di Antonio Solinas
«Quando hai un nome poco ispirato come il mio, faresti qualunque cosa per farti notare. Anche scrivere fumetti»
– John Smith
Ci sono autori di cui si parla sempre e comunque, anche a sproposito, persino esagerandone le qualità. Ci sono poi quelli meno fortunati, che meriterebbero il plauso generale e invece rimangono poco visibili e di nicchia. Infine, al di fuori di questi due gruppi, c’è John Smith. Di cui non parla mai nessuno (quantomeno in Italia). Ed è un peccato, perché Smith, classe 1967, è uno degli sceneggiatori di fumetto britannici di maggior classe.
Che Smith sia poco noto in Italia, d’altronde, è inevitabile, considerato che dalle nostre parti restano inediti quasi tutti i suoi lavori, a parte forse il notevole Hellblazer #51 (ma ci torniamo). La produzione dell’autore inglese si è vista in massima parte in Gran Bretagna, tranne poche esperienze negli USA, tutte incredibilmente sfortunate – giocoforza, una bella ipoteca sulla sua (mancata) notorietà. Eppure, di esperienze di cui gloriarsi Smith ne avrebbe eccome: un esordio a diciannove anni sulla rivista “2000 AD” (1986); ventiduenne, la pubblicazione dei New Statesmen in USA come serie limitata in formato prestige (1989); la creazione di Devlin Waugh, il solo personaggio capace di detronizzare Judge Dredd nei sondaggi annuali di 2000 AD per la miglior serie (1992); Slaughterbowl, l’unica storia della “Summer Offensive” di 2000 AD (otto settimane di follia senza controllo) a non essere stata scritta né da Grant Morrison né da Mark Millar (1993), e via dicendo. Non male per uno sconosciuto, no?
Gli inizi di carriera di Smith sono fulminanti. Dopo qualche storia per la DC Thompson, scritta quando non era ancora diciottenne, il nostro arriva presto a 2000 AD, la storica testata inglese su cui si sono formati praticamente tutti i maggiori talenti britannici. Da subito, il giovanissimo sceneggiatore inizia a impostare quello che poi si è trasformato nello “Smithverse”, ovvero un continuum extra-editoriale in cui i personaggi inventati da Smith si muovono abbastanza liberamente. In particolare, fondamentali in questo costrutto sono i personaggi di Indigo Prime, l’agenzia extra-dimensionale che si dedica al mantenimento dell’armonia del multiverso (inventata in un episodio di Future Shock del 1986), che sin dall’inizio rappresenta una sorta di “collante” dell’opera smithiana. A partire da Tyranny Rex (con Steve Dillon, apparsa per la prima volta in 2000 AD #566 del Marzo 1988), propaggini di Indigo Prime si vedranno un po’ dappertutto nei fumetti di Smith, facendo addirittura capolino in una miniserie Vertigo, la sfortunata Scarab.
The New Statesmen: sublimare gli anni Ottanta
A partire dal 1988, con The New Statesmen, Smith inizia a far seriamente parlare di sé. The New Statesmen era una serie originariamente presentata su Crisis, una rivista a fumetti “adulta” della Fleetway che, sotto la guida illuminata dell’editor Steve McManus, aveva l’ambizione di proporre fumetti maturi e intelligenti per un pubblico che iniziava a stancarsi dell’irrigidimento progressivo di 2000 AD. La rivista di Judge Dredd, infatti, aveva messo ormai da parte l’atteggiamento punk, iconoclasta e irridente degli esordi per diventare (relativamente) conservatrice. The New Statesmen, insieme alle altre serie messe in lavorazione per Crisis, era stata programmata per presentare cicli di storie intesi per una successiva raccolta in volume (cosa che effettivamente avvenne per la mini). Creata insieme al disegnatore Jim Baikie, si inseriva nella tradizione della “fiction sociale” tanto radicata nel fumetto inglese e, per i primi numeri di Crisis, era un perfetto contraltare a World War Three, di Mills ed Ezquerra, fumetto che faceva del taglio realista e dell’analisi delle relazioni razziali i propri punti forti.
