Altered Carbon è la sensazione di questo scampolo di stagione televisiva. La serie in dieci episodi prodotta da Netflix ha ricevuto una spinta promozionale notevole anche nel nostro Paese, con pubblicità in esterna e probabili consistenti investimenti sui social.
Una spinta molto necessaria, peraltro, perché l’ottima trilogia da cui prende spunto, scritta fra il 2002 e il 2006 dallo scrittore britannico Richard K. Morgan, è praticamente sconosciuta da noi: è stata pubblicata lentamente da Editrice Nord (i titoli in Italiano sono Bay City, Angeli spezzati e Il ritorno delle furie, ora in ristampa), che ha compiuto un’opera meritevole purtroppo praticamente ignorata al di fuori dei giri di appassionati, e spesso anche in quelli.
Si tratta di una trilogia post-cyberpunk, nel senso che Morgan riprende appieno gli stilemi del genere e pennella una storia notevole sia per mole che per ricchezza e potenza. Rispetto ai tempi dei cow boy del cyberspazio con le loro consolle digitali adesso non è più la rete il punto centrale di snodo, ma una tecnologia di origine aliena che permette di registrare l’identità di una persona in un disco di memoria, inserito a tutti a un anno di età tra le vertebre cervicali tipo l’atlante e l’epistrofeo. Questo disco diventa il contenitore dell’animus delle persone, la loro personalità, ricordi e intelligenza: può essere copiato, spostato, backuppato, e viene utilizzato inserendolo in corpi “vuoti” che in inglese sono chiamati “sleeve”, cioè maniche di abito ma anche custodie (come da traduzione italiana). Insomma, qualcosa da indossare e poi magari buttare quando si rovina: la vecchia idea che il corpo sia solo un cappotto che sta attorno alla nostra anima.
Il presupposto della buona fantascienza è che si crei, da una premessa scientifica devastante, un mondo alternativo coerente, le cui conseguenze seguono in modo sorprendente ma logico l’evoluzione della società degli uomini in quel particolare contesto. In questo i romanzi di Morgan sono ottimi: a cavallo tra Matrix e Blade Runner, i tre libri ritraggono una società che ha scoperto i viaggi interstellari trasmettendo la coscienza delle persone a distanza, che ha risolto il problema della morte per alcuni ma non per tutti, e che ha visto aumentare a dismisura la ricchezza di alcuni (i “Matusalemme”) e la povertà di altri.
Non voglio entrare nel dettaglio della trama anche perché il primo dei tre libri, da cui è tratta la serie Altered Carbon, è da solo ben più ricco di quel che è andato sullo schermo: alcuni personaggi sono stati esclusi, altri sono stati semplificati.
La storia è intrigante, almeno in questa prima stagione che racconta le avventure di Takeshi Kovacs (che in breve è un ex militare passato dalla parte dei ribelli poi reso quasi immortale e condannato a servire i poteri forti), su e giù per la città della Baia, alias la San Francisco del futuro. Ambientazione più che necessaria perché l’architrave di questa prima stagione è in puro stile hardboiled. In puro stile Dashiell Hammett o Raymond Chandler, infatti, Kovacs è stato risvegliato da 250 anni di congelamento della coscienza (senza più corpo) per reati vari di terrorismo, con lo scopo di aiutare un super-ricco a scoprire chi l’ha ucciso subito prima del backup. Un caso che, se portato a soluzione, gli darà soldi e perdono, altrimenti finirà di nuovo in galera.
Una San Francisco dove piove, in cui le persone vivono affastellate in container, con un distretto di polizia identico ai nostri distretti di polizia (a parte i maxischermi trasparenti) e dove il detective Kristin Ortega si inserisce nella traccia delle indagini di Kovacs che intanto sfiora la classe dei super ricchi, le donne bellissime e praticamente immortali, i bassifondi della città, un misterioso killer russo sulle tracce del precedente possessore del corpo di Kovacs.
Dopo aver visto le dieci puntate della prima stagione (probabilmente ne verranno prodotte altre, visto il successo che sta raccogliendo in questi giorni) ci sono alcune considerazioni che si possono fare. La prima è che la serie televisiva è un’orgia a tratti piuttosto esplicita sia per la violenza che per il sesso (stra-vietata ai minori di 18 anni, insomma). La seconda è che in realtà, a fronte di premesse e un impianto narrativo potente e dei molti registri sui quali si potesse giocare, la scelta fatta è stata piuttosto facile, nel senso che l’adattamento è soprattutto una festa per gli occhi ma manca sistematicamente di profondità e di sostanza.
