Per proseguire il dibattito sulla situazione dei picture book in Italia cominciata con un intervento di Fabian Negrin, pubblichiamo un estratto dall’intervista a Luigi Raffaelli condotta da Ilaria Tontardini, Sotto e sopra la superficie dell’immagine, pubblicata sulla rivista Hamelin. Storia figure pedagogia, n.40.
Luigi Raffaelli è un illustratore italiano che ha pubblicato per Orecchio Acerbo, Topipittori, Einaudi Scuola, Mondadori Ragazzi, ELI, Paravia Bruno Mondadori, Campanotto. Nel 2005 ha rappresentato l’Italia alla Biennale di Illustrazione di Bratislava (BIB). Dal 2006 è docente di Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
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Ci interessa sapere, da te illustratore, insegnante di illustrazione e grafico: come vedi la situazione dell’illustrazione contemporanea? Quali sono i passi in avanti fatti, dal tempo dei tuoi esordi, ma anche i limiti e le derive dell’illustrazione editoriale contemporanea?
Il mio percorso parte come studente, studiavo illustrazione a Milano e abitavo a Milano. Nella mia scuola, lo IED, si trattavano vari aspetti dell’illustrazione professionistica, quella per i periodici, quella pubblicitaria, l’illustrazione per l’infanzia e io non è che avessi una direzione particolare da seguire, non ero già orientato. Però ricordo che ero curioso, ovviamente, perché stavo imparando. […] E mi ricordo che c’erano cose interessanti, che stava succedendo qualcosa.
Secondo me quello è un periodo, la fine degli anni Novanta, in cui nell’editoria diciamo commerciale, sono successe delle cose. Mi riferisco in particolare modo ad alcune sperimentazioni pittoriche. Un’ondata di illustratori che facevano dei lavori che non ti saresti aspettato da case editrici come Mondadori… ricordo soprattutto i libri di Mondadori, la collana Contemporanea, se non sbaglio, e poi le copertine dei tascabili. Mi ricordo le copertine di Salani, e alcuni libri avevano illustrazioni all’interno. Erano una sorta di ponte tra la pittura, o un certo tipo di illustrazione un po’ più “difficile”, americana, e i libri per ragazzi. Avvertivi un certo coraggio da un tipo di editoria dalla quale non te lo saresti aspettato. E poi, a Milano, si aveva un quadro più complessivo perché alla galleria l’Affiche c’erano tante mostre di questi illustratori, e quindi ti accorgevi che quello che vedevi in libreria era solo la punta dell’iceberg.
La prima mostra di Fabian Negrin a cui sono stato mi aveva molto colpito, perché di Negrin avevo in mente, all’inizio, piccoli disegni per i giornali femminili, e mi sono ritrovato davanti a pittura, pittura difficile, diversa. Questo manipolo di illustratori, allora a metà – fine anni Novanta erano Negrin, Toccafondo, Simona Mulazzani, Spider, Scarabottolo, Giacobbe, alcuni dei quali erano i miei stessi insegnanti, mentre alla galleria Nuages potevi vedere opere di Mattotti, Matticchio… ero proprio dentro a quello che stava succedendo, in qualche modo.
Era una sorta di stimolo a spingere, cioè a forzare delle cose, e mi ricordo che allora, io e quelli che studiavano con me, pensavamo a come interpretare in modo particolare una storia, e a come farlo in un modo diverso. Allora l’autoproduzione non esisteva; più che pensare a una tua storia, pensavi a come manomettere la storia di qualcun altro, rimanervi fedele ma, dal punto di vista figurativo, quasi darne un’interpretazione rivoluzionaria. Il modello poteva essere Pinocchio di Mattotti: dal punto di vista visivo c’è una storia parallela che è diversa da quella che uno si aspetterebbe. Ognuno di loro era diverso dall’altro, e ognuno di loro non era perfettamente riconducibile all’illustrazione. Quello che, secondo me, era strano, quello che in un certo qual modo bisogna evidenziare è che, appunto, queste cose erano pubblicate da Mondadori, Salani. […]
A partire da quello che vedi adesso, magari non entrando in libreria – perché poi appunto non è più solo in libreria che certe cose le vedi – qual è la tua sensazione?
Ci sono dei grandi punti di forza che però poi diventano anche dei punti di debolezza. Gli editori sono più attenti alla qualità generale del libro. Dal mio punto di vista c’è stata una grande crescita, rispetto a quello che c’era negli anni Novanta e che era ancora in parte un residuo degli anni Ottanta: l’illustrazione con l’aerografo, una certa pesantezza, anche nei progetti grafici. Oggi c’è una cura maggiore nel confezionare i libri, nel pensare al libro come l’insieme di tante parti che devono funzionare insieme. Questo credo che sia un grande miglioramento avviato dalle pubblicazioni della piccola e media editoria di maggior qualità.
