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Manuele Fior e l’architettura: una conversazione

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di Andrea Alberghini

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Sei illustratore e autore di fumetti ma hai una formazione da architetto e fino a qualche tempo fa hai lavorato parallelamente come fumettista e architetto. L’interesse per l’architettura e quello per il fumetto – inteso non come “disegno” ma come “narrazione attraverso il disegno” – sono nati contestualmente o uno ha portato all’altro in maniera più o meno naturale?

Il mio interesse per il fumetto è nato in tenerissima età: già alle elementari confezionavo piccoli quadernetti a fumetti. L’interesse per l’architettura, invece, è nato in maniera un po’ tangenziale. Nella mia famiglia l’arte non era vista di buon occhio per cui sono stato “costretto” a indirizzarmi verso studi più scientifici. Il massimo per i miei genitori sarebbe stato che mi iscrivessi a ingegneria, ma ho trovato un compromesso in architettura. All’inizio, dopo i primi due anni, avrei voluto mollare. Poi per vicende varie ho continuato e ho iniziato a lavorare nello studio di un professore, Romano Burelli, che mi ha molto entusiasmato. Lui era architetto e pittore, per cui abbiamo trovato dei campi in comune. Da lì ho cominciato a interessarmi veramente all’architettura, soprattutto andandola a vedere. Con i miei compagni d’università facevamo i tour in Francia per vedere le opere di Le Corbusier… Devo dire che ho sempre tenuto architettura e fumetto molto separati. E’ soltanto adesso che comincio a sperimentare delle possibili contaminazioni, che nella maniera più banale sono quelle di inserire degli edifici che ho studiato, su cui ho lavorato, nei fumetti. Ma il discorso si può spingere più in là della sola citazione. Il fumetto ha grandi capacità visionarie dalle quali anche l’architettura ha attinto. Crea immagini che possono diventare idea di architettura. Penso al lavoro che ha fatto Moebius su Venezia Celeste o sull’idea di una città verticale a più piani che poi è stata riutilizzata negli immaginari alla Blade Runner. Per cui, senza grandi manifesti programmatici, direi che l’interesse per l’architettura sto cercando di riconvogliarlo all’interno delle mie storie non citando semplicemente edifici noti ma anche vedendo se si può fare un discorso sulla città, di descrizione dei cambiamenti della città.

Quali sono stati i tuoi riferimenti più importanti, negli anni della formazione, nei campi dell’architettura e del fumetto?

L’università di Venezia si concentrava soprattutto sull’architettura razionalista e le declinazioni dello Stile Internazionale in Italia. Per cui c’era Le Corbusier un po’ dappertutto e il Razionalismo italiano, ad esempio Terragni. Io ho fatto un po’ di fatica all’inizio ad appassionarmi a questo tipo di architettura; penso che sia un’architettura che va soprattutto visitata oltre che studiata. Per conto mio, facendo un po’ il bastian contrario, mi sono appassionato invece alla corrente organica che tra l’altro aveva portato a Venezia Carlo Scarpa e anche architetti friulani quali Marcello D’Olivo e Angelo Masieri. Per cui – forse è contradditorio dirlo – le grandi ispirazioni che mi ritrovo sempre tra i piedi anche adesso sono due correnti antitetiche: il Razionalismo, lo Stile Internazionale, e l’architettura organica che, non essendo mai stato in America, ho cercato di visitare in Italia. In Friuli ci sono diverse opere di Scarpa e Masieri. Un’architettura in cui – pensiamo a Scarpa – il disegno ha una parte preponderante: molte delle cose che succedono nel progetto passano attraverso la mano. E’ stato proprio durante l’università che ho abbandonato le letture supereroistiche nei fumetti e mi sono avvicinato a Lorenzo Mattotti, un disegnatore che aveva fatto a sua volta studi di architettura e che mi sembrava trasponesse l’intensità che trovavo in certe opere di architettura nel fumetto; soprattutto l’ampiezza del suo sguardo, che teneva conto anche di tanti metodi compositivi che ritornano nella progettazione architettonica. Era la cosa più attuale che vedevo nel fumetto e che rispettava i miei interessi. Ho sempre avuto in realtà una fascinazione per questi architetti fumettisti. Penso anche a Guido Crepax. In molti mi hanno chiesto quanto poi dell’architettura entra nel fumetto, ed è strano perché non è solo la citazione diretta di un edificio; nel disegno di una pianta d’architettura e nella composizione di una tavola di fumetto ci sono tanti punti in comune, come quando si guarda un quadro di Mondrian e una pianta di Mies van der Rohe: hanno delle analogie. In architettura si studia Teoria della Composizione, una serie di regole non dette che di fatto corrispondono alla struttura di una pagina di fumetto. Per la mia idea di fumetto – che non è un’idea “alla francese” per cui si procede per strisce – la visione della pagina intera detta la scansione delle vignette e dunque detta anche il ritmo della storia.

