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La visione del fumetto secondo Brecht Evens [Intervista]

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Brecht Evens è uno degli autori più apprezzati del panorama fumettistico europeo, in particolare di quel genere di fumetto “artistico”, che si lascia influenzare più dalla cultura dell’arte che dalla cultura pop.

Evens è già autore prolifico, nonostante la giovane età – classe 1986 – con all’attivo 3 libri e alcune altre produzioni brevi precedenti. Evens si era già fatto conoscere al pubblico italiano più attento nel 2011, quando fu ospite del festival BiBOlBul. Brecht ricorda ancora con piacere la partecipazione al festival bolognese, e ce ne ha parlato con soddisfazione quando lo abbiamo incontrato nella scorsa edizione di Napoli Comicon. Da quel momento ha cercato di pubblicare in Italia, ed è grazie a Bao Publishing che alcuni mesi fa è stato dato alle stampe Gli amatori (secondo libro realizzato dall’autore, che abbiamo recensito sulle nostre pagine).

L’autore fiammingo è dotato di uno sguardo lucido e spregiudicato. Sa di volersi distinguere e lo fa con un segno complesso, stratificato, arricchito da colori estremamente vivaci. Evens è autore di un tipo di fumetto dalla forte personalità, ma anche dai riferimenti ben radicati nel passato (dell’arte più colta).

Lo abbiamo incontrato a Napoli Comicon, e con lui abbiamo avuto una conversazione, per scoprire meglio il suo lavoro e il suo approccio al fumetto.

amatoriEvens
I tuoi fumetti a oggi sono considerati tra i più sperimentali in giro. Qual è il tuo approccio alla scrittura?

Il mio non è un approccio metodico. Mi sento di lavorare a ogni libro in maniera diversa. Alcuni miei lavori partono da dialoghi e solo dopo arriva tutto il resto che c’è intorno. Con l’ultimo libro che ho pubblicato – Panter – sono partito dalla prima pagina, quasi improvvisando; ho scritto poi altre pagine, altre ancora, e così via. È uscito fuori con molta naturalezza.

Per Gli amatori ho impiegato molto tempo, circa tre mesi per lo storyboard, e anche dopo i cambiamenti sono stati molti. Ricordo che una volta che lo avevo quasi concluso, io e un mio amico lo leggemmo, e l’impressione fu tremenda. Non c’erano tensione e sostanza! Dovetti praticamente rifarlo.

Dunque non hai un metodo fisso di approccio al lavoro? Lavori sia con storyboard che con improvvisazione.

Sì, cambio sempre. Per il prossimo libro voglio prepararmi davvero molto prima di iniziare la realizzazione. Perché ormai so che se vuoi fare fumetti dipinti, non puoi apportare molto editing. Quindi le idee devono essere chiare e precise prima di metterti sulla tavola.

Non puoi cancellare a tuo piacimento ciò che vuoi; una volta deciso l’aspetto dei personaggi, devi continuare a disegnarli a quel modo. Se disegni una scena, magari su due tavole, e vuoi poi correggerla, sono davvero troppi gli elementi da modificare in un libro del genere. Quindi io cerco sempre di lavorare con la maggior spontaneità possibile, ma i cambiamenti sono inevitabili.

PanterEvens
Questo mi fa pensare che per te il fumetto lo fanno le immagini, prettamente?

Non esattamente. Nonostante mi piaccia l’idea che qualcuno si compri i miei libri semplicemente per le immagini, anche se non capisce il testo e gli piace averli nella propria libreria. Però, se voglio raccontare una storia che è nella mia mente, prima di iniziare a raccontarla non mi appare con contorni visivi definiti.

È come se inizialmente nella mia testa ci fosse un’opera teatrale, alla quale man mano inizio ad applicare le possibilità visive. Il fumetto non è certo una scusa per disegnare, altrimenti farei illustrazione o pittura. Lavoro a un fumetto se sono convinto che il materiale che ho in testa possa essere del tutto adatto a un fumetto, niente a che fare con un film, un romanzo o altro. Faccio fumetti ed è questo che mi interessa, cioè le storie raccontate con immagini su una pagina.

È interessante, perché nel mondo del fumetto si parla molto spesso di influenze cinematografiche, finendo quasi per essere limitativi per il medium stesso, no?

Le influenze cinematografiche possono essere una buona cosa, anche perché la suddivisione in vignette ti porta spesso a pensare con la testa di un regista, per il ritmo e le inquadrature. A volte va bene usare questo approccio, se si vuole ottenere un certo risultato, ma se ne abusi e fai i tuoi fumetti pensando alle inquadrature come se tenessi in mano una telecamera, stai solo facendo degli storyboard per il cinema o per la televisione.

Una cosa che invece appare evidente dai tuoi lavori è la forte influenza da parte dell’arte e della pittura. Quali sono queste influenze?

Negli ultimi anni ho letto pochi fumetti, me ne vergogno quasi, perché c’è di sicuro molto che vorrei e potrei imparare. La pittura è stata sicuramente un’influenza maggiore. Ne Gli amatori, l’arte ha avuto un ruolo importante, esplicito. Mi piace che la gente capisca da chi “rubo”. Ci sono David Hockney, Picasso, Matisse.

