di Paolo Mauri
La prima cosa che induce a riflettere sfogliando il volume Adelphi che raccoglie “I paesaggi” di Tullio Pericoli scanditi in ordine cronologico è proprio la scelta di raccoglierli in un libro e non in un catalogo, come se l’autore invitasse non tanto a guardare, quanto piuttosto a leggere. Leggere come se si seguisse una trama: la trama di un racconto (o di più racconti) che nel tempo l’autore ha costruito. In modo involontario, quanto al risultato finale, ma certamente volontario per quel che riguarda gli elementi messi in gioco. Nei primi paesaggi che risalgono agli anni Settanta, lo sguardo dell’autore penetra ben oltre ciò che si vede normalmente, come se all’occhio fosse possibile un’ispezione geologica , una sorta di “taglio” verticale. Sappiamo dall’autore che , dopo aver visto “Il Vangelo” di Pasolini , aveva voluto visitare i Sassi di Matera dove il film era stato girato e dove, appunto, la verticalità è un elemento vistoso , quasi si fosse di fronte ad una sezione del territorio, capace appunto di mostrare le viscere della terra. Più avanti nel tempo Pericoli amerà invece ispezionare i paesaggi guardandoli dall’alto , in una sorta di volo tranquillo, come quello che si può fare su una mongolfiera.
I paesaggi di Pericoli possono dunque nascere dall’osservazione diretta , ma anche dalla fantasia. Fantastici, per esempio, sono i paesaggi dedicati a Robinson Crusoe e perfettamente aderenti alla sua fantastica e così emblematica avventura. Che comporta un naufragio e la ricostruzione di un habitat. E’ il mondo che ricomincia da capo e da un uomo solo. Amante del fiabesco, oltre che dell’avventuroso, Pericoli indugia volentieri nei boschi, sono molti i paesaggi a loro dedicati, dove compaiono cavalieri e cinghiali e dove alberi giganteschi incutono timore proprio per le loro dimensioni. Si potrebbe anche, a questo punto, leggere il bosco in chiave psicanalitica. Una esplorazione sessuale? Un rito di iniziazione? O anche soltanto un fantastico riposo della mente , come sembra dire il paesaggio in cui si vede un giovane disteso ai margini di un bosco, con accanto un libro che non leggerà. Lasciamo al lettore la scelta della strada da percorrere, magari in compagnia di Jung. Certamente a Pericoli non dispiace la magia che come per incanto moltiplica gli oggetti. Qui troviamo cornucopie e vasi stracolmi, che un po’ fanno pensare alle decorazioni secentesche amanti del tutto pieno . E visto che abbiamo accennato alle trame artistiche , a quel gioco di citazioni più o meno esplicite che accompagnano ogni creazione, diciamo subito che a Pericoli non dispiace affatto mettere in chiaro i suoi punti di riferimento. Come quando dichiara di “Rubare a Klee” (è il titolo di una piccola serie, ma alle spalle c’è un libro di qualche anno fa) . Così non gli dispiace citare direttamente Bruegel o Friedrich, Rembrandt o Matisse. In maniera meno evidente e diretta possiamo rintracciare allusioni a Fausto Melotti o alla “Città che sale” di Boccioni e certamente la lista non finisce qui, ma a noi serve ora soltanto per dire che il racconto in questi paesaggi è anche un racconto colto che non disdegna affatto le note a piè di pagina. D’altra parte bisogna considerare che Pericoli domina perfettamente i suoi soggetti e ama talmente metterli in scena che a volte ne dispone gli elementi addirittura su un tavolo i cui bordi a volte si vedono molto bene e altre volte appena si intravedono. Nel libro ( che si vale in modo molto parco di citazioni eccellenti) viene trascritta una lettera inedita di Gesualdo Bufalino che avverte Pericoli: guarda che l’altra notte ho sognato una cosa buffa, una specie di avventura che si svolgeva su uno dei tuoi tavoli… Dal tavolo al palcoscenico il passo non è lungo: Pericoli ha lavorato per il teatro , allestendo scenografie per Rossini per esempio. Sa dunque che quando costruisce un paesaggio è lui il demiurgo, anche se poi il paesaggio stesso vive una vita propria. E non è un caso che spesso nei paesaggi di Pericoli figuri il personaggio del pittore: un elemento biografico , ma anche un omaggio al mestiere visto nella sua ricchissima tradizione. Troviamo infatti diverse volte il pittore e la modella, ma anche “Il pittore nella valle solitaria” che a giudicare dagli elementi paesaggistici sembra citare il celebre western con Alan Ladd, e persino il “Pittore che dipinge la sua ombra”: una deliberata invasione di campo che sta a testimoniare la consapevolezza che non ci sarebbe paesaggio dipinto senza un autore che se ne prenda cura. In altri termini l’artista potrebbe, per tornare a quanto si diceva prima, “far saltare il tavolo”.
In genere invece il pittore tende a conservare e a rendere eterno e in qualche modo sacro il paesaggio che ha dipinto. E’ recente la polemica contro certi lavori stradali che altererebbero i paesaggi dipinti da Piero della Francesca e si sa che le vedute di Dresda di Bellotto servirono anche a rimediare i guasti della guerra. Come ho accennato prima, Pericoli ama anche leggere i suoi paesaggi dall’alto . Dalla geologia alle mappe , non senza l’impertinenza surreale di una collina che ripensa la propria storia. D’altra parte sappiamo che i paesaggi conservano il passato , ne sono la memoria vivente. L’ultima citazione di Pericoli è presa da Borges e dice così: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province , di regni, di montagne, di baie, di vascelli,di isole, di pesci, di case, di strumenti , di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire , scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. Un autoritratto, dunque che completa la serie infinita di ritratti che Pericoli ha dipinto. Non solo: che avalla quel che Pericoli ha sempre sostenuto e cioè che i paesaggi sono volti e i volti sono paesaggi. Non è anche questo libro di paesaggi materialmente collocato accanto a quello dei ritratti uscito qualche anno fa? L’analisi di Borges è una chiosa perfetta.
*Questo articolo è pubblicato su “Lo Straniero” n.164.