Hai detto di aver tenuto sempre separate le due attività di architetto e fumettista. E’ stato difficile conciliarle? Perché a un certo punto hai deciso di abbandonare il campo dell’architettura e dedicarti esclusivamente al fumetto e all’illustrazione?

Conciliarle è stato molto difficile perché sono due mestieri che richiedono entrambi una dedizione totale. Mi è stato chiaro fin dall’inizio che avrei intrapreso o una carriera o l’altra. Ricordo che una delle primissime volte che mostrai i miei disegni a Mattotti lui mi disse: “Va bene, ma tu cosa vuoi fare? L’architetto o il fumettista?” La scelta è stata frutto di una contingenza. Nei cinque anni che ho passato a Berlino lavoravo come architetto e dopo il grande boom della ricostruzione di fine Anni Novanta mi sono trovato nel 2002-2003 con sempre meno lavoro. Lo studio per cui lavoravo aveva chiuso e nel tempo libero facevo piccoli lavoretti di illustrazione. Poi un editore si è proposto di pubblicare una mia storiella e da quel momento, nel campo dell’architettura, ho cominciato a dedicarmi gradualmente a lavori più esecutivi (3D, disegno) e sempre meno alla progettazione, perché il progetto ti chiede il sangue. A un certo punto è ritornata una passione molto forte per il fumetto. Il panorama del fumetto in Italia, poi, stava cambiando: era nata Coconino, c’era possibilità di pubblicazione. Così ho dovuto scegliere e ho deciso di passare al fumetto a tempo pieno. Da ormai 6-7 anni è il mio lavoro principale.

Fior 01 - Les gens le dimanche [original art - tracing paper effect]

Ti è rimasta la voglia di costruire? Pensi che potresti tornare un giorno all’architettura se ci fossero le condizioni o credi che ormai sia un capitolo chiuso?

La voglia mi è rimasta, anche se l’architettura è un campo che devi frequentare per non arrugginirti. Sinceramente non penso di riprenderlo più come lavoro. Però in futuro mi piacerebbe, nel mio piccolo (anche solo nella mia vita privata), tornare a progettare. Quello che mi manca molto è la fase di progetto: un lavoro d’equipe, molto vario, che richiede di fare modelli, uscire in cantiere, stare in studio… Però non penso, realisticamente, che la riprenderò in mano professionalmente perché ormai sono troppo immerso nel mondo del fumetto.

Hai mai utilizzato il fumetto nella tua attività di architetto o studente d’architettura, magari per presentare un progetto introducendo elementi narrativi?

No. Ho lavorato nello studio di Romano Burelli – molto rigido d’impostazione però anche molto personale – e lì ho tirato una linea netta. Il progetto di architettura concretamente non ha niente a che fare con il fumetto. Ho sempre cercato la maniera più scarna possibile nella presentazione grafica di un progetto per metterne in risalto la qualità intrinseca e non la rappresentazione stessa. Certo, ero molto affascinato dai disegni di Le Corbusier, di Mies van der Rohe, ma ho sempre tenuto le due cose ben separate.

La rappresentazione del progetto architettonico attraverso modalità grafiche inconsuete, tra cui anche il fumetto, è una cosa che, probabilmente anche per fattori generazionali, sta prendendo piede. Hai un’opinione in merito?

