece pregare e volò a Los Angeles, dove rimarrà per il resto della sua vita, portando il proprio nome, un catalogo sterminato di personaggi e svariati pitch a tutti gli studi di Hollywood.
Fu l’ultimo grande ruolo attivo di Lee nella casa editrice, nonché un fallimento su tutti i fronti. I dirigenti degli studios a cui Lee proponeva le idee non erano pronti, l’industria non era pronta, tecnologicamente indietro per poter accogliere le avventure ad alto tasso di effetti speciali dei supereroi Marvel. Lo stesso Lee non era pronto. A differenza delle altre parti, non lo sarebbe mai stato. Il libro Stan Lee and the Rise and Fall of the American Comic Book spiega come i suoi tentativi di sceneggiature e soggetti cinematografici non sembrassero «il prodotto di uno scrittore intelligente a cui è stata negata una possibilità, ma le pagine di un diario tenuto da uno scolaretto ingenuo con grandi sogni».
Dal 1998, quando prese parte alla disastrosa Stan Lee Media, travolta dalla bolla dot-com e dagli affari loschi del partner Peter F. Paul, Lee era rimasto a libro paga della Casa delle Idee come ambasciatore del marchio, un volto familiare a cui il pubblico poteva associare il nome Marvel, nonostante la sua estraneità ai piani editoriali. Era solo «il bel faccino che la Marvel porta in giro». Per questo Ike Perlmutter, colui che prese in mano la Marvel dopo i tracolli degli anni Novanta, considerava Lee un peso morto che drenava più di un milione di dollari l’anno di vitalizio. Oltre a uno scandaloso 10% su tutti i guadagni di ogni produzione cinematografica e televisiva targata Marvel (una voce del contratto che i dirigenti rinegoziarono quando i film cominciarono a incassare).
Perlmutter conosceva il potere dell’immagine, lui che la sua, di immagine, era riuscito a preservarla dagli occhi delle cronache, e sapeva che quella era un piccolo pegno da pagare per tenersi buono il volto pubblico dell’azienda, ma l’aura di intoccabile di Lee sembrava indisporlo. C’era solo da incolpare se stessi se tutto ciò era accaduto. Come scrive Joe McCulloch (The Comics Journal): «Stan Lee è il risultato finale di una corporation che cerca di apporre il volto di un autore su un processo industriale. Quando vedo l’account Twitter di una catena di fast food fare il sagace o l’irriverente, penso a Stan Lee».
Lee ha saputo giocarsi bene l’unica carta in suo possesso, la reputazione costruita negli anni, il suo status di beniamino del pubblico. Anche alla fine degli anni Novanta, quando ormai molti disegnatori, nel frattempo, erano diventate rockstar, mandarono lui a promuovere il crossover Marvel vs. DC al Late Night di Conan O’Brien. Nessun altro ha saputo imporsi come portavoce dell’azienda. Qualcuno ci ha provato (Joe Quesada e in misura minore gli editor-in-chief dopo di lui) ma l’unico deus-ex-machina che può rivaleggiare con Lee non viene nemmeno dai fumetti, ed è il produttore dell’universo cinematografico Marvel Kevin Feige, che è riuscito a semplificare per il pubblico una macchina produttiva gigantesca di cui lui è soltanto la punta.
Fino ai primi anni Duemila, sugli albi compariva ancora la scritta “Stan Lee presenta…”, benché Lee avesse a che fare con quelle storie tanto quanto Walt Disney ha avuto a che fare con Frozen. Quella formula rassicurava i fan che il papà di Spider-Man approvava la nascita di Onslaught, la clonazione dell’Uomo Ragno o la morte di Karen Page. La dicitura serviva a Lee per non scomparire dalla memoria dei lettori, dopo che “Stan’s Soapbox”, la rubrica inaugurata nel 1967, aveva chiuso spazzando via l’ultimo rimasuglio di attività leeiana. Ormai non produceva più fumetti, e se lo faceva erano soltanto cannibalizzazioni del proprio nome, come la serie antologica Just Imagine…, basata sulla premessa “come sarebbero gli eroi della DC Comics se li avesse creati Stan Lee?”. Le sue energie erano profuse nella conservazione della sua immagine pubblica.
Quando esplose il fenomeno Image, Lee si improvvisò padrino fumettistico e realizzò Comic Book Greats, una serie di video con gli autori più caldi del momento, in un patteggiamento che allo stesso tempo dava credibilità ai giovani fumettisti e manteneva rilevante l’attempato sceneggiatore. In quei video, tra l’ondata di stanleenismi («ai miei avvocati che ci stanno guardando, il personaggio che hai appena disegnato lo abbiamo creato insieme» dice a Rob Liefeld), c’è un momento in cui tenta di contrastare un tracotante Bob Kane, impegnato ad affermare la paternità assoluta su personaggi che aveva creato – una situazione in cui Lee si sarebbe trovato da lì a breve.