L’influenza di Watchmen (all’epoca appena concluso in USA) è palese: The New Statesmen è un thriller politico che nei toni, nelle atmosfere e nello stile (vedi ad esempio la presenza di parti scritte che integrano le pagine a fumetti) parte in con un evidente debito nei confronti del lavoro di Moore e Gibbons. Seppur poco originale nelle premesse (siamo sempre nei paraggi del complotto supereroistico a sfondo apocalittico), tuttavia il fumetto prende presto un’identità propria, e lo fa intelligentemente andando a esplorare quelle aree tematiche in cui Moore, a causa del ferreo controllo sulla trama di Watchmen, non era potuto arrivare, se non tangenzialmente. Il sottotesto politico, in un mondo di supereroi tanto spaventosi quanto familiari, per Smith diventa un grande canovaccio per esplorare in maniera più estesa e compiuta di Watchmen quelli che diventeranno due dei capisaldi della poetica dello sceneggiatore britannico: la sessualità polimorfa, il pop e l’horror psicologico. In questo senso, la natura “ultraumana” degli Statesmen e i loro comportamenti scandalosi e irriguardosi verso la morale vanno oltre l’analisi “plot-driven” di Moore, per dipingere un affresco evolutivo che, pur non riuscendo a svincolarsi totalmente dalla pesante eredità dell’opera cardine del “revisionismo supereroistico”, se ne distacca in maniera decisa in quanto a svolgimento (e perché no, modalità: le pagine scritte di Watchmen diventano qui articoli di giornali scandalistici, irresistibili per leggerezza, e di libri di ambiziosa ispirazione intellettuale).
Al contrario delle allusioni di Watchmen, l’omosessualità (e la polisessualità) dei personaggi di The New Statesmen è esplorata in maniera aperta. Oltretutto, prendendo le mosse dall’autocontenuta ucronia watchmeniana, Smith è in grado di mettere in scena un mondo futuristico che supera il modello proprio laddove Watchmen era carente, ovvero nella capacità di catturare lo spirito (grafico) del tempo, e proporre un futuro credibile. In Watchmen, il pur interessante universo visuale della storia rimane comunque una nota a piè pagina, e per di più piuttosto rigida. Favorito forse dalla giovane età, invece, Smith, grazie anche all’aiuto del disegnatore Jim Baikie ma soprattutto dello über-mod (all’epoca) Sean Phillips, sublima gli anni Ottanta (Phillips, in particolare, si supera in questo senso nell’episodio #5) in una ucronia che deve più a Tamburini e Liberatore che non a Moore e Gibbons. Acconciature e abiti acquistano una patina d’irreale realismo, immortalando una stagione della moda tanto passata quanto memorabile. Vale la pena ricordare che, ancora oggi, gli esempi riusciti di questo approccio alla fantascienza non sono molti (vengono in mente Zenith di Morrison/Yeowell e Skreemer di Milligan/Ewins, oltre al Ranxerox dei già citati Tamburini e Liberatore).
Gli Statesmen sono ossessionati dal proprio aspetto, proprio per questo apparendo superuomini “umani, troppo umani”. Alcune caratterizzazioni paiono sopra le righe o stereotipate (come quella di Vargas, uno Statesman “cattivo” dall’immagine troppo legata ai cliché:, un laido-violento in stile Comico di Watchmen). Ma, dal punto di vista visivo, tutto fila: giacche e camicie col collo alla coreana, pantaloni e stivaletti di ispirazione mod, capigliature cotonate e piene di lacca, accessori retro-futuristici riflettono il modo di vestirsi più cool per gli adolescenti della fine degli anni Ottanta, e interpretano lo spirito del tempo in maniera più compiuta e accurata di quanto avrebbero mai potuto fare due autori maturi e certamente poco “fashionisti” come Moore e Gibbons. È in The New Statesmen, inoltre, che Smith inizia a mettere a punto i meccanismi di una costante tensione “esterna” rispetto alla storia. Questa tecnica, incredibilmente efficiente per tenere desta l’attenzione del lettore, sarà poi impiegata con costante frequenza in altre opere durante tutto il corso della carriera dell’autore, con risultati spesso sopra la media.
The New Statesmen, come detto, venne raccolta in volume e presentata anche negli Stati Uniti. Nonostante questo, nell’introduzione l’autore si lamenta del fatto che l’autorevole testata di critica The Comics Journal non ne abbia mai parlato, nonostante il sostegno a Watchmen. Successivamente a The New Statesmen, John Smith continua a lavorare per il mercato britannico e, sempre insieme a Sean Phillips e sempre per Crisis, crea Straitgate. In Straitgate, lo sceneggiatore inglese inizia a fare i conti con la censura. La storia, infatti, che doveva rappresentare l’epopea di un giovane allucinato che alla fine commette una strage, viene fortemente ridimensionata, pur mantenendo toni assolutamente disturbanti e disturbati.