Non sono molto aggiornato su questo tema. I miei ultimi ricordi sono quelli di Archigram! Comunque sono molto scettico su rendering, 3D… E’ ovvio che quando si presenta un progetto magari lo si fa a qualcuno che non è in grado di interpretare una pianta o un alzato, ma secondo me l’architettura è contenuta nella pianta e nella sezione. Per cui sono scettico sull’estetica “renderizzata” dell’architettura. Penso comunque che se una cosa è fatta in maniera intelligente e con un po’ di ironia non guasta. Mi sembra che anche Botta avesse fatto qualcosa, un fumetto veloce che spiegava la sua architettura.

Credo che il problema stia soprattutto nella competenza di chi adopera questo mezzo.

Chiaramente il fumetto ha delle regole precise. L’idea di improvvisare solamente a scopo divulgativo non mi sembra una bella idea.

Fior 07 - L'intervista [FLW in Udine]

In ogni tuo libro si ritrovano aspetti legati alla tua formazione da architetto che si manifestano prima di tutto in un’evidente competenza spaziale e tipologica. Ma c’è altro. Le tavole originali di Les Gens le dimanche, una delle tue prime opere, sono realizzate con lucido e sottolucido come i disegni per la riproduzione eliografica che si facevano una volta, anche se il libro stampato è in bianco e nero e non c’è la ricerca di un effetto particolare.

Quando mi sono riavvicinato al fumetto lavoravo a tempo pieno come architetto e non ero al corrente di cosa si facesse in giro. Perciò ho utilizzato i materiali che avevo sottomano nello studio. Non era qualcosa di legato a esigenze di stampa; erano semplicemente materiali con cui avevo pratica.

In Rosso Oltremare il protagonista, Fausto, è un architetto ossessionato dall’inconciliabilità tra razionalità e leggi naturali. Molto bello il tuo riferimento al Modulor nell’ombra che Fausto proietta, nel suo delirio, con il braccio alzato. Fausto, poi, si perde nel Labirinto, che diventa uno spazio metaforico. La ricerca di un’architettura assoluta, inattaccabile, è solo uno spunto narrativo o è un problema che ti sei realmente posto? Cos’è per te il Labirinto?

No. L’idea di architettura cui sono rimasto legato e che mi appassiona è quella wrightiana di un’architettura al contrario “attaccabile” cioè che viene attaccata dal tempo, che viene posseduta dalla natura. Mi colpisce come i ruderi di alcuni edifici di Wright siano ancora belli, abbiano una forte plasticità, una bella forma. Sono sempre stato sedotto dall’architettura che piano piano viene inglobata dal tempo e dal paesaggio. Mi sembra che Ruskin abbia parlato di questo tema. Mi ha sempre infastidito invece il fatto che ad esempio Ville Savoye dovesse essere continuamente ripulita perché il suo senso era l’alienazione dal paesaggio, il fatto che fosse veramente una specie di astronave sollevata sul terreno. Chiaramente ci sono altre cose che mi appassionano tantissimo di Le Corbusier. Dunque in quel senso lì no: non ho mai ricercato l’idea di un’architettura immutabile e inattaccabile.

Per quanto riguarda il labirinto, chi lo sa? E’ una domanda difficile. Devo ammettere che in Rosso Oltremare non solo il problema non è risolto ma anche la trama del libro non è risolta. Se potessi tornare indietro cambierei un sacco di cose perché ci sono grossi problemi di sceneggiatura e non si capisce bene cosa simbolizzi questo labirinto. In realtà io l’ho inserito perché flirtavo con tutte queste immagini della mitologia, il minotauro, il rapporto tra padre e figlio… Il labirinto mi è tornato buono come una specie di setting cinematografico in cui si svolgeva una parte del racconto.

Molte volte mi ritrovo a dare un’analisi teorica a posteriori delle cose che scrivo perché quello che viene prima non è un’idea, un progetto teorico ma soprattutto la voglia di entrare all’interno di un enigma e tentare con la narrazione di districarmi in questo enigma. Nel caso di Rosso Oltremare non ci sono riuscito.