«A qualcuno importa ancora di Stan Lee?» chiedeva Abraham Riesman in un articolo apparso su Vulture. «Quando dice che sta sviluppando un nuovo cinecomic intitolato Arch Alien e dichiara che “Sarà la hit più grande dell’anno prossimo” o descrive la sua collaborazione con il giapponese Yoshiki “qualcosa che non avete mai visto prima”. È difficile non imbarazzarsi un po’». Con la sua seconda azienda, POW! Entertainment, produsse infatti una serie di fumetti, cartoni e show televisivi per la maggior parte passati attraverso l’indifferenza del pubblico. Giocatore con una scarsissima coscienza del proprio gioco, Lee batteva un fuoricampo ma era troppo miope per accorgersi che la palla aveva bucato la stratosfera, e finì col credere che ogni colpo smorzato avesse la forza impattante di un meteorite. Nonostante lo abbia apposto su più prodotti di quanto facesse negli anni Sessanta, il suo nome negli ultimi anni era associato a lavori che bruciavano in un’eco sorda nel marasma dell’intrattenimento.
Stan era quello che prendeva le decisioni. Kirby poteva decidere cosa fare con i Fantastici Quattro, Ditko poteva decidere cosa fare con Spider-Man, ma alla fine c’era qualcuno che doveva dire sì o no. E anche se a un certo punto il suo contributo su Spider-Man non sarebbe potuto essere più impalpabile, sapeva che storie voleva raccontare.
A una presentazione del volume di Taschen 75 Years of Marvel Comics. From the Golden Age to the Silver Screen scritto da Roy Thomas, anch’egli presente, Lee commentò questa fase della sua vita: «La cosa bella è che non devo più scrivere, mi faccio solo venire in mente delle idee che poi altri realizzano. Però poi sembra che le abbia scritte io!». Thomas, con il tono di qualcuno che puntualizza qualcosa facendola passare per una battuta, entrò a gamba tesa chiedendogli: «E cosa cambia dal 1965?». «Penso di aver scritto qualche cosa nel 1965» lo rimbrottò Lee, la cui voce di colpo perse ogni colore scherzoso.
Nel libro, Thomas mise il nome di Stan al primo posto nella lista dei ringraziamenti, «per essersi assicurato che avessi una vita interessante». Nel 2018 scrisse, sempre per Taschen, The Stan Lee Story, il racconto omnicomprensivo della vita di Lee. Se perfino il rapporto di Thomas, fedelissimo dello sceneggiatore, può dirsi ambivalente, non stupisce che la figura di Lee sia diventata così sottilmente controversa, almeno nella cerchia degli appassionati di fumetto. Perché al di fuori, nessuna crepa ha rovinato la facciata costruita negli anni, come dimostra la mastodontica ondata di omaggi e ricordi colmi di affetto sprigionatasi dopo la sua morte.
Stan Lee ha sempre avuto paura dell’eredità che avrebbe lasciato. Magari lo nascondeva dietro ai suoi motti, nelle pieghe del volto raggiante, tra le righe delle sue esternazioni allitteranti sull’orlo di ridefinire il concetto di “enfatico”. Parlando del suo epitaffio, disse a Playboy: «So che il mio l’hanno già scritto. È da qualche parte nei computer del New York Times. È tutto pronto, non puoi impedire una cosa del genere. Ho avuto una vita felice. Non voglio che nessuno pensi che abbia trattato ingiustamente Kirby o Ditko».
Alla fine del suo libro sulla storia della Marvel Comics Sean Howe inserisce una foto in bianco e nero di Lee e Kirby, l’unica scattata in cui compaiono insieme. I due uomini indossano completi eleganti, paiono rilassati, quasi elettrizzati di sedere a quel tavolo. A vederla fuori contesto, ci si fa l’idea di una coppia che è passata tra crisi e successi senza mai perdere un’oncia di stima e amicizia reciproca. La mano spessa di Kirby è calcata sul braccio sinistro di Lee, come se avessero passato una vita intera insieme e lo conoscesse al punto da prevedere le intenzioni del compagno. Vorrebbe trattenerlo, sembra, dall’alzarsi in piedi o dal dire qualcosa. Lee non ci bada, cerca l’obiettivo con gli occhi, fissandolo come un predatore fissa la sua vittima prima di assalirla alla giugulare. L’immagine, sgranata e incerta, arriva dopo tante parole amare, tanti fili intessuti e poi strappati, rapporti per lo più insinceri. Vorresti che quella foto fosse la chiusa positiva di un percorso accidentato, invece è una lucida presa di coscienza sulla falsità di miti e divinità di cui non restano che cattivi ricordi.
Nelle innumerevoli cronache che legano Lee, Kirby e Ditko non c’è una storia buffa, un aneddoto affettuoso, un ricordo amichevole che non si tinga di amaro o che non mostri quanto precari fossero i rapporti umani e professionali di questi tre uomini. E ora che anche l’ultimo grande padre dei supereroi se n’è andato, rimangono i fumetti nati da questi scontri, germogliati sul risentimento eppure fonti inesauribili di ispirazione. Delle parole di Stan Lee restano solo quelle che si sono rifugiate nei balloon, quelle che probabilmente riteneva le meno importanti della sua parte di vita passata a essere «solo il tizio nell’altra stanza che tentava di scrivere i fumetti». Altro da cercare non c’è. Come avrebbe detto lui, con il suo smagliante sorriso suadente, ‘nuff said.