Però il fatto di avere come fine quello di fare un bel libro, un bell’oggetto, ha finito per far perdere importanza alle immagini, a ridurre il peso narrativo dell’immagine. In molti casi adesso l’immagine è diventata un’immagine decorativa. Non è più una finestra su un mondo. Il tipo di illustrazione che avevo in mente io degli anni Novanta, pensando a certe cose di Negrin o Mattotti, era l’idea che aprivi un libro, magari un libro imperfetto, con un carattere tipografico che non funzionava bene, però l’immagine provocava uno sfondamento, ti sembrava che dentro quel libro il mondo fosse molto più ampio di quello che vedevi. Ad esempio da un certo punto in poi si è cominciato a riconsiderare lo spazio bianco della pagina, per cui anche gli editori sono diventati un po’ allergici alla chiusura degli spazi, che una volta erano proprio chiusi dal colore.
Quest’ariosità dà una bella sensazione quando sfogli le pagine; immagini molto spesso prive di sfondo, che usano il bianco all’interno, che sono costruite appunto per diventare meccanismi di tutto il libro e che però alcune volte sembrano essere solo dei meccanismi neanche così fondamentali. Quando sentivo parlare gli illustratori, o anche tra di noi parlavamo, c’era una sorta di refrain che diceva “Le illustrazioni non devono essere cosmetica”. La sensazione è che in questa evoluzione ci sia più attenzione nel fare il libro, ma poi che questa attenzione si occupi soprattutto della bellezza. L’immagine imperfetta, il progetto imperfetto può essere disturbante, no? Questo cambiamento di per sé positivo, è sfociato spesso ad una sterilizzazione dell’immagine, che ha il compito di funzionare bene in un sistema, di contribuire a fare di un libro un oggetto. E il libro è un oggetto ma non è solo un oggetto; quindi è design ma non è solo design, perché altrimenti si dimentica l’aspetto narrativo che secondo me è la cosa più importante, comunque. […]
Sicuramente il web è lo strumento principale e naturale di azione, visione e approfondimento degli autori più giovani. Senza cadere nel binomio bene/ male, quanto vedi il riflesso di questo modo di guardare nella situazione di cui parlavi?
C’è una tale sovraesposizione alle immagini per cui, di queste, quello che si ha il tempo di percepire è la forma, la superficie. Secondo me i ragazzi non hanno il tempo per capire e metabolizzare. Alcuni non ce l’hanno, alcuni non vogliono prenderselo, alcuni sono incapaci di prenderselo. Per cui quello che restituiscono è qualcosa di molto superficiale. Da qui tutti i trend, i tic stilistici, l’uso di tipologie di immagini che diventano quasi alfabetiche; la percezione è di grande energia, grande professionalità, ma poca originalità. Vedo illustratori che sono uno uguale all’altro. E nessuno si stupisce, come se questa cosa non costituisse una sorta di reato. Dico reato perché l’ho sempre vissuto come tale. Anch’io avevo quelli che mi piacevano e lottavo per non assomigliare ai miei modelli. Ovviamente ancora adesso ricorderò qualcun altro, però dentro di me c’è una sorta di censura. Oggi questo non costituisce un problema; tutto ciò dovrebbe generare delle domande: cos’è il disegno? A cosa serve? Perché si disegna? Queste domande non possono essere eliminate dal professionismo. […]
C’è anche chi sostiene che la funzione dell’illustratore sia quella di trovare un modo di risolvere dei problemi posti da una committenza.
È una modalità di pensiero che ha spostato molto il mondo dell’illustratore verso quello del designer. Ci sono tantissimi professionisti abili a capire l’immagine “giusta”. Il design è una risposta a delle esigenze e si può tendere a giustificare di più un certo tipo di azioni, una certa tendenza a mixare le cose, che è un aspetto dell’illustrazione contemporanea. Ma questa lettura rischia di essere superficiale perché anche nelle discipline di progetto ci sono ragioni dietro a certe forme che vanno oltre alle contingenze. Se la funzione di un’immagine è quella di risolvere un problema, ci sono tanti modi risolvere il problema. E qui si va a toccare il piano dell’etica. Perché nella professione non ci sono solo aspetti legati alla capacità. Chi fa un mestiere come il nostro deve garantire al suo cliente (che sia un editore, un privato, un’amministrazione pubblica) un prodotto originale, che risolva il suo problema, però che sia originale. Ovviamente l’originalità in senso puro non esiste, ma esiste il tentativo di raggiungerla e questo non è che la somma delle tue risposte, cercate in profondità, ai problemi che via via si presentano, ed esse vanno a formare il tuo linguaggio, il tuo metodo. […]