Fior 02 - Rosso Oltremare [Modulor]

Decisamente appropriato, mi pare, per una storia con al centro un labirinto! L’architettura del Labirinto è un’architettura metafisica (penso all’immagine del cortile interno) come metafisica è anche l’architettura onirica del sogno di Piero sul treno per Assuan in 5000 chilometri al secondo. Hai anche realizzato una storia breve intitolata Giorgio e il Drago che fa riferimento a Giorgio De Chirico. Hai mai pensato di utilizzare il fumetto per dare sfogo a fantasie architettoniche non realizzabili nella realtà?

Quando ho iniziato a fare fumetti ero molto condizionato dal lavoro di Lorenzo Mattotti e volevo che il fumetto fosse una deriva rispetto ai disegni di architettura – necessariamente molto concreti, molto tecnici – che facevo in quel momento. Per cui nelle prime storie a fumetti c’era un’architettura utopica, metafisica, da sogno. Piano piano questa cosa è venuta meno perché facendo pace con l’architettura esistente ho ritrovato proprio il gusto di disegnare l’architettura “così com’è”. Ne L’intervista la casa in cui vive Raniero, il protagonista, è proprio una delle Usonian Houses di Wright di cui ho preso piante, sezioni, foto interne… Volevo proprio ricreare il mio modellino. Mi è servito tempo per ritornare all’architettura realistica. Non volevo si dicesse: “Lui è architetto, mette l’architettura nei suoi fumetti e questa è la cifra del suo lavoro”. Sono pochi gli autori che secondo me riescono a integrare l’architettura realistica all’interno del fumetto. Uno di questi è Paolo Bacilieri che riesce a fare un lavoro quasi documentale su come cambia la città, come cambia il paesaggio, e che tra l’altro ha un occhio attentissimo anche alle architetture meno note. Penso a quelle di Milano, di Caccia Dominioni o dello Studio BBPR. Mi piace tornare a guardare veramente la città, con gli occhi di architetto. Il lavoro che ho fatto su L’intervista è stato proprio quello di guardare la città di Udine, una città non particolarmente conosciuta che però in realtà contiene paesaggi molto diversi, dai quartieri popolari al centro storico alla periferia, che è nuovissima. Anche Gregotti ci ha costruito delle cose. Così facendo mi sembra di tenere assieme anche la mia vita professionale precedente.

E’ possibile istituire un parallelo tra questo tuo approccio alla rappresentazione dell’architettura e il tuo modo di disegnare i corpi?

Per non ottenere l’effetto posticcio di “edificio ricalcato e personaggio che ci cammina di fronte” il disegno deve avere un’unità. Non si sta facendo un collage; si tratta del disegno di un tutto. Poi nel disegno l’edificio può risentire anche delle emozioni del personaggio. E’ giusto che sia così, nel fumetto. L’esempio più lampante nel mio caso è La signorina Else dove, guardando al lavoro di Klimt e Munch, ho cercato di trovare una linea che potesse saltare dal collo di un personaggio al tetto dell’edificio che gli sta dietro proprio per far sentire questa comunione tra personaggio e sfondo architettonico e paesaggistico. Ne L’urlo di Munch c’è questa figura ondulata che urlando fa quasi ondulare tutto il paesaggio: il ponte, le nuvole, il fiordo… Quindi per me non ci sono due linee separate tra personaggio e decor, la cornice. Esiste una sola linea.

Anche se devo dire che apprezzo molto quando in certi casi si sente la differenza della linea. Penso soprattutto ad Akira di Katsuhiro Otomo – dove credo addirittura che i personaggi fossero disegnati da lui e i fondali inchiostrati da qualcun altro – in cui si avverte questa antinomia tra carne e macchina o cemento. Però giocata in maniera intelligente. Diventa un discorso a se stante: l’umanità all’interno di questa giungla di grattacieli. Nel caso mio penso che non sia possibile dividere le cose così nettamente.