Devlin Waugh, il primo supereroe britannico omosessuale
Nel 1990, invece, Smith mette a segno un altro colpo, creando Devlin Waugh, l’esorcista numero uno di Vatican City (una delle MegaCity di cui è composto l’universo di Judge Dredd). Waugh è uno dei personaggi più riusciti della carriera dell’autore e un fan favourite ormai di lunga data. Già dalla prima storia, Swimming in Blood, in Devlin Waugh Smith riesce a riversare con naturalezza i propri punti forti: dialoghi magistrali, la capacità di riplasmare il pop nelle sue varie forme, l’analisi della sessualità alternativa, l’horror, la psichedelia più “magica”. In maniera simile a quanto fatto con Sebastian O dal conterraneo Grant Morrison, Smith utilizza la figura del dandy come antidoto al grim and gritty tanto di moda in quel periodo. E lo fa in maniera azzeccata, sin dal primo momento in cui il personaggio appare: “The name’s Waugh. Devlin Waugh. I’m here to steal the show…”.
Waugh è, sin dal nome (un gioco di parole con Evelyn Waugh, scrittore satirico e fondamentalista cattolico) e dall’aspetto (il comico Terry-Thomas, ma con il fisico di Arnold Schwarzenegger), totalmente sopra le righe. Smith si propone di creare un nuovo tipo di eroe, che non ha forti motivazioni – come i classici Judge Dredd o Rogue Trooper – bensì, in puro spirito pop, agisce per esorcizzare uno spaventoso senso di noia. Un vero dandy, per l’appunto. Waugh è inoltre il primo (super)eroe britannico dichiaratamente omosessuale – campione olimpico di arrangiamento di fiori? – e l’autore si giova di questa caratteristica nel modo migliore, sia a livello iconografico che narrativo. In maniera alternativa a Judge Dredd, il personaggio di Devlin Waugh è perfetto per esplorare sfumature altre rispetto ai bassifondi infestati da “perp” che caratterizzano le MegaCity dei Giudici. La tagliente sagacia, le oltraggiose abitudini e l’eccessiva eleganza di Devlin Waugh sono fattori camp che fanno da controcanto alle storie horror in cui Waugh viene catapultato dall’autore. Infatti, la prima avventura dell’esorcista gay, Swimming in Blood, lo vede subito trasformato in vampiro dopo una terrificante odissea ad Aquatraz, penitenziario di massima sicurezza in cui i psicopatici vampiri marini prigionieri iniziano una sanguinosa rivolta. Come detto, Swimming in Blood, disegnata da uno Sean Phillips pittorico in grande forma, vale al personaggio il plauso del pubblico, che lo incorona come più amato dai lettori di 2000 AD nel 1992. Il successivo breve incontro/scontro di Waugh con il peso massimo Dredd, che si conclude in un sostanziale pareggio, ne cementa la reputazione e fa salire le azioni di Smith.
L’ascesa
A questo punto la carriera dello scrittore pare destinata a decollare, soprattutto in prossimità della nascita dell’etichetta per adulti made in DC Comics, la Vertigo, che scippa – per sempre, in molti casi – gli sceneggiatori di punta alla scena britannica. E invece arriva un brusco stop. L’autore che sembrava destinato a seguire le orme di Moore, Gaiman, Morrison e Milligan per diventare l’ennesima superstar britannica della sceneggiatura, entra invece in fase di stallo. Varie vicissitudini (leggi: una serie di colpi di sfiga) gli impediscono di compiere quel potenziale suggerito dalle sue storie. E arriva il 1993, anno in cui Smith scrive il suo primo (e unico) episodio di Hellblazer.
