di Elettra Stamboulis
C’è differenza tra satira e propaganda? E si può amare un disegnatore anche se sta “dall’altra parte”? Interrogativi legittimi ai quali non si riesce a dare una risposta univoca, certo è che non sono gli unici posti dall’importante esposizione di disegni “Mario Sironi e le illustrazioni per ‘Il Popolo d’Italia’ 1921-1940” in mostra ai Musei di Villa Torlonia (Casino dei Principi e Casino Nobile) a Roma fino al 10 gennaio, che migrerà a Bologna in occasione di Artefiera (dal 29 gennaio al 1 febbraio), per poi far ritorno a Roma alla Galleria Russo, dove sarà aperta al pubblico dall’11 febbraio al 3 marzo 2016.
Sicuramente l’esposizione a Villa Torlonia, residenza di elezione del Duce che in pratica la occupò pagando un affitto simbolico ai legittimi proprietari, acquista un particolare valore: gli spazi non solo sono particolarmente suggestivi, sono anche il perfetto simulacro/contenitore di una narrazione per immagini del credo fascista. Si possono infatti ammirare 345 illustrazioni realizzate per “Il Popolo d’Italia” dal grande artista nato a Sassari ma vissuto e cresciuto a Roma. Sull’organo di stampa creato e diretto da Benito Mussolini nel 1914 e diventato nel 1922 l’espressione ufficiale del partito fascista, Sironi, che fu convinto e coerente sostenitore del fascismo, vi pubblicò dal 1921 al 1940, radiografando, interpretando, schernendo, additando e commentando la realtà italiana del ventennio. In mostra c’è un particolare fondo, ritrovato casualmente da una erede recentemente, che testimonia il lavoro di commentatore politico dell’artista sardo dal ’21 al ’28.
Sono gli anni rampanti dell’ascesa del regime, dal preludio della marcia su Roma, con ancora le camicie nere in giro per l’Italia a menar le mani, appiccare fuochi, erigersi a giustizieri del dopoguerra. Ma si arriva fino alla fascistizzazione che segue il delitto Matteotti e quindi al cuore di tenebra del regime. I nemici storici, socialisti, popolari, ma anche liberali amanti del dibattito parlamentare, ormai fuori dai giochi, eppure ancora bersaglio degli strali precisi e affilati della matita ufficiale del giornale.
Sironi faceva parte del gruppo futurista, con cui si era anche arruolato volontario nella Grande Guerra, ma in quegli anni è ormai protagonista dall’esperienza di Novecento Italiano. Si era avvicinato al cenacolo di Margherita Sarfatti e la “moderna classicità” a cui si ispira il gruppo trapela nella sua verve di illustratore politico. Negli anni il suo tratto si evolverà ulteriormente, diventando affetto da gigantismo, in particolare nell’importante esperienza dell’arte muralista, sinceramente ispirata anche al rosso Diego Ribera. A Sironi interessa il valore “sociale” dell’arte pubblica, il suo essere accessibile e nuovo, non influenzato dal collezionismo borghese, dalla chiusura ipocondriaca della galleria. E quindi non deve stupire il suo essere stato teorico e realizzatore di arte pubblica che evoca alcune recenti esperienze cittadine. Come evidenzia nel catalogo della mostra Giuseppe Vacca: «la poetica di Sironi si fondava su una opzione esplicita, plastica e riflessiva, per il “nazionale popolare”». Per il fascismo l’arte aveva «una portata costituzionale (che vuol dire politica e non opportunistica)», rileva giustamente Monica Cioli, sempre sul prezioso e riflessivo catalogo.
Accanto a questo lavoro epocale di decoratore visionario della nuova monumentalità del regime, non abbandona però mai il piccolo formato del disegno politico, con cui la sua matita traccia una visione ben precisa dei buoni e dei cattivi, dei pregi e dei difetti, visti con occhio ovviamente decisamente fascista. E benché abbia collaborato nello stesso periodo, come ci testimonia il catalogo della mostra, con un editore notoriamente ebreo come Bemporad, realizzando delle innovative copertine di libri gialli, questo non toglie convinzione e partigianeria nel taglio visionario delle sue vignette.
