HomeMondi POPLetteratura‘Bukowski è quel mondo’. Intervista all'illustratore Emiliano Ponzi.

‘Bukowski è quel mondo’. Intervista all’illustratore Emiliano Ponzi.

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di Michele Alinovi

Emiliano Ponzi, classe 1978, è uno dei più grandi illustratori italiani. Nato a Reggio Emilia, si trasferisce a cinque anni a Ferrara. Qui inizia a manifestare l’interesse per l’illustrazione: si immerge nel negozio di fumetti cittadino, guarda i manifesti per strada e qualche libro di storia dell’arte. Nel frattempo, matita in mano, disegna qualsiasi cosa. La città estense, tutto sommato, è abbastanza piccola, e internet non c’è ancora: solo quando parte per Milano, per frequentare lo Ied, inizia a conoscere più da vicino un mestiere che non ha più lasciato. A poco più di vent’anni sviluppa uno stile personale e comincia a lavorare per testate italiane e internazionali, come il New York TimesLe Monde e The Economist.

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Intenso è il suo lavoro nel campo editoriale: Feltrinelli gli commissiona le copertine delle riedizioni di Charles Bukowski, per le quali riceve nel 2013 la Gold Medal dalla Society of Illustrators di New York. Partecipa a numerose mostre, personali e collettive: la più recente è Identità Milano, alla Triennale fino al 2 giugno, che ospita le opere sue e di altri cinque illustri colleghi, con tema centrale proprio il capoluogo lombardo. Tre anni fa pubblica anche un libro illustrato, 10×10, un percorso per immagini delle tappe più significative del primo decennio di carriera. Dieci (metri quadrati) è anche la grandezza del suo studio, situato in un piccolo appartamento vicino a Porta Ticinese.

Quattro pareti bianche interrotte dalle ante grigie di una grande finestra; dall’altro lato siede e lavora lui, per diverse ore al giorno, davanti al foglio bianco di un’enorme tavoletta grafica. Sugli scaffali, i suoi premi, numerosi libri e qualche bizzarria di design, come uno stereo a forma di teschio che, sardonico, fa capolino dall’asse superiore. L’attenzione, però, non può non balzare sui suoi calzini stellati: «È quello che notano tutti per primo», commenta divertito. Le sue illustrazioni sono un po’ così. Poche figure, sintetiche ed essenziali, formate da ampie campiture di colore e alcuni, piccoli dettagli i quali – da soli – costruiscono tutta la forza del significato che l’immagine vuole trasmettere. Le sue opere comunicano spesso un messaggio forte come uno sparo di fucile, ma suggeriscono anche le sfumature di quello che – a prima vista – non è visibile. «Quando si lavora per una rappresentazione semplificata la complessità non scompare, resta sullo sfondo» aveva detto il designer John Maeda; Ponzi questo lo ha imparato molto bene.

Partiamo da Identità Milano, mostra in corso alla Triennale di Milano, dove sono presenti tue opere assieme a quelle di Guido Scarabottolo, Julia Binfield, Michele Tranquillini, Beppe Giacobbe e Olimpia Zagnoli. Come è stato ideato questo progetto?

Tutto è nato a partire da una ricerca dell’Ipsos di Nando Pagnoncelli, che si è proposta, in vista dell’Expo, di capire com’è vista Milano dai suoi cittadini e dagli stranieri. Milano ha avuto un ruolo un po’ spurio rispetto a molte altre città italiane; mentre Roma, Venezia o Firenze sono conosciute per le bellezze artistiche e monumentali, la nostra città è stata definita quasi per ‘diagnosi differenziale’. Milano è stata la Milano da bere, della moda, delle passerelle e delle sfilate – epiteti dati quasi sempre da chi vive al di fuori della metropoli, e non da chi la vive e la costruisce ogni giorno. In realtà non è solo questo: Milano è innovazione, integrazione, stimolo, cultura, arte. Obiettivo della mostra è stato dunque quello di ridefinire la complessità della città illustrando diversi macro-temi identitari in modo molto libero. Nella mostra sono presenti tre mie illustrazioni; nella prima ho rappresentato la torre Velasca che si specchia sul palazzo Unicredit, due edifici simbolo della modernità milanese; nella seconda ho voluto rappresentare la metropolitana, che si sta ampliando, come metafora della conoscenza della città e della sua complessità, rappresentata dalle diverse linee che si irradiano partendo dall’abito di una donna; nella terza ho rappresentato dei ballerini sul palcoscenico per rappresentare la bellezza del bel canto, della lirica e della danza alla Scala. I visitatori sono invitati a dare un proprio titolo alle opere, in modo da incoraggiare risposte diverse a questa sola domanda: “Cos’è Milano?”.

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Quando ti sei avvicinato all’illustrazione?