A detta di Smith, anni dopo essersi proposto come successore di Jamie Delano – in una sorta di “playoff” con altri due scrittori in ascesa, Warren Ellis e Garth Ennis, colui che poi ottenne il posto – arrivò una telefonata da parte di Karen Berger, editor della linea Vertigo, che gli chiese di realizzare un numero riempitivo. Nacque così Counting to Ten. Secondo alcuni, il migliore episodio di sempre della serie. Un lavoro in cui Smith mostra un controllo e una sensibilità per l’horror psicologico davvero straordinari. Usando tecniche mutuate più da Ramsey Campbell e Clive Barker che da Alan Moore o Jamie Delano, Smith sposta l’orrore fuori dalla storia, facendoci intuire un mondo di angoscia incomunicabile (quella che fa quasi perdere il senno a Costantine) al di là delle pagine del fumetto, e lo fa senza darci spiegazioni definitive né forzarci in alcuna direzione. Aiutato dal fascino naïf e impressionista di un Sean Phillips pre-ossessione fotografica, in sole 24 pagine John Smith è capace di caratterizzare nella maniera più compiuta tutti i tratti principali di John Constantine, compreso il senso di “inglesità” che aveva caratterizzato il ciclo di Delano. Allo stesso tempo, però, con grande consapevolezza e molta faccia tosta, Smith pratica la strada dell’innovazione. Inizia la storia come una brutta barzelletta, sia in didascalia (“So there I was…”) che visivamente (un inglese entra in lavanderia…) e, in maniera naturale, si permette di svelare subito, una volta per sempre e in maniera inoppugnabile, la bisessualità di John Costantine. A livello di sceneggiatura, i dialoghi e le didascalie (l’io interiore) plasmano il personaggio, aggirando dall’inizio in maniera decisa il cliché di “English bastard” monodimensionale su cui tanti sceneggiatori (alcuni anche bene o molto bene) si sono basati.
Usando una griglia fitta di vignette, interrotta solo all’inizio e alla fine da splash page che dilatano i tempi narrativi, lo sceneggiatore riesce a costruire una storia assolutamente statica, in cui la tensione sale solo grazie alla sua capacità di raccontare l’ineffabile (anche grazie ai ficcanti primi piani di Phillips, che tratteggiano l’atmosfera sporca e deprimente che fa da catalizzatore alle ossessioni più profonde di Constantine – e del lettore). Come ha osservato qualcuno, nelle mani di altri sceneggiatori le ambiguità che rendono la storia un trionfo sarebbero state probabilmente evitate tramite un trattamento “verticale” (leggi: c’è una minaccia e John la affronta). Ma Smith non sembra accontentarsi, e opta per soluzioni più spaventose e meno accademiche. La trivialità dell’orrore – mai come in questo caso horror vacui – che l’autore aveva elaborato fino ad allora e che svilupperà ancora negli anni della maturità, inizia a prendere corpo in maniera diretta, ponendo le basi di quell’approccio “sensoriale” all’horror che caratterizza da sempre la scrittura di Smith.
Non sappiamo come venne accolto Hellblazer #51 presso la Vertigo (ma è facile immaginare in maniera freddina: Smith menziona in un’intervista il fatto che Karen Berger odiasse il suo stile). Sappiamo però che gli valse la ribalta di una serie regolare per la stessa etichetta DC. Un trionfo personale, insomma. Che tuttavia muterà presto nel fiasco più colossale e, forse, nella ragione principale della mancata carriera al di là dei confini natii: Scarab.
La crisi
È il 1993 e la carriera di John Smith sembra vivere un punto di svolta. Sfortunatamente, si tratta di un punto di svolta in negativo, poiché la sua carriera, fino a quel momento in ascesa, si blocca improvvisamente. Con i già noti colleghi britannici Gaiman o Morrison Smith condivide un approccio alla scrittura seriale di gusto punk. Lo stile di Smith, come quello di Morrison o Milligan, è moderno e in qualche modo ribelle nei confronti del mainstream dell’epoca: stratificato eppure pop, ambizioso eppure decadente, ancorato allo zeitgeist eppure psichedelico, fortemente informato al modello di Alan Moore eppure in procinto di liberarsi da un’ispirazione tanto importante quanto limitante.
Con Scarab, lustri prima di un fumetto acclamato come Planetary, Smith aveva avuto un’idea tanto semplice quanto fulminante: creare una nuova (retro)archeologia di eroi bizzarri e stravaganti in un universo (quello Vertigo) completamente vergine. Sulla carta, un’idea vincente. Ma pubblico e dirigenza DC non erano ancora pronti. Scarab, per quanto interessante, appare in molti punti privo di mordente e pesante. Una responsabilità che non sembra imputabile al solo Smith. Infatti, l’autore aveva inizialmente visto accettata la proposta di una versione Vertigo di Doctor Fate. Il personaggio, nelle sue intenzioni, doveva essere sottoposto a un trattamento radicale analogo a quanto accaduto con altre serie Vertigo come Sandman, Animal Man, Shade, Swamp Thing e Doom Patrol. In maniera piuttosto inspiegabile (o forse no, come vedremo), il trattamento presentato da Smith fu ritenuto troppo estremo. A poca distanza da Sandman, Animal Man e Shade, un bel paradosso.