Ognuno dei tuoi fumetti è caratterizzato da una tecnica di disegno diversa, che varia in funzione di ciò che intendi raccontare. Quanto è importante per te il disegno, non solo nella realizzazione del fumetto ma ancor prima nella concezione stessa della storia? Possiamo individuare un parallelismo tra l’attività di progettazione svolta da un architetto che passa sempre, preliminarmente, attraverso il disegno?

Certamente. Certo gesti di architettura stanno nella mano, prima che nella testa. In egual misura per i fumetti è il disegno che racconta tutto. Certo, a volte la narrazione si appoggia maggiormente a un dialogo. Ma per me la narrazione a fumetti è un tentativo di decifrare delle immagini che vengono prima di tutto. Non riesco mai a intendere il disegno come esecuzione di uno storyboard, una sceneggiatura. Non sono mai riuscito a lavorare in questa maniera e penso non ci lavorerò neanche mai. Per me il disegno può cambiare tutto all’interno della storia. Il disegno viene prima.

Fior 08b - L'intervista [Louis Kahn in Udine]

Personalmente ritrovo nei tuoi fumetti la triade luogo/contesto/riferimenti che caratterizza l’approccio al progetto architettonico. Hai uno stile personale e riconoscibile, ma utilizzi di volta in volta tecniche di disegno diverse, che diventano elemento della narrazione. E sei certamente sensibile al contesto storico, artistico e culturale in cui ambienti le tue storie, introducendo riferimenti che arricchiscono l’efficacia della tua opera. Ti ritrovi in questa affermazione o ritieni che la tua formazione culturale in campo architettonico non abbia nulla a che fare con il tuo approccio alla narrazione a fumetti?

Non so se il mio modo di fare fumetti derivi dalla mia formazione da architetto. Ci sono disegnatori che conservano sempre la stessa tecnica e lo stesso approccio al disegno e lo portano avanti fino a ottenere uno stile molto identificabile anche cristallizzato, quasi perfetto. Penso ai grandi maestri come Moebius che portano avanti non soltanto una firma, uno stile, ma un sistema di pensiero. Ci sono invece altri disegnatori, come me, che si stufano di uno strumento, di una tecnica. Io ho un rapporto molto giocoso con il disegno e voglio che quando disegno sia un momento in cui mi diverto. Questo non implica che non ci sia una certa disciplina. Quando inizio una storia sono pochissimi i materiali che utilizzo. Però si tratta di cercare prima nella cassetta degli attrezzi quale strumento va più vicino all’idea che ho in testa e, una volta che lo ho trovato, imparare a usarlo. Non so se in architettura ci sia un approccio simile a questo. Penso sia invece più legato alla mia passione per il disegno, per le tecniche, per la pittura che non ho mai imparato. E’ una visione giocosa.

Le ambientazioni delle tue storie a fumetti seguono il tuo vissuto personale: Berlino, la Romagna, Oslo, Assuan, Udine. Si può parlare nel tuo caso di “autobiografia dei luoghi”?

Sicuramente. Ciò deriva anche dalla scuola di Igort che ci ha insegnato che non si può parlare delle cose che non si conoscono. Siccome per me il luogo è molto importante, nei fumetti uso necessariamente luoghi che conosco. Forse, attraverso il fumetto, comincio anche a conoscerli meglio, in modo diverso. Le tematiche fanno certamente parte del mio sentire, ma i luoghi sono luoghi in cui ho abitato e che penso di conoscere abbastanza bene. Anche l’Egitto ho avuto la fortuna di conoscerlo perché ci ho lavorato; non ci sono andato da turista e mi ha dato così tanto che avevo l’urgenza di metterlo sulla carta.

A questo proposito, ne L’intervista racconti il territorio udinese in cui sei cresciuto, e ci inserisci le architetture di Wright e Kahn che hai studiato e che hanno colpito il tuo immaginario. Possiamo interpretarlo come un lavoro più ampio sulla tua memoria personale?