Il grande artista fu quindi un importante disegnatore: nel 1988 il curatore di questa stessa mostra, Fabio Benzi, pubblicò il Catalogo ragionato delle illustrazioni di Mario Sironi, un lavoro critico importante che portò a sistema circa 2300 tra cartoline, manifesti, diplomi, e via dicendo. Già questa prima importante mappatura ci mostrava la mole di un lavoro ossessivo e continuo, amplificato dal numero di disegni preparatori per ogni lavoro (in genere cinque o sei). Il fondo della mostra romana si aggiunge a quel corpus già così importante. D’altro canto Cesare Brandi aveva già sostenuto che l’attività di Sironi per ‘Il Popolo’ costituiva “il meglio del Novecento”.
Interessanti i bersagli, a partire dal PUS (gioco sull’acronimo del PSI) che ovviamente campeggia in molte vignette e in particolare nella versione “collaborazionista” con il Partito Popolare di Don Sturzo. Riecheggiano visivamente l’anticlericalismo radicale del primo fascismo e la critica serrata ai partiti espressione del marxismo in Italia. Il partito socialista è un personaggio con il berretto frigio, ma compare anche Turati, mentre Don Sturzo è addirittura una scimmia con volto umano. Molto presente il direttore del ‘Corriere della Sera’, segno che i nemici non finiscono mai, anche quando si pensa di averli perimetrati. L’Italia è un personaggio ricorrente: ringrazia il fascismo, rimane impantanata con la sottana nel parlamento italiano, è parte civile nei processi politici… Non manca la politica internazionale: con Lenin, tiranno orientale contrapposto al buon Mussolini; il Regno Unito che deve prendere lezioni dall’Italia pacificata e senza scioperi; il sovietismo che semina odio e distruzione.
Lo stile di Sironi crea «una nuova via al disegno politico», come già intuiva Paolo Sighinolfi: il tempo sospeso, la costruzione monumentale delle figure, danno l’impressione che quanto si commenta sia estraneo al tempo della cronaca. La sua non è nota sull’oggi, ma drastica presa di posizione. Lo spazio, definito da forme pure e quasi metafisiche, segue una geometria che porta lo sguardo a collocarsi su schemi quasi fissi: la figura in primo piano ha un controcanto in una scenografia monumentale. A questo si collega l’uso di una luce che spiazza e taglia, sicuramente educata dal cinema muto più ardito. La sua è una figurazione inappellabile. È un taglio tragico che forse può vedere in Mauro Biani o in certe soluzioni di Bucchi una similarità contemporanea. Di certo non è satira della risata grossolana, anzi. La spada dell’arte sempre sguainata di Sironi non cede alla comicità arrendevole, che ci rende tutti indistintamente uguali: la sua è piuttosto arma moralizzatrice.
Talmente consapevole di sé da colorare gli originali, pur sapendo che non sarebbero mai emersi nella soluzione tipografica del giornale, l’artista rimarrà coerente con se stesso. Tanto da scrivere nel primo dopoguerra, quando tutto ciò in cui aveva creduto si era dissolto e aveva portato con sé in molti gorghi molti dei protagonisti, in una lettera privata alla collezionista che poi conserverà la cartella dei disegni politici ora esposta: «Qui la pazzia della calura invade lentamente il nostro cervello. Se continua così finiremo socialisti convinti…» Ma neanche il caldo torrido milanese del luglio del 1946 riuscì nell’impresa.
*Elettra Stamboulis (Bologna, 1969) è curatrice di mostre d’arte contemporanea e fumetto, sceneggiatrice per il fumetto e docente. Ha diretto e progettato il festival internazionale del fumetto di realtà Komikazen. Ha collaborato con diverse riviste come Blue e Linus, ed è stata una delle redattrici di InguineMAH!gazine, rivista dell’underground italiano. Cura, insieme a Gianluca Costantini e Marco Lobietti, il progetto editoriale G.I.U.D.A. Geographical Institute of Unconventional Drawing Art.