Ho disegnato sin da piccolo. All’inizio mi cimentavo con i personaggi dei cartoni animati e dei fumetti. Ai tempi internet non c’era ancora, e a Ferrara – dove sono cresciuto – non c’era modo di capire cosa sia, esattamente, l’illustrazione. Ma stavo giornate intere, con i miei cugini, a sfogliare vecchi numeri di Linus, Corto MaltesePilot, e restavo incantato da quanta meraviglia potesse nascere da quei pochi tratti di inchiostro. Durante gli studi classici, poi, ho iniziato a frequentare qualsiasi tipo di corso sul disegno e sull’illustrazione nelle sue più ampie declinazioni; mi ha aiutato molto il libro di Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello. Quando mi sono iscritto allo Ied di Milano ho iniziato a capire le logiche del mestiere: un illustratore non è un artista visionario guidato dall’edonismo e dalla passione, ma un professionista che si rivolge a un pubblico ed è inserito nelle dinamiche di mercato.

Quali sono i tuoi maestri?

Ho amato un po’ tutto: i grandi pittori classici, gli impressionisti, la grande tradizione della pittura figurativa americana e la grafica internazionale. E quindi Edward Hopper, David Hockney, Brad Holland, Lorenzo Mattotti, Moebius, Bruno Munari, Tom Wesselmann e una manciata di altri che hanno segnato il mio percorso formativo. Attualmente credo che esistano sempre meno le figure mitiche del maestro e dell’allievo, ma che tra gli illustratori ci sia una contaminazione sempre più reciproca e di tipo orizzontale.

Un anno fa hai rivisitato l’Inferno di Dante con 11 illustrazioni per Un Sedicesimo, dove hai reinterpretato i gironi infernali. Come hai sviluppato questo progetto? Secondo te, cosa rappresenta, che senso e valore ha il peccato, oggi?

È stato un enorme esercizio di sintesi, stilistica e concettuale: l’Inferno con i suoi 34 canti è un testo mastodontico sia come “opera dell’ingegno” che come ampiezza e varietà di contenuto. Ho cercato di distillare i gironi infernali per ridurli a un’icona minima e immediatamente riconoscibile. Ho ridotto all’osso i segni e i dettagli presenti nelle illustrazioni in modo che non ci fosse nulla di superfluo: togli un solo elemento e, di colpo, l’immagine non ha più significato. Come se l’intera serie di immagini fosse stata costruita per “contrappasso” rispetto alla grande ricchezza di particolari delle terzine dantesche. I peccati rimangono sempre gli stessi, oggi come allora: sono categorie universali che non mutano, anche se nei secoli possono cambiare d’abito e assumere sfumature diverse: io li ho declinati in una versione più moderna e pop, sia come temi che come stile e colori.

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Hai illustrato per testate italiane e internazionali. Molti tuoi colleghi osservano come in Italia vi sia molto meno rispetto nei confronti dell’illustrazione rispetto all’estero. Sei d’accordo?

È abbastanza vero, nella misura in cui all’estero – ma soprattutto negli Stati Uniti – la media degli art director ha una formazione visiva decisamente maggiore. Lì è un mestiere con più tradizione e le istituzioni che formano questo tipo di professionalità sono realtà presenti da molto tempo. Qui da noi il nostro lavoro è stimato meno, ma in questo senso la situazione è migliorata molto rispetto a soltanto una decina di anni fa, quando ho iniziato io.

Hai definito il tuo studio come una “cella” silenziosa, un nido dove poter lavorare in pace. Nel tuo lavoro quanto l’atto creativo richiede solitudine?

Tanto, perché per me la creazione è un atto intimo che richiede una buona dose di riflessione. Nella storia dell’uomo il raccoglimento e la solitudine creativa sono state celebrate da grandi menti come Benjamin Franklin, Morton Feldman, e W.H. Auden. Io credo che la buona idea non arrivi schizzando subito su un foglio bianco, ma soltanto dopo averci pensato a lungo e aver chiaro in testa cosa fare prima di passare all’azione. Chiamo “cella” il mio studio perché in esso sono libero dal mondo esterno e nello stesso tempo costretto a lavorare gran parte del giorno (di solito devo fare 4 o 5 illustrazioni a settimana) per rispettare le famigerate scadenze. Per fare tutto bisogna avere metodo e disciplina e confinare il tempo di realizzazione di ogni opera in un determinato numero di ore, per poi passare oltre; è chiaro, un’immagine può essere migliorata e perfezionata all’infinito, ma a volte bisogna sapersi fermare e passare a quella successiva.

C’è un consiglio particolare che daresti a un aspirante illustratore?

Nell’era dei social network e della condivisione frenetica dei propri lavori, penso che i giovani illustratori dovrebbero tenere a mente questo: esiste il tempo per fare e il tempo per mostrare. Spesso l’urgenza del secondo rende il primo sempre meno rilevante. È importante lavorare tanto e selezionare cosa valga la pena rendere pubblico o meno. L’esporsi, il farsi vedere è sempre un atto di comunicazione che ci definisce; se si esagera, è facile cadere nella fiera del vacuo e dell’omologazione.