A questo punto, incassato il due di picche, Smith si adattò a creare ex-novo una sorta di analogo del Dottor Fate, appunto lo Scarab. Ma con una conseguenza – ulteriore beffa del destino – di quelle che fanno rodere il fegato a qualsiasi autore seriale: una “demozione” da serie regolare a progetto sub condicione, nella forma di una miniserie in otto parti. Il suo futuro sarebbe stato determinato dal gradimento dei primi otto numeri: a fronte di vendite sufficienti, Scarab sarebbe diventato un mensile regolare. Un vincolo non da poco. E i risultati della battaglia editoriale sono evidenti. In particolare dall’episodio #6, in cui pare Smith si sia ormai stancato dell’esperienza (poi definita la peggiore della carriera): nonostante una non comune padronanza del ritmo e alcune trovate efficaci, Scarab si “sgonfia” subito. La narrazione si fa piatta e Smith ricorre all’inserimento di una storyline sfacciatamente ispirata a Indigo Prime, di cui compaiono persino gli agenti Dazzler e Creed (episodio #7). La serie si chiude in maniera confusa e forzata dopo 8 numeri che sembrano mettere un punto sulla carriera USA dell’autore, che da quel momento in poi scompare dal mercato statunitense, se non per episodi sporadici.
Scarab resta interessante anche – soprattutto – perché tradisce una certa voglia da parte di Smith di stupire e di strafare. Per certi versi, il suo approccio sembrava avere una chiara missione: superare a tutti i costi i limiti dell’horror psicologico “classico” Vertigo, gettandosi a capofitto verso gli abissi di un disgusto particolarmente “fisico”. Dal punto di vista artistico, va riconosciuta una certa perizia da parte del team grafico, formato da Scot Eaton e Mike Barreiro (certamente più apprezzabili di altri colleghi Vertigo dell’epoca, anche se indirizzati a copiare la star Bachalo quando necessario), ma che si ritrovano annichiliti da una colorazione impastata e con una paletta totalmente inadatta. Non bastano le eccellenti copertine di Glenn Fabry (e Tony Luke) a sostenere tutto, specialmente quando Smith getta la spugna. Eppure, anche in un esperimento non del tutto riuscito come Scarab, le ossessioni del migliore Smith brillano con tutta evidenza. Abbondano in particolare i tanti dettagli sugli aspetti tattili e sensori, che contribuiscono a creare un notevole senso di disagio e claustrofobia. Senza dubbio pesano gli echi di William Burroughs e David Cronenberg, fra proliferazioni di disgustosi insetti, modificazioni corporali/mutilazioni, situazioni sessuali estreme (suggerite più o meno velatamente) e infezioni. Già dal primo numero, i riferimenti esoterici si alternano agli effetti horror, creando una continuity in stile Doom Patrol che costituisce il perfetto background per gli eccessi narrativi di Smith. Altri momenti di particolare potenza, durante la serie, sono quelli legati al culto di Pan (brillantemente legato a una setta che credeva nell’automutilazione dei genitali). Eccellente, per quanto à la Morrison, l’uso del Primal Scream generato dalla bomba atomica a Hiroshima, mentre la sottotrama legata alla vicenda di Eleanor, la moglie del protagonista, è fresca e pimpante. Ancora una volta, è il tocco pop di Smith a fare la differenza, nonostante i problemi di gestione. Con un piccolo sforzo di affettuosa nostalgia, Scarab merita un ricordo come glorioso fallimento.
Il ritorno a 2000 AD
Dopo la chiusura dell’esperienza Vertigo, Smith ritorna a scrivere praticamente solo per 2000 AD. Cooptato per la “Summer Offensive” di 2000 AD, in cui Grant Morrison e Mark Millar fanno da co-editor e si scatenano in 8 numeri settimanali ad alto tasso di rozzezza e divertimento scalmanato (fra cui spiccano l’acido Really & Truly di Morrison-Rian Hughes e l’eccezionale Big Dave di Morrison-Millar-Parkhouse), John Smith presenta l’accessibile e sarcastico Slaughter Bowl (disegnato da Paul Peart).