Mi piacciono molto il vecchio miniaturismo fiammingo e l’arte di creare libri, cosa molto interessante se sei fumettista, poiché a quei tempi i libri non si stampavano in serie, si realizzavano uno alla volta, in modo originale, unendo a mano testo e immagini. Poi Giotto, come molta altra arte medievale può essere incredibilmente interessante per il fumetto. Lui e altri hanno un linguaggio iconografico molto eloquente; ad esempio, se qualcuno è importante è grande e se non lo è viene ritratto molto più piccolo del normale; gli edifici sono fantastici, magari possono essere anche più piccoli delle persone rappresentate, come fossero una scenografia sul palco di un teatro. Non c’entra la prospettiva ma il messaggio; come nel fumetto, il punto è raccontare con l’immagine.

Da Gli amatori
Da Gli amatori

Come ottieni un equilibrio e un flusso efficace di immagini e testo?

È difficile. Il fumetto è un medium bastardo, una perversione. Pretendere che la gente guardi le immagini e alla stesso tempo legga, non è nemmeno naturale, secondo me. I balloon se vuoi sono un elemento davvero brutto, intrusivo. Quindi, forse mi può riuscire naturale per il semplice fatto di aver da sempre letto fumetto. Ciò non toglie che sia difficile.

Talvolta invidio chi scrive e basta, per come uno scrittore in tre righe può dirti ciò che io impiegherei anche venti pagine a rappresentare. È per questo che credo si debba sempre cercare la storia adatta per il mezzo adatto, nel mio caso, il fumetto. Il punto sta lì, nel non sentirsi un romanziere frustrato o un regista frustrato. Magari sono fortunato io a non avere ambizione a uscire dal mio campo di interesse, che è il disegno prestato alla narrazione, cioè il fumetto. Però sono certo del fatto che ci sia ancora molto da esplorare in questo campo.

Gli amatori nasce da una riflessione di te come artista?

Gli amatori è un libro che parla di arte amatoriale, ma il fulcro del racconto non è esattamente quello, bensì le dinamiche di gruppo. Indaga il ruolo del leader, chi riuscirà a essere il leader in un gruppo, chi invece sarà l’audience, chi il sabotatore, ecc. Questo è ciò che mi ha spinto a scrivere. Per fare un esempio banale, potevo raccontare anche di sport, solo che parlo invece di ciò che conosco.

L’idea di raccontare questo scenario composto da artisti che si ritrovano in campagna nasce da un aneddoto che mi raccontò un amico, anche lui artista. Fu invitato a un festival d’arte in campagna, ma rimase soltanto un pomeriggio, dovette proprio andarsene, scappò. Questo mi dette una prospettiva sulla frustrazione dell’artista, che è insoddisfatto in città, ma che magari riceve un complimento, e poi vuole restare lì nell’ambiente esterno, poi però si intromette nel lavoro degli altri, diventando un elemento di disturbo nel gruppo. Mi viene in un certo senso da paragonarlo, per assurdo, alla storia di quel film sulla squadra di bob giamaicano.

Come dicevo prima, poteva essere anche una storia di sport. Cioè, prendi dei principianti e li mostri mentre cercano di prendersi sul serio. Una volta qualcuno mi disse che ci sono sempre due tipi di racconti: la storia di qualcuno che fa un viaggio o la storia di qualcuno che arriva in città. La mia è la storia di uno sconosciuto che arriva in città, in una comunità, sconvolgendo degli equilibri e delle dinamiche di gruppo.

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Una vignetta da The Wrong Place

Capita di leggere paragoni stilistici tra il tuo lavoro e Asterios Polyp di David Mazzucchelli. Quali sono le tue idee su quest’opera?

In realtà non l’ho ancora letto. Ho un’idea vaga di quel libro, ne posso parlare solo dal punto di vista estetico, e immagino che il libro sia migliore di quello che mi è parso a prima vista. Mi ha dato l’impressione di un libro che ti dice: «Guardami, sono un esperimento!». Poi tutto quell’azzurro mi dava l’idea dei disegni preliminari che si fanno prima di inchiostrare; come un autore classico affascinato dai propri sketch preliminari, che quindi decide di tenerli nel definitivo.

Un po’ come quando si fanno scene di sogni o di ricordi in stili diversi. Lo stile però può essere una trappola. Lo stile secondo me lo fanno i caratteri che ripeti, il modo in cui disegni il naso o gli occhi, ad esempio, o la paletta di colori che usi. Tutto quell’uso di stili diversi, in libri come Asterios Polyp ti dà il senso di qualcuno che sperimenta negli stili, che fa esercizio; almeno a prima vista, poi potrei sbagliarmi.

Qualcuno, comunque, potrebbe dire lo stesso anche del mio libro, cioè che sembri un mero esperimento. Ma gli esperimenti secondo me sono ciò che devi fare prima di trovare una soluzione stabile e coerente, non ciò che finisce nel libro. Del resto, chi vorrebbe prendere medicine in un laboratorio sperimentale di farmacia? [Ride]

A cosa stai lavorando ora?

A novembre è uscito Panter, in Francia, e spero esca in Italia prossimamente, come del resto The Wrong Place. Mentre ora sono alle prime fasi di lavorazione di un nuovo libro. Devo ancora iniziare lo storyboard.

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