Lo scorso autunno Frank Miller era inseparabile dal suo borsalino o dal suo cappello alla texana, mentre presenziava alle fiere e rilasciava interviste alle principali testate americane. Oneri da contratto, per promuovere The Dark Knight III: The Master Race, il terzo capitolo della storia cominciata nel 1986 con quel Il ritorno del Cavaliere Oscuro che lo catapultò nell’Olimpo dei comics.
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Parlando con The Comics Journal, negli anni Ottanta, Frank Miller diceva che avrebbe voluto essere Bob Dylan. Forse, però, è diventato più un Orson Welles. Con entrambi ha in comune alcune cose: il successo smisurato in giovane età; la creazione di un’eredità indelebile nelle rispettive discipline; e la dimostrazione che negli anni tardi della carriera è difficile riuscire a dire cose nuove su se stessi. Bob Dylan il processo mediatico l’ha sempre deriso, rispondendo «astronauta» a chi gli chiedeva una parola per la stampa, mentre Frank lo prendeva dannatamente sul serio. «È strano essere all’inizio di una possibile Storia del fumetto e non alla fine» diceva, parlando del successo ottenuto da Il ritorno del Cavaliere Oscuro «perché la strada davanti a me è sgombra».
Il Cavaliere Oscuro: una svolta
La distopia di un Batman vecchio e intransigente, il Clint Eastwood di Gotham City, sfruttò la scia di accelerazione data quell’anno – 1986, cardine nel fumetto statunitense – dall’uscita a breve distanza di Maus e Watchmen. Chiamatelo zeitgeist, chiamatela fortuna, perché altre pietre d’angolo come American Flagg! quel treno l’hanno perso. Queste opere, insieme, fecero massa critica permettendo al fumetto di sfondare, nel panorama generalista, come prodotto artistico adulto. Tanto in America, dove Rolling Stone e il New York Times gli dedicarono spazio, quanto in Italia, dove il volume Rizzoli di grande formato fece scoprire il nome di Miller ai lettori, dopo un passaggio relativamente sotto silenzio sulla rivista Corto Maltese. In particolare dalle nostre parti, fino al 1988, Miller era sconosciuto ai più, dato che la Corno aveva dismesso Devil pochi numeri prima del suo debutto come sceneggiatore.
Il ritorno del Cavaliere Oscuro, come Watchmen, vedeva nei supereroi una categoria fallata, ma mentre Alan Moore li considerava incapaci di migliorare la società, Frank credeva che fossero un simbolo, un modello di ispirazione che elevava le intenzioni della gente. Entrambi suggerivano, con esiti diversi, che la vecchia idea di supereroe fosse morta. «Una volta ho scherzato con Alan dicendo che lui aveva fatto l’autopsia e io il funerale in pompa magna». Il ritorno del Cavaliere Oscuro fu importante proprio perché cambiò l’idea che l’immaginario comune si era fatto di Batman – un eroe ‘sopra le righe’ – per colpa della serie tv con Adam West. Lo show era terminato nel 1968 e intanto i fumetti erano andati avanti. Gli autori Danny O’Neil e Neal Adams lo avevano riportato ad atmosfere più sobrie, ma il ricordo di tutti quei BAM! SOCK! PAW! era ancora impresso a fuoco nelle menti del pubblico generalista. Secondo il giornalista Alex Pappademas, l’intero fenomeno dei reboot – come approccio al “riconvertire un personaggio per farne un eroe soffertone” – partì da lì.
Il sequel-pastiche del Cavaliere Oscuro
Sono (de)meriti che è difficile conferire a Miller: è certo che editori e studi cinematografici abbiano recepito il ribaltamento adulto (nei toni, nell’atteggiamento) ma non il messaggio di fondo che i supereroi erano un genere esausto. Per tutti gli anni Novanta la Image non fece altro che vendere questa estetica senza riempirla di senso. Proprio in risposta a un settore che aveva preso quella lezione e l’aveva svuotata di ogni contenuto, nel 2002 Miller fece uscire il sequel Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora, un pastiche in cui mischiò il recupero della Silver Age, la satira ai nuovi media e l’onnipresente patina politica. Intervistato da Gary Groth (che pure gli comunicò le sue incertezze riguardo all’opera), Frank spiegò alcune scelte compiute: «Ho guardato i vecchi telefilm di Batman degli anni Quaranta e sono estremamente razzisti. Erano così idioti e belli che volevo catturare un po’ di quello stile. E poi spingerlo oltre, perché sì.» Il carico da novanta lo mise la moglie colorista, intenta a sperimentare con il PC: «Mi diceva “Ho già colorato con la pittura e ora tutti usano il computer per imitare la pittura. Ti farò vedere cosa può fare veramente un computer”. Fu sfrontata e artistica».
Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora era più rumoroso, più fastidioso e più aggressivo dei suoi precedenti lavori. La responsabilità fu in parte del clima post 11 settembre 2001, che si era abbattuto sulla lavorazione e lo aveva tinto di rabbia: nell’ultima parte Batman permetteva che un attacco alieno distruggesse Metropolis e che Robin venisse gettato in un fiume di lava. Ma non solo. Al cuore di quel sequel c’era il tema stesso della narrazione: la trasformazione del coro greco delle nostre vite, quel corollario di schermi sempre accesi sciolti nel flusso digitale della rete. Miller lo affrontò attraverso dialoghi poco sottili, schematismi (o sei un militante o un cerebroleso controllato dai media) e colori caotici, perfino bruttarelli (anche se: Internet non è forse un posto caotico e bruttarello?). Subissata di critiche all’epoca della sua uscita, vista oggi l’operazione ha più senso di quanto ne avesse nel 2002: Miller fece nel fumetto ciò che avrebbe fatto la musica dieci anni dopo con la vaporwave e l’uso di auto-tune da parte di molti artisti, come veicolo estetico e non come sotterfugio per coprire le magagne della voce.
Ronin: una grande premessa
Prima del Cavaliere Oscuro, c’era stato già tanto altro. «Frank stava tastando e sperimentando nuovi territori», commentò negli anni Ottanta Janette Kahn, Presidente della DC Comics. «Gli telefonai e lo invitai a pranzo. Gli dissi di propormi qualunque cosa volesse, a prescindere dal rischio che ne poteva derivare.» Miller le presentò Ronin, una storia fantascientifica basata sui samurai che aprì le porte, in molti aspetti, all’exploit cyberpunk di fine anni Ottanta e inizio Novanta.
Questo nuovo progetto Miller avrebbe dovuto realizzarlo per la Marvel. Kahn lo convinse con un contratto che assecondava tutte le sue richieste: controllo creativo, detenzione dei diritti e stampa di qualità per una resa migliore dei colori (e per evitare che l’albo cadesse a pezzi dopo poche letture, cosa assai comune all’epoca). Ronin nacque dalle ricerche su ninja e samurai che Frank aveva condotto durante il ciclo di Devil e dall’espansione dei suoi (limitati) orizzonti fumettistici: Walt Simonson e Howard Chaykin, con i quali condivideva uno studio nel quartiere delle stoffe: «mi introdussero al fumetto europeo. Fu un’esperienze molto formativa per me. E poi la mia ragazza Laurie Sutton mi fece scoprire i fumetti giapponesi. È così che è nato Ronin.»
Al samurai decaduto era legata un’altra parte della vita sentimentale di Frank: la lavorazione di Ronin prosciugò le energie sue e della colorista Lynn Varley, costringendoli a lunghe sessioni di lavoro che li portarono prima a frequentarsi e poi ad avviare una relazione stabile. Si ritrovarono ad essere talmente invischiati nella loro creazione che, dal secondo numero in poi, la Kahn li pagò per supervisionare di persona la stampa del fumetto. Quando Ronin uscì, nel 1983, fu roboante: Frank sperimentò una griglia di sedici vignette (che poi avrebbe evoluto, con aggiunta di un montaggio parallelo delle scene, in Il ritorno del Cavaliere Oscuro) e la colorazione di Varley donò ai disegni impatto, eleganza e prestigio. Le critiche sottolinearono la potenzialità in nuce all’opera: «Ronin avrebbe cambiato il settore per sempre» avrebbe affermato poi la Kahn «diventando una pietra miliare per ciò che i fumetti sarebbero potuti diventare.»
A Ronin fecero seguito la ricostruzione dell’icona di Batman con Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Batman: Anno uno, un aggiornamento delle origini del personaggio realizzato con David Mazzucchelli. L’operazione funzionò talmente bene che qualche anno più tardi la Marvel gli avrebbe proposto di fare lo stesso con Devil. Il risultato, Devil: L’uomo senza paura, disegnato dalla matita ballerina di John Romita Jr., non ebbe lo stesso impatto – anche se resta un progetto di tutto rispetto per il suo curriculum (QUI è spiegato il perché).