CLASSIC COVER: Slaughter Bowl by Paul Marshall for 2000 AD Prog 849 (21st August, 1993) pic.twitter.com/Ag9XOyZtHI
— 2000 AD (@2000AD) August 21, 2015
Slaughter Bowl è stata definita da alcuni “la storia più malata mai pubblicata su 2000 AD”; una piccola impresa non da poco. La strip inizia con l’uccisione di un panda nella prima pagina e lo smembramento di altri 5 nella seconda, per capirci. Da lì in poi, Smith usa ogni possibile cliché legato ai serial killer in maniera totalmente sopra le righe, ma riesce, sullo sfondo, a prendere di mira le televisioni e persino il sistema sanitario in maniera efficace e precisa. Nonostante la sagacia, Slaughter Bowl non è un gran successo (forse anche a causa delle reazioni contrastanti alla Summer Offensive da parte del pubblico), e Smith scompare dal radar, pur riuscendo a scrivere per le icone storiche di 2000 AD (soprattutto Rogue Trooper e Judge Dredd).
Nel mentre, nel 1995 scrive anche qualche back-up story per l’Ultraverse dell’editore Malibu (poi acquistato dalla Marvel e rottamato negli anni seguenti), ma l’esperienza non è troppo felice e soprattutto non porta a nessun impiego stabile per le major. Il 1997 vede il ritorno di Devlin Waugh, fino ad allora funestato da una serie di incidenti. La situazione si sblocca in un crossover con Judge Dredd, Fetish. Per spiegare i ritardi abissali, legati a problemi editoriali, di riscrittura e a ben tre cambi di disegnatore (Sean Phillips e Ashley Wood rifiutarono la storia, poi assegnata a Siku) che bloccarono per sette anni il personaggio, l’editor David Bishop si inventa l’espressione “la maledizione di Devlin Waugh”.
Nel 1999, la maledizione sembra colpire ancora: John Smith ripropone Devlin Waugh nella storia lunga Chasing Herod/Reign of Frogs/Sirius Rising (disegnata da Steve Yeowell). Nonostante la storia sia divertente e ricca di spunti, citazioni e colpi di scena (fra cui l’apparizione dell’affascinante madre di Devlin, Stella), sembra mancare qualcosa in fase di costruzione della trama. Nonostante questo – e nonostante i disegni di uno Steve Yeowell poco in forma – Smith riesce a infarcire la storia di interessanti riflessioni sulla sessualità (incluse le allusioni a una pedofilia “socratica” di Waugh; e in una scena si vede un bacio interspecie fra due esseri soprannaturali che rimanda chiaramente alla bestialità), di citazioni e allusioni superpop e di richiami all’onnipresente “Smithverse”.
Chasing Herod è la storia più “morrisoniana” di Smith (anche grazie al tratto di Steve Yeowell, che rimanda al classico Zenith), ma le idiosincrasie dello sceneggiatore, che spiccano soprattutto nell’uso dei dialoghi, sempre brillanti, e nel costante occhieggiare-parodiare il mondo della cultura popolare, non riescono a salvarla da una parziale deriva. Anche in questo caso l’autore gioca sulla minaccia esterna e su una tensione che monta fuori tavola come escamotage narrativo (nonostante carneficine enormi e minacce di scala cosmica), ma la mira non è precisa. I Pussyfoot 5, che debuttano in Chasing Herod, a partire dal 2000 sono protagonisti di una successiva serie di storie che fanno perno sull’esoterismo pop già sviluppato in passato (cementando, se mai ce ne fosse bisogno, lo “Smithverso”), e sono raccolte successivamente in volume. Pur non essendo un capolavoro, Alien Sex Fiend esplora con successo il terreno fra il pop e l’esoterismo da cui Smith sembra non poter più sfuggire.
Gli anni 2000, tra Stati Uniti e Inghilterra
Negli anni fra il 2001 e il 2003, Smith riprova l’ennesima avventura negli USA. I risultati sono di nuovo pessimi: il ciclo di Vampirella per la Harris subisce costanti, demenziali censure e l’interessante idea di base di Smith (una Vampirella in versione Valerie Solanas, una “vagina dentata in tacchi a spillo” come peggior incubo dei maschi eterosessuali) viene stravolta da un editore che vuole fare cassa sulla paranoia da undici settembre. Il commento di Smith, che definisce Vampirella la peggior esperienza mai fatta su un fumetto (a parte Scarab) è laconico: «quella roba è cibo per cani […]; mi vergogno persino di essere associato a quelle storie…».
