Perché Cartoon Network, una rete televisiva in piena forma, con un glorioso passato alle spalle e un presente solido come la roccia dovrebbe cominciare a produrre pilot di nuove serie come se non ci fosse un domani? Ponendo – tra le altre cose – apparentemente pochissimi limiti ai suoi creativi? Non potrebbe dedicarsi, come tutti gli altri, all’acquisto di costosissime proprietà intellettuali già rodate?
Forse perché strutturare incubatori di talenti interni all’azienda rappresenta la base di ogni strategia votata al futuro, capace di produrre profitti elevatissimi a fronte di un investimento iniziale ininfluente rispetto al doversi continuamente appellare a professionalità esterne. A questo aggiungiamo il potere – per una volta utile – della rete nel condividere contenuti di nostro piacimento, rilasciati con una certa regolarità dal sito dello stesso network televisivo come si trattasse di autentiche cartine tornasole dal costo quasi irrisorio.
Anche senza invischiarci in brutte discussioni di incassi e bilanci semestrali, rimane fuori da ogni dubbio che senza questa propensione all’investimento sviluppata da Cartoon Network noi spettatori non avremmo mai potuto godere del talento cristallino di autori come Pendleton Ward (Adventure Time), Rebecca Sugar (Steven Universe), J.C. Quintel (Regular Show), Peter Browngardt (Uncle Grandpa), Natasha Allegri (Bee & Puppycat). Tutta gente giovanissima – Rebecca è del 1987 – partita da mansioni di supporto e poi cresciuta in seno all’azienda madre. Un progetto che è stato ripagato da un’energia creativa incontenibile e da una serie di successi – tutti partiti dall’animazione ma arrivati a ogni altro tipo di linguaggio, tra cui il fumetto – quantomeno imprevedibili sulla carta.
Abbiamo già parlato in maniera piuttosto estesa di alcune di queste serie, non vale la pena stare a ripetere ulteriormente le stesse cose, anche perché il primo lavoro da solista di Patrick McHale – co-creazione del fenomeno Adventure Time e nuova punta di diamante del canale televisivo – rappresenta il passo successivo a tutto questo. Dopo aver settato un nuovo standard di spensieratezza, irriverenza e idiozia non-sense ora Cartoon Network ha deciso di diventare grande.
Over the Garden Wall è un capolavoro di maturità stilista e contenutistica, una serie per bambini che non avrete mai il coraggio di mostrare ai vostri figli/nipotini/cuginetti. Miyazaki incontra il gotico sudista, Tex Avery, le Silly Symphonies e una serie di criptiche suggestioni emo-videoludiche che vanno dallo straziante Limbo alla poetica del rimorso di Braid. Basterebbe questo per fare alzare le antenne a un sacco di gente. Eppure l’aspetto più importante di questa serie non è la strepitosa direzione artistica, la colonna sonora d’altri tempi o la freschezza dei dialoghi.
Il vero punto per cui non dovreste perdervi questa serie è la sua totale incapacità di venire incontro al pubblico moderno. Tranne un paio di terribili strizzatine d’occhio al pop surrealism – che tutti speravamo morto e sepolto – non abbiamo praticamente nessuna forma di accompagnamento dell’utente. Non esiste nulla nel mondo di Over the Garden Wall che non sia ammantato di malinconia e malessere, oltre al fatto di richiedere una certa attenzione per essere interpretato in maniera soddisfacente.
Wirt e Greg sono due fratelli persi tra i boschi in un mondo che pare essere compreso in una bolla temporale relegata a un generico passato (inscrivibile più o meno a un tardo ‘800). La serie segue le loro peregrinazioni verso casa, soffermandosi di volta in volta sugli stralunati incontri. A rendere il tutto ancora più difficile per i due sventurati la presenza alle loro calcagna di una misteriosa bestia, signore incontrastato dell’Unknown. Quando, nelle ultime puntate, ogni cosa verrà chiarità rimarrete sbalorditi dalla sensibilità e dalla grazia di una scrittura straordinaria.
Abbiamo uno strato più superficiale costituito da un umorismo raffinato, sfuggente, spesso fin troppo sussurrato per essere compreso appieno (il lettino da psicanalista della prima puntata, puro Charles M. Shulz). Anche in questo aspetto l’atmosfera mortifera si insinua, lasciando trasparire un senso di abbandono e di mancanza di speranza che mai ci saremmo aspettati da una serie non indirizzata – almeno sulla carta – agli adulti. Unico faro luminoso di tutto il cast è il fratellino minore, incapace di non vedere del buono in ogni aspetto di questa avventura così disperata. Sotto questa scorza superficiale il plot si muove disseminando indizi – attenti alle caramelle del primo episodio – e andando a parlare di argomenti non certo facili. La morte, l’abbandono, la malattia, la difficoltà di scelte moralmente discutibili ma necessarie.
Siamo agli antipodi dei colori sgargianti e della follia idiota di Adventure Time. Se anche nella terra di Ooo di tanto in tanto faceva capolino qualche argomento più serio (la malattia di re Ghiaccio o la catastrofe nucleare – un altro collegamento con il videogioco Braid – per esempio) qui si cambia decisamente marcia. Gli intenti sono del tutto autoriali, anche se il mezzo a disposizione è quanto di più popolare si possa immaginare. Una serie televisiva, non un lungometraggio da mandare al cinema. Eppure anche quest’anno ci si spellerà le mani per l’ennesimo capolavoro di casa Disney, che ci farà credere di essere tutti super-super-super-speciali (e poi, gli asset produttivi, vuoi mettere?). Perché se una cosa ha l’aspetto di un prodotto per l’infanzia logico che debba raccontare solo favolette. Oppure dovrà per forza andare in direzione opposta, come gli Unfunnies di Mark Millar, giocando con il suo aspetto puerile e con le aspettative che questo comporta. Profondità e sfumature di grigio vengono escluse a priori.
Così, mentre il punto più basso dell’anno nell’ambito della cultura pop viene raggiunto da un articolo sul disegnare spade laser mentre si è in fila per il caffè – più che altro un saggio sull’incapacità di comprendere e decodificare una stilizzazione atta a definire un personaggio tramite il suo design, una perfetta descrizione del perché i famigerati spiegoni siano diventati fondamentali – Patrick McHale raggiunge direttamente uno dei posti ancora disponibili in vetta. E lo fa evitando con cura scemenze come quella appena citata.
Dopo aver creato una serie – Adventure Time – basata sull’ammicco, sul riferimento celato e sul guilty pleasure (l’infantilismo esibito di un sacco di adulti) volta le spalle al pubblico che lo ha reso famoso. Prende un linguaggio che ama, un budget risicato e racconta una storia a volte divertente, spesso straziante. Sovverte una delle regole d’oro del successo moderno e lascia un sacco di spazio bianco tra le vignette da far riempire allo spettatore. Continua a spiazzare seguendo unicamente la sua visione e ci consegna un gioiello che – si spera – faccia scuola.