Prima dicevo che non disegno edifici impossibili. Quello che ho fatto di impossibile ne L’intervista è stato una specie di capriccio piranesiano, cioè mettere edifici che mi piacciono ancora tanto, che mi piace disegnare, a Udine. E’ un po’ una trappola per gli architetti. L’architettura mi appassiona ancora molto visitarla, mi appassiona disegnarla. E poi c’è un discorso più funzionale alla storia: è strano che quando metti un edificio di Kahn in una storia di fantascienza questo venga percepito come un edificio futuristico mentre è stato realizzato negli anni Sessanta. L’architettura moderna ha la caratteristica di avere una specie di inerzia visionaria. Gli architetti che l’hanno progettata avevano una potenza visionaria che quando la guardiamo oggi ci parla di cose che non sono ancora avvenute, di un futuro che non è ancora accaduto. Trovavo questo discorso abbastanza interessante. Come quando guardi le foto di Villa Roche di Le Corbusier, ci vedi un’auto vicino e dici: “Ma cacchio, avevano un’auto a manovella e l’architettura mi sembra del 2020”. Mi fa piacere che questa cosa alla fine abbia funzionato. Chi non conosce l’architettura pensa che siano edifici futuristici e inventati; invece no, sono tutti costruiti e anche più di cinquant’anni fa.

Ti saresti sentito libero di utilizzare nei tuoi fumetti questi capolavori dell’architettura, se avessi continuato a portare avanti anche l’attività di architetto?

E’ difficile rispondere a questa domanda perché portare avanti entrambe le attività sarebbe stata una cosa troppo complicata. E’ la stessa cosa che mi è successa quando mi sono messo a riguardare Klimt mentre facevo La Signorina Else. Ci sono immagini che non sono diventate delle icone per caso, ma perché sono il frutto di un disegnatore di genio. All’inizio ero titubante nel riguardare il lavoro di Klimt. Poi ho capito che era la cosa giusta da fare: cercare di imparare, farmi raccontare la sua epoca dal suo disegno. Penso di aver usato lo stesso metodo con l’architettura ne L’intervista. C’è tanta architettura ne L’intervista: c’è un pezzettino del Palladio, ci sono le case popolari, c’è tanto paesaggio. Ho pescato dappertutto per raccontare quello che volevo dire. L’architettura può essere disegnata in molti modi: può essere disegnata per essere costruita, può essere dipinta, puoi farle dire tante cose. A me non interessa tanto la citazione in quanto tale; queste architetture mi è piaciuto metterle all’interno della storia perché sono delle vere passioni per me. Non è un obbligo. E’ molto legato al mio piacere di mettermi a studiare la pianta, andare in giro con la Vespa a fare foto… E’ questa la cosa che mi scalda.

Nelle tue storie l’elemento femminile è molto importante. Il ruolo dei personaggi femminili è tutt’altro che scontato e per certi versi anche destabilizzante. Nella storia breve Signorina Lubiana racconti una “donna-città”. Vedi un parallelismo tra la seduzione femminile e quella di un luogo?

Ovviamente non sono il primo a farli, certi parallelismi. Penso alle Città invisibili di Calvino. Ricordo che quando sono arrivato a Berlino, per studiare, è stato un momento molto bello della mia vita perché scoprendo una città ho scoperto anche molta libertà. Imparare una lingua nuova, conoscere gente nuova per me è stato come l’apertura di un orizzonte. In questo senso l’innamoramento che si ha verso una città è quasi lo stesso sentimento che si prova quando si trova una persona speciale. Signorina Lubiana è una storia di poche pagine in cui mi sono soprattutto divertito a giocare. E’ un po’ uno scherzo. In Les gens le dimanche, invece, per il protagonista principale lasciare la città equivale veramente a lasciare la ragazza che lo ha conquistato. Penso sia un’analogia che mostra tutto il rispetto e l’amore che ho per la donna, che io vedo come una città da scoprire, un qualcosa di molto vasto, sinonimo di tutto ciò che puoi realizzare. C’è effettivamente un filo rosso che attraversa i miei libri ed è l’incontro con un’altra persona, l’incontro di una nuova città.

* Questa intervista è stata originariamente pubblicata sulla rivista di architettura MAS Context n.20: Narrative.

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