Va molto meglio, invece, con il successivo ritorno di Devlin Waugh nella saga Red Tide, che esce su 2000 AD nel 2003 (dopo un ulteriore, prevedibile ritardo dovuto alla rinuncia da parte di Jock, che aveva già realizzato una manciata di tavole disegnate). Red Tide riporta Waugh alla dimensione dandy horror originale. Le tavole dipinte di Colin McNeil ridanno finalmente tono muscolare e volume al corpo di Waugh, che Yeowell aveva male interpretato. Lo splatter della storia mette in evidenza la capacità dello sceneggiatore nell’orchestrare in maniera coerente thriller a orologeria. La perfetta costruzione della trama, insieme alla interessante caratterizzazione psicologica di tutti i protagonisti – la “cattiva” Lilith su tutti – e l’intelligente gestione di atmosfere claustrofobiche e alienanti evidenzia il tentativo di creare i presupposti per una saga con nemici forti, ma anche la capacità di reinventare ciclicamente un personaggio come Devlin Waugh, che in mani meno abili sembrerebbe destinato a diventare velocemente una macchietta monodimensionale.
Dopo un’altra “pausa” di cinque anni non proprio memorabili sempre in casa 2000 AD, la carriera di Smith sembra rinvigorirsi di nuovo a partire dal 2008, quando esce Dead Eyes, disegnato da Lee Carter, illustratore dallo stile pittorico che aveva esordito su Event Horizon della Mam Tor.
Oltre che per l’iperrealismo grafico Dead Eyes si segnala per i toni duri da storia di guerra e cospirazione, e per una ennesima comparsata degli agenti di Indigo Prime: in questo caso sono Winwood e Cord ad apparire nelle ultime pagine, dando nuovo senso alla vicenda. Questo fa da preludio alla successiva storia di Indigo Prime, la fantasmagorica Anthropocalypse, uscita nel 2011 e disegnata da Edmund Bagwell, disegnatore capace di coniugare tratto iperrealistico e spettacolarità dei layout, cinetici e ispirati a Jack Kirby, che interpretano molto bene le atmosfere psichedeliche richieste dallo sceneggiatore.
Con Bagwell si cementa un sodalizio creativo che sfocia in Cradlegrave (2011). Qui Smith arriva a dare il meglio di sé, con un lavoro di horror (non solo) psicologico che lo riporta alle atmosfere realistiche dei tempi dello sfortunato Straitgate.
Cradlegrave è una storia ambientata in un quartiere ghetto inglese, una di quelle “estati” che la società inglese sembra aver concepito come prigione per una gioventù sbandata e in preda alla droga. Una popolazione la cui unica occupazione è rimanere il più possibile sballata, per non pensare all’incertezza del domani e alla mancanza di prospettive sul futuro, se non quella di finire peggio dei propri genitori. Un (non) luogo dove i valori umani paiono spariti, dove l’asfalto e l’immondizia si trasformano in giungla, e dove vige la legge del “cane mangia cane”. In questo contesto assolutamente deprimente, il ghetto (una QUALCOSAgate che diventa Cradlegrave, con evidenti rimandi a un disperatissimo “dalla culla alla tomba”) si trasforma lentamente in una pentola a pressione, scoperchiando orrori indicibili, terribili nella loro (asimmetrica) bellezza e portando a galla l’orrore, quello vero.
Tuttavia l’analisi di Smith va oltre il classico e un po’ abusato “i mostri siamo noi”. I suoi mostri non sono ipocriti borghesi che si nascondono dietro una moralità di facciata, o vittime che si trasformano in carnefici per colpe esterne, imputabili a una non meglio precisata società. Sono, piuttosto, persone che hanno perso la capacità di distinguere fra bene e male. I mostri civili di Smith scelgono di esserlo: sono gli spacciatori che danno la roba ai bambini, i delinquenti che brutalizzano i propri figli, i teppistelli che tradiscono i propri amici, i bulli che se la prendono con i vecchi. In tutto questo il ghetto, quasi uno stato mentale più che un luogo fisico, ha un ruolo fondamentale. Posti ordinari e familiari diventano il contrappunto a una decadenza che si è definitivamente tramutata in marciume, con la rancida sporcizia (fisica e mentale) che assalta i sensi, li intorpidisce, li ottunde. La resistenza, per chi non vuole farsi assorbire dal “sistematico sbandamento dei sensi” è difficile, ma possibile. Lo stesso Smith lo dimostra nel finale, mettendo in luce come, nonostante tutto, si possa andare avanti e sperare in un futuro migliore.
