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Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Questa domenica conversiamo con Ken Parille, insegnante e critico del fumetto, la sua firma è apparsa su The Comics Journal, The Best American Comics Criticism, The Journal of Popular Culture, The Boston Review. Studioso di Dan Clowes, ha curato il volume The Daniel Clowes Reader.
Quando penso a una grande pagina, sono portato a pensare in termini di qualità formali: il modo in cui un fumettista usa gli elementi convenzionali del fumetto (le vignette, i balloon, le didascalie, la griglia), creando una pagina che funziona come un design che sia attraente di per sé ma che anche si connetta e sviluppi i temi del fumetto.
Questa pagina di Leslie Stein, dal fumetto Holly Jolly Sabbath, è grandiosa per molte ragioni. Rappresenta tutto quello che mi piace dei suoi fumetti. C’è una scioltezza del layout, del modo in cui le vignette (che non sono vignette) si uniscono e si sovrappongono su altri aspetti della pagina. Questa libertà di impaginazione – che evita le rigidità della pagina con la griglia – sembra perfetta per i suoi fumetti autobiografici, che hanno quel gusto da diario privato, specie questo che tratta delle memorie e delle impressioni. Sembra che abbia abbozzato sulla pagina i disegni e che abbiano funzionato al primo colpo.
II modo in cui disegna la bocca, per esempio, è peculiare. Secondo te perché lo fa?
Ho visto altri fumettisti prendersi una libertà simile quando disegnano le facce e spesso non funziona. Le bocche strane sono una parte del suo stile, uno stile in cui le parti del volto fluttuano e cambiano forma: è il suo modo di distorcere ed esagerare la tradizione del fumetto.
Quello che fa con gli occhi è molto interessante. Nella prima “vignetta” usa dei cerchi ampi, che assomigliano agli ornamenti natalizi disegnati a sinistra. Poi usa dei piccoli punti, poi delle “U” aperte. Poi, dietro le nuvole dell’acquerello fumoso, crescono in grandi ovali verdi mentre la protagonista viene colta da un’estasi adolescenziale causata dall’immersione nei Doors e dalle luci delle candele. È tutto connesso al testo che sta cantando, alla sua solitudine, al desiderio romantico e all’adolescenza. Gli occhi, più che i gesti o la storia, stanno raccontando un percorso emotivo nella memoria. Le sue facce si fanno sempre più strane e interessanti. Non ci sono confini, si sciolgono nei corpi dei personaggi e occupano gli spazi vuoti della pagina. Anche i nasi vanno e vengono come vogliono.
Il suo stile unisce la tenerezza dei cartoni con qualcosa di strano. Per esempio, il personaggio principale, anche se è spesso disegnato in maniera gradevole, ha braccia e piedi che sembrano fili prostetici. Non ho mai visto niente di simile, un mix di tenerezza e aspetti inquietanti difficili da definire.
Qualche altro aspetto da sottolineare? Il lettering è molto cacofonico nei suoi cambi di colore.
Penso che il lettering sia la prima cosa del suo lavoro che mi ha attratto. È una letterista molto brava, non vedo spesso questo livello di bravura e inventiva. Ci può essere qualcosa di infantile nel modo in cui cambia i colori, da parola a parola o da lettera a lettera. Forse i colori del testo sarebbero cacofonici se il lettering non fosse così leggibile (le forme sono ben pensate e lo spazio è misurato con attenzione) o se i colori non si armonizzassero così bene.
Mi è sempre piaciuto che, nei fumetti Marvel degli anni Sessanta, i balloon non fossero solo bianchi, ma anche gialli, arancioni, rosa, rendendo quei fumetti colorati ancora più colorati e pop-art. La Marvel abbandonò questa tecnica (era troppo bambinesca per i fumetti seri?) e tenne il bianco. Mi piace che il fumetto della Stein eviti tecniche consolidate eppure rimanga facile da leggere. Il suo stile è molto singolare.
Il suo approccio al colore evoca l’infanzia ma è anche molto sofisticato. In questi fumetti il colore ha una funzione formale: molti oggetti sono di puro colore, senza le linee di contorno che si trovano comunemente. Poi c’è la pittura che cola e schizza, insieme a queste “nuvole” di colore e ai modi in cui le aree di colori trasgrediscono i confini delle “vignette”. Non conosco le sue influenze, ma mi ricorda molto il lavoro di fumettisti come Anders Nilsen e perfino Jules Feiffer.
E della pagina che scorre senza vignette che mi dici?
Anche se manca un layout, trovo la narrazione molto facile da seguire. La pagina ha un suo ritmo interno, fondamentalmente diverso da quello che si avrebbe con vignette separate da un spazio bianco; renderebbe il ritmo del fumetto troppo staccato per l’effetto aperto e da ambiente che cerca lei, un effetto amplificato dalle macchie di colore.
È una dimostrazione che vignette, spazi bianchi e margini non sono elementi essenziali in un fumetto. Chiarezza e leggibilità non dipendono da questi aspetti. Il suo è un modo diverso di rappresentare lo scorrere del tempo su una pagina.