L’esercizio è difficile perché Altered Carbon è un prodotto post, nel senso che viene dopo tutto e dopo che tutto è stato già fatto e già visto. E per rispondere a questo tremendo rischio di déjà-vu, picchia duro sugli effetti speciali, su una trama in cui i colpi di scena si susseguono, in cui il sesso è duro e terso, i corpi degli straordinari oggetti che vengono svincolati dalla coscenzia a meno che non siate Neo-Cattolici, nel caso invece avrete fatto riprogrammare il vostro “stack” per fare in modo che la morte del vostro corpo fisico lo sia anche per la vostra coscienza e quindi liberi la vostra anima.
Idea intrigante, ma che nel telefilm si perde, è che il “dono” scoperto dagli alieni ormai estinti, enormi creature alate tipo pterodattili, sia in realtà un tremendo virus culturale capace di distruggere la società disumanizzandola senza più la grande livella sociale della morte, il principale fattore di cambiamento della società umana. Forse che gli alieni erano in realtà demoni e che questo è il loro peccato originale, il modo per corrompere le anime di fronte a Dio?
Se i romanzi di Morgan sono una pregevole macchina per generare interpretazioni, Altered Carbon non lo è. Anzi, è tutt’altro: una macchina per assopire le coscienze critiche, spegnere il senso che genera supposizioni e si interroga sui possibili significati, sulle possibili conseguenze di questo o di quello.
Altered Carbon serve a generare orgasmi visivi, è una bellissima festa per gli occhi, una storia adrenalinica con combattimenti a pugni, pistolettate, colpi di spada, degni di una compilation dei migliori action movie degli ultimi trent’anni, con pochi (ma sostanziali) cadute di stile e di qualità dell’allestimento, però un bel prodotto, fatto molto molto bene. Ma privo dell’anima.
Se l’idea di fondo che chi viene digitalizzato nello stack “perde” l’anima assieme al corpo mortale, qui sembra che il primo libro abbia perso la sua di anima nel momento che è stato semplificato dalla produttrice esecutiva e sceneggiatrice Laeta Kalogridis che ne aveva acquistato i diritti ben quindici anni fa e che aveva portato avanti questo progetto aspettando che arrivasse qualche network capace di accettare il contenuto di violenza e sesso spinto contenuto nella storia. Netflix, che spinge i limiti di quello che viene prodotto per il piccolo schermo alla ricerca di serie televisive e di film capaci di fare “bang” nella programmazione del piccolo schermo, ha provato questa carta. Che non è American Gods ne tantomeno Game of Thrones.
In questo momento la fantascienza, per motivi che sarebbe interessante approfondire (e che cercheremo di approfondire nei prossimi appuntamenti) è diventata una sorta di “comic book delle serie televisive”. Sia esso nella forma di un singolo episodio, un film-per-la-tv, come Bright (sempre Netflix), sia che si tratti di una serie di dieci puntate da 45-50 minuti (il formato preferito da Netflix e Amazon), sia che si tratti di una rivisitazione per il grande schermo di qualche classico, a partire dai film Marvel che stanno diventando sostanzialmente delle “space opera” al reboot di Star Trek e la prosecuzione di Star Wars.
La fantascienza conquista spazio, ma è una fantascienza visiva, esteticamente complessa (avete mai provato a guardare gli effetti speciali e il montaggio di un film dei Transformers?) e contenutisticamente molto, molto povera.
È una fase pionieristica, di ridefinizione dell’estetica, in cui gli autori che vogliono scavare e arricchire non hanno ancora trovato una dimensione paragonabile a quella del mercato librario. E questo ha molto senso: gli investimenti sempre più massicci dei produttori americani vengono accompagnati da uno sforzo di marketing altrettanto imponente in cui la storia e i personaggi devono essere i più facili e palatabili possibile. Uno sforzo che rende l’occhio critico e la storia disturbante un pensiero impossibile.
Altered Carbon, nonostante le ottime promesse, cade proprio qui: un protagonista distaccato dalla vita e dalla storia che gli sfila di fianco è già un piatto difficile da servire al grande pubblico. L’attuale momento di mercato della dieta mediale, orientata a un consumo ipercalorico, per così dire, con poche fibre e niente vitamine, fa il resto. E Altered Carbon diventa una di quelle serie che si possono guardare a volume spento, magari mentre si fa anche altro.