Ben supportato da un Bagwell particolarmente incisivo nel proprio realismo (ancorché troppo legato a modelli 3D per gli ambienti), riesce a mettere in scena l’orrore psicologico che matura in una quotidianità becera e spaventosa: quella che colma col consumismo un vuoto che non riesce a nascondere abissi di follia e degrado; quella che porta le classi più povere all’autodistruzione. Sebbene la società civile volti lo sguardo da un’altra parte, si può nascondere la spazzatura sotto il tappeto, ma non si può eliminarne l’odore. La scrittura di Smith produce una trama lineare eppure intricatissima, e la snervante cadenza dei gesti quotidiani esaspera il senso d’incombente tragedia che, fuori vignetta, impregna tutta la vicenda. Il senso di un dramma imminente eppure impossibile da prevedere diventa mano a mano più insostenibile ad ogni particolare rivelato da Bagwell che, impietosamente, rende la crescente decadenza morale e fisica dei personaggi quasi pustola per pustola e, al contempo, rivela un orrore “interno” al ghetto che non è meno reale e disgustoso di quello metaforico. La cultura popolare si affaccia come sempre ad arricchire il contesto della storia, in due direzioni: da un alto per descrivere il mondo della working class britannica, dall’altro per esasperare il tono decadente, dipingendo una società dei consumi che parassita le classi meno abbienti e ne divora i cuccioli in maniera speculare alle metafore più “fisiche”. Smith evita il cliché dei giovani pikey del ghetto come demoni (utilizzato, per esempio, da Denise Mina in un ciclo di Hellblazer). Si concentra invece su un realismo meno facile dal punto di vista metaforico, creando situazioni più stranianti e orrorifiche che non sembrano lasciare scampo a nessuno. Ma nonostante tutto, chiudendo il cerchio, Smith chiude con una nota positiva: con un falò liberatore che, come nei casi più classici di contagio, purifica dalla “malattia” e dal sudiciume la vita dei protagonisti.
Un autore tragico
Lo stile di John Smith, in definitiva, è affine a quello di Grant Morrison per quanto riguarda l’uso di tecniche di scrittura non convenzionali (in particolare, entrambi gli sceneggiatori, in diverse fasi della carriera, hanno praticato metodi di scrittura poco esplorati nel fumetto, come i cut-up di ispirazione burroughsiana e la scrittura automatica). Un altro punto in comune con Morrison (ma non solo) è l’iniziale influenza di Alan Moore, superata abbandonando ogni pretesa di realismo (riabbracciato comunque da Smith quando ha senso dal punto di vista narrativo, come in Cradlegrave). Smith lavora, piuttosto, sulla stilizzazione di un incombente e ineffabile senso di tragedia che, come uno zoom narrativo, risucchia ogni dettaglio e ne ingigantisce il senso funzionale. L’altro punto di contatto fra Morrison e Smith è nell’utilizzo del materiale pop come brodo di coltura per la definizione di ambienti e personaggi; una tensione che lo porta – proprio come Morrison – a rischiare sequenze poco accessibili e persino, talvolta, involute.
Dove invece Smith si differenzia da Morrison e altri colleghi, è nella capacità di catturare in maniera inappuntabile la “haeccitas” dei dettagli che rendono vivi gli scenari evocati. Questo vale in particolare nel contesto della tensione, fuori e dentro le pagine, che Smith riesce a creare, ammiccando al soprannaturale come metafora dell’ineffabile che ci portiamo dentro. In questo senso, magia e psichedelia, più che un modo di vita – come in Morrison e Moore – risultano un interesse approfondito soprattutto per analizzare l’eterna dialettica normale/diverso. Una dialettica che serve a Smith per creare cortocircuiti in personaggi il cui destino è segnato dalla presa di coscienza della dissoluzione dei modelli sociali consolidati.
In questo lavoro di lieve ma sistematico straniamento del lettore (in cui le tecniche di scrittura automatiche hanno un peso non trascurabile), un aspetto fondamentale è l’esame approfondito della sfera sessuale, che prova a offrire al lettore una sorta di bizzarro sense of wonder: l’attrazione-repulsione generata dai momenti fondamentali della scoperta della sessualità. Un nucleo che attraversa gran parte dell’horror psicologico di John Smith, facendo degli stili di vita e di sessualità alternativi un motore narrativo sottilmente inquietante.