Scarabottolo ha detto che una volta gli sono state rifiutate oltre dieci prove per una copertina di un libro per Guanda e di avere un archivio di centinaia di opere rigettate dai committenti. Ti è capitato di essere rifiutato spesso e di pensare, per un attimo, di non saltarci più fuori? Come ti comporti in quelle occasioni?

Penso che esista un limite da non oltrepassare: se continuiamo a non intenderci con la committenza conviene passare oltre, perché probabilmente c’è un problema di comunicazione. Alcuni clienti non sanno quello che vogliono e proiettano l’insicurezza su di noi, aspettandosi un miracolo interpretativo da parte nostra. Mi è capitato di rifare illustrazioni e di aggiustare dettagli diverse volte, ma in altri casi ho anche avuto la forza di dire basta, take it or leave it. Dobbiamo ricordarci che siamo anche autori, e se ogni elemento della nostra illustrazione è fatto in quel modo ed è in quella posizione, esiste un motivo di certo non casuale. La pretesa di una modifica continua significa anche sconfinare nella nostra professionalità, che in qualche modo va difesa.

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Come ti comporti quando l’ispirazione non arriva?

L’ispirazione, qualunque cosa voglia dire, non si palesa quasi mai come un’apparizione celestiale, ma va cercata e ricercata. Il professionista è colui che, anche quando è in difficoltà, riesce sempre a saltarci fuori e portare a termine un lavoro ad un certo standard. Art and craft: dove non arriva l’intuizione provvede l’esperienza.

Per Feltrinelli hai realizzato le copertine delle raccolte di poesie di Charles Bukowski, poeta dei vizi e delle virtù della modernità e della metropoli americana. Hai dovuto rielaborare, a tuo modo, un universo così distante dal tuo. Cosa di lui e delle sue opere hai cercato di mettere in luce?

Bukowski è stato l’uomo che tutti noi avremmo voluto essere quando avevamo quindici anni: l’alcool, le donne, una vita anarchica, vissuta più di pancia che di testa. Per questo è stato un mito per generazioni di teenager americani e non, un po’ come Il giovane Holden; ma se il romanzo di Salinger raccontava i primi segnali di ribellione antisociale di un ragazzo americano, Bukowski ne rappresenta l’esasperazione: esprime, cioè, il momento di massima rottura dell’adolescente con l’infanzia e il culmine dell’attrazione per la rivolta e il disprezzo delle regole condivise. Per lavorare alle copertine delle sue opere abbiamo deciso che Bukowski sarebbe stato presente nelle immagini, come un attore che di volta in volta interpreta pièce diverse, ma che incarna i vari aspetti del suo universo poetico ed esistenziale. Dal punto di vista visivo ho cercato di rendere l’atmosfera di quegli anni, imitando gli effetti della polaroid, della televisione e dell’arte urbana di Hopper, cercando di rievocare quell’atmosfera – quella temperatura – in chiave più contemporanea. La copertina è la prima cosa che salta all’occhio distratto di chi cerca un libro negli scaffali: per questo ho cercato di renderle di forte impatto, in modo da rubare l’attenzione anche per un paio di secondi e far capire che ‘Bukowski è quel mondo’. Credo di essere riuscito a rendere l’ambivalenza del suo personaggio, che poi rispecchia l’ambivalenza di tutti gli uomini: il vizio e la virtù, l’essere allineati o devianti rispetto alle norme comuni, il bene e il male. Tutti oscilliamo in minima parte tra queste categorie, quello che cambia è la direzione che si intraprende. “Non odio la gente, sto solo meglio quando non sono in giro” è una frase di Bukowski che mi fa sempre sorridere e la dice lunga sulla sua concezione della vita.

Hai scritto: «Per creare e innovare non bisogna stare necessariamente comodi, Thomas Wolfe era un uomo altissimo e usava scrivere adoperando il frigorifero come base d’appoggio. Allora alziamoci dalle sedie, andiamo a vedere lo sconosciuto e la città e facciamo di questo una declinazione personale d’innovazione».

Mi riferisco alla scomodità come ‘non totale soddisfazione’, che conduce l’uomo a una evoluzione inevitabile: se ci fossimo accontentati di mangiare carne cruda e di stare al freddo non avremmo mai scoperto il fuoco. In futuro ci sarà sempre spazio per un miglioramento, per una nuova invenzione e per la sperimentazione.

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Vivere nelle grandi metropoli deve essere stimolante, ma non si rischia – a volte – di cadere nell’apparenza e dimenticare la sostanza?

Le esperienze fatte a Milano, a New York o anche nel piccolo paese di provincia possono essere fonte di distrazione come di arricchimento, dipende dal proprio modo di vivere le cose, dalla percentuale che diamo al rapporto tra interno ed esterno. Non si può solo stare chiusi in studio, ma è vero anche il contrario.

Progetti futuri?

Un libro importante.

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*Intervista originariamente pubblicata su Magzine.

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