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Rino Albertarelli, “fondatore” del fumetto italiano

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di Leonardo Gori

L’opera a fumetti di Rino Albertarelli rappresenta allo stesso tempo l’origine e la linea di continuità del fumetto italiano “moderno” (“naturalistico” o “d’avventura”), ovvero di quello che si avvale dei codici grafici e narrativi di derivazione americana ancora oggi in uso, adattati alla sensibilità europea e italiana in particolare. È, insomma, quanto meno, all’origine dei “bonelliani” e dei “bonellidi”.

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La comparsa di tale specificità, se così si può definire, è ben rappresentata dal suo Kit Carson, pubblicato poco dopo la metà degli anni Trenta: ciò sia dal punto di vista grafico che da quello narrativo, ovvero del linguaggio dei comics, oltre che per i contenuti. Per quanto riguarda la continuità, quasi non ci sarebbe bisogno di puntualizzare alcunché: c’è infatti una vera e propria genealogia artistica che parte dal Maestro cesenate, passa per Aurelio Galleppini, Guido Buzzelli e approda agli autori “naturalistici” delle generazioni degli anni Settanta e Ottanta, e certamente oltre.

Non è ovviamente un caso che Gianluigi Bonelli e Aurelio Galleppini, per il loro Tex, ricorrano nel 1948 proprio alla figura semileggendaria di Carson, benché del tutto diversa somaticamente da quella realizzata da Albertarelli. Né che il figlio Sergio sia l’editore – e in gran parte il mecenate – di Albertarelli, a metà degli anni Settanta, alla fine del percorso dell’artista, quando pubblica la serie incompiuta dei suoi Protagonisti. Ma Rino Albertarelli, negli anni Trenta e Quaranta, e specie nel periodo bellico, non è affatto solo Kit Carson, come certe semplificazioni della storia del fumetto italiano portano spesso a concludere; anzi, il West è senz’altro un aspetto secondario della sua produzione.

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La nascita artistica e la prima maturazione di Albertarelli, che come si è detto si identificano in pratica con quelle del fumetto italiano moderno, sono invece all’insegna del feuilleton di cappa e spada, in una logica peculiare di utilizzo dei codici espressivi dei comics in chiave paradossalmente antiamericana. Albertarelli, insieme a Walter Molino, Franco Caprioli, Bernardo Leporini e altri validi autori italiani, nel 1936 è difatti reclutato da Enrico De Seta, artista all’epoca vicino al Regime fascista e in particolare agli ambienti del Ministero della Cultura Popolare, per collaborare al lancio del settimanale Argentovivo!, edito dalla SAER, società editoriale che stampa anche La Tribuna, La Tribuna Illustrata e Il Travaso, collegata appunto, in via più o meno esplicita, agli ambienti ministeriali.

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Argentovivo!, che rifiuta programmaticamente i balloon (le “nuvolette”), ma accoglie la scansione in vignette del linguaggio dei fumetti, si pone come fiero avversario dei dilaganti settimanali “tutti americani” sia di Mondadori che di Nerbini, editore del leggendario L’Avventuroso, pieno zeppo dei comics del K.F.S. L’editoriale del primo numero è esplicito al riguardo. Come appena accennato, il rifiuto degli stilemi del racconto nato oltreoceano, si traduce, di fatto, in una quasi completa accettazione dei moduli narrativi statunitensi: è vero, però, che gli autori coinvolti, primo fra tutti proprio Rino Albertarelli, cercano – con relativo successo – di conciliare le forme americane con temi e motivi europei e in special modo italiani, come appunto il racconto di cappa e spada e quello di ambiente marinaro.

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L’esperienza di Argentovivo! non ha successo commerciale, e benché ampiamente sostenuto dal Ministero, il settimanale è costretto a chiudere nel giro di un anno: d’altra parte il 1936/38 è un periodo che vede il dilagante, epocale successo dei comics americani, nonostante tutta l’ostilità possibile del Regime e della massima parte degli educatori, come abbiamo cercato di raccontare, documentando ogni passaggio, nel recente saggio Eccetto Topolino.

A parte le connotazioni politico-ideologiche dell’operazione di De Seta e dei suoi editori palesi e occulti, le serie pubblicate su Argentovivo! segnano comunque il vero inizio del fumetto italiano moderno. Rino Albertarelli scrive e disegna, per il settimanale torinese, la serie Gli avventurieri del Pacifico, saga fanta-marinaresca imperniata sulle gesta del Capitano Dandolo, costretto, da un ammutinamento del suo equipaggio, ad abbandonare la nave e lasciato alla deriva su di una scialuppa insieme a due suoi fedeli uomini.

Scampati a una terribile tempesta, i tre approdano su un’isola selvaggia popolata da giganteschi animali preistorici. E qui Albertarelli dà prova delle sua abilità e della sua fantasia disegnando una galleria di mostri graficamente superba (di cui vedremo parecchi altri esempi nella sua produzione successiva), unita a una attenta documentazione visiva di pistole, navi, costumi degna di un museo di storia della marineria.

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Sorprende il segno già maturo di Albertarelli, padrone del tratto a china e del chiaroscuro in punta di pennino: una vaga ispirazione può essere quella del Tarzan di Harold Foster, pubblicato già nel 1934/1935 sui Romanzi di Cappa e Spada di Mondadori (tutto si tiene) e poi su L’Audace di Lotario Vecchi. La narrazione procede con un tono disteso, privo dei momenti topici (suspense, cliff-hanging) delle storie americane della syndication, ma consapevole delle regole espressive della nuova forma d’arte. Albertarelli condivide l’esperienza del settimanale di De Seta, come si è detto, col giovane Walter Molino e soprattutto con Franco Caprioli, che, su Argentovivo!, propone suggestioni simili: tutti e tre gli autori, sebbene in tempi diversi, si ritroveranno poi sul Topolino mondadoriano, guidati da Cesare Zavattini e Federico Pedrocchi.

Traghettatore di Albertarelli alla redazione milanese è con ogni probabilità proprio Pedrocchi, futuro direttore artistico di Topolino e ideatore della testata Paperino, alla fine del 1937. Ai periodici disneyani approda, in quell’anno o subito dopo, una nutrita pattuglia di autori che, in parte, come si è detto, proviene proprio da Argentovivo!, oltre ad Albertarelli e a Molino ci sono Bernardo Leporini, Franco Caprioli, Nino Pagotto. Lo sforzo dell’editore milanese, adeguatamente documentato dagli archivi dello stesso Pedrocchi, di Zavattini e di Guglielmo Emanuel, recentemente presi in esame riguarda non solo adeguati investimenti finanziari – dai compensi degli artisti alla promozione editoriale delle opere – ma anche il tentativo, parzialmente riuscito, di distribuire all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, le serie a fumetti della “Scuola di Mondadori”.

Gli inizi di Albertarelli nella redazione milanese di Topolino hanno come fuoco il ciclo di Kit Carson, che appare per la prima volta sul n.238 del 15 luglio 1937 con l’episodio Kit Carson cavaliere del West e concluso sul n.302 del 6 ottobre 1938 con la seconda parte dell’episodio I pionieri del nuovo mondo. Kit Carson è fra le punte di diamante del suddetto tentativo di syndication, ben documentato anche dalle brochure in lingua inglese conservate nell’archivio Pedrocchi. La serie, scritta da Federico Pedrocchi, passa poi a Walter Molino, che la porta avanti su Paperino (Lo squadrone dei cento, dal n.80 del 6 luglio 1939 al n.119 del 4 aprile 1940 e L’amazzone bianca, dal n.120 dell’11 aprile 1940 al n.138 del 15 agosto 1940).

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A differenza dei suoi colleghi, forse proprio con l’eccezione di Gianluigi Bonelli, che all’epoca è direttore artistico de Il Vittorioso, Albertarelli si avvicina al genere western spogliandosi dei luoghi comuni, che già all’epoca dominano l’immaginario collettivo e la cultura popolare. Il suo Kit Carson è un autentico antieroe, un uomo di mezza età che agisce in un West già sulla via di essere smitizzato: certi episodi della serie anticipano lontanamente lo spirito del film di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance, di quasi venticinque anni dopo, imperniato proprio sull’origine e sul destino dei miti moderni. Il Kit Carson di Albertarelli è stato studiato in modo approfondito fin dagli anni Sessanta del Novecento, quando il suo autore era coinvolto, come testimone e in un certo senso “ideologo”, nella prima grande ondata di rivalutazione del medium fumettistico, nella sua analisi storica, estetica, sociologica, che aveva nella rivista Linus e nel Salone Internazionale dei Comics di Lucca i centri focali.

Tralasciando cose minori, ma pur sempre di grande interesse, come Gioietta Portafortuna, storia pubblicata sempre su Topolino, o la notevole campagna pubblicitaria per l’Aspirina Bayer (Bayerino contro la Strega Febbre, 1937), Rino Albertarelli porta a compimento il suo primo ciclo western personale d’anteguerra con la riduzione salgariana di Alle frontiere del Far West, apparsa su L’Audace durante la gestione Mondadori (1939), sempre con Federico Pedrocchi come soggettista, sceneggiatore e grande orchestratore. Su Paperino Albertarelli, peraltro, disegna una memorabile versione del Corsaro Nero di Emilio Salgari (dal n.17 del 21 aprile 1938 al n.77 del 15 giugno 1939), in cui si cimenta con grandi scene epiche, vignette affollate che staccano con piani lunghi e descrittivi, la successione narrativa delle vignette. È la dimostrazione di un talento nuovo, che si manifesta soprattutto in queste “panoramiche”.

Certamente tra gli artisti più dotati, anche tecnicamente, nello scorcio finale degli anni Trenta, e probabilmente il migliore, Rino Albertarelli è scelto da Pedrocchi e collaboratori per la mise en scene del Faust nell’interpretazione di Goethe, senz’altro la serie a fumetti più importante del fumetto italiano del periodo precedente alla Liberazione. Il Dottor Faust è forse la più ambiziosa operazione, allo stesso tempo artistica e imprenditoriale, messa in atto da Mondadori nel campo del fumetto. È solo incidentale, il fatto che il target di Topolino sia, nominalmente, quello dei ragazzi: l’operazione è ai massimi livelli e compiutamente adulta.

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Le grandissime pagine doppie del Faust di Albertarelli sono difatti rivoluzionarie, soprattutto per quanto riguarda il linguaggio grafico utilizzato: le nuove possibilità di stampa offerte dalle tipografie veronesi di Mondadori consentono un uso espressionista del colore, steso a tempera dall’autore con effetti tridimensionali. Pur non rinunciando affatto alla scansione narrativa delle vignette, Albertarelli esalta la specificità “pittorica”, tutta europea, dei grandi quadri, raffigurando con eccezionale abilità ambienti, folletti e orrende creature che circondano Satana. Al Dottor Faust seguirà il Mefistofele, ma la saga, sempre sceneggiata da Federico Pedrocchi, proseguirà con altri due episodi, La spada dei giganti (1943) di Franco Chiletto e La quercia maledetta (1947) di Libico Maraja. […]


*Questo saggio è estratto dal volume Rino Albertarelli, maestria e versatilità di un talento innato, pubblicato dall’associazione Anafi.

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