Il dopo-Dark Knight, tra incertezze e franchise
Il lavoro sull’Uomo Pipistrello proseguì con la controversa All Star Batman & Robin The Boy Wonder: disegnato da Jim Lee tra il 2005 e il 2008, il fumetto fu cancellato a serializzazione in corso perché Frank era troppo occupato a dirigere pubblicità per profumi. Miller sembrò aver portato a compimento un discorso su Batman come figura di ispirazione: se all’inizio aveva avuto una funzione culturale, doveva cioè essere un modello positivo, ormai era diventato simbolo di tutto ciò che non si dovrebbe fare nell’agire sociale. Arrivò persino a deriderlo, facendolo diventare uno psicopatico di cui Robin stesso non si fidava («Sta facendo la voce alla Clint Eastwood. È tutta una finta» pensò il giovane, poco prima che Bruce gli calasse il suo micidiale «I’m the goddam Batman!»), mischiando farsa e nazismo. Erano le stesse idee che si trovavano nel coevo adattamento cinematografico The Spirit, diretto dallo stesso Miller, solo eseguite su carta.
Da poche settimane, è arrivato l’ultimo capitolo della sua carriera professionale, Dark Knight III: The Master Race. La genesi dell’opera l’ha raccontata a CBR Dan Di Dio, che con la seguente dichiarazione ha probabilmente dimostrato di non saper vendere nemmeno del tè caldo agli eschimesi: «Eravamo appena usciti da Before Watchmen e volevamo trovare un modo di proseguire su quel filone». Con i successivi annunci – un quarto capitolo e un prequel –si è delineato un vero e proprio franchise The Dark Knight. Per ora, a tenere banco nelle classifiche di vendita è proprio l’ultimo sforzo fumettistico di Miller, che però … non sembra poi così tanto di Miller. Dalle dichiarazioni che si è fatto sfuggire, pare che il suo contributo all’opera sia marginale e limitato a una trama generale, rimpolpata in seguito dal co-sceneggiatore Brian Azzarello. Parlando di The Master Race ha detto: «Sto leggendo quello che sta facendo Brian e risponderò a tono nel quarto capitolo. Applaudo al suo lavoro, ora non vedo l’ora di mettermi a lavorare sul mio prossimo fumetto».
I hope that by now my silence is deafening pic.twitter.com/4E0xi4LHju
— Frank Miller (@FrankMillerInk) April 24, 2015
Per ora, l’elemento più interessante è il titolo, The Master Race, terminologia nazista per indicare la razza superiore e citazione (forse involontaria, ma quanto c’è di involontario in quello che fa Miller?) all’omonima storia di otto pagine realizzata nel 1955 da Bernie Krigstein, uno dei fumetti brevi più importanti mai pubblicati, che tanti autori americani – Miller per primo – ha ispirato. Qualche anno fa, lo stesso Art Spiegelman ne scrisse, riconoscente, sul New Yorker (e per chi non l’avesse mai letto, eccolo qua). The Master Race parla di Carl Reissman, un tedesco fuggito dai campi di concentramento e ancora tormentato dal suo passato. Nel finale, Krigstein svela che Reissman era un nazista, e l’uomo in nero un sopravvissuto che aveva giurato vendetta. Durante la fuga in metropolitana, Reissman inciampa e cade sui binari, venendo travolto dal treno. Le due pagine conclusive, in cui l’autore sviluppa l’inseguimento, sono una delle sequenze fondamentali del fumetto americano: attraverso una composizione sapiente, Krigstein riesce a rallentare una situazione che nella realtà occupa pochi attimi. Difficile non pensare che Miller avesse a mente Krigstein quando ha dichiarato: «I fumetti esistono nel tempo, il lettore si muove nel tempo leggendoli. Non è come guardare una galleria di quadri, sono veloci perché è così che acquistano energia e diventano sexy e divertenti. Non rallentano. Un fumettista deve essere davvero bravo per rallentare il lettore».
The Dark Knight III: The Master Race (o, meglio, uno dei minicomics associati) si segnala anche per la reunion di Miller e l’inchiostratore Klaus Janson, i cui rapporti si erano incrinati dopo Il ritorno del Cavaliere Oscuro. Il motivo della loro faida è ancora oggi nebuloso, ma è certo che il nodo della diatriba fosse la qualità delle chine del terzo numero: secondo un insider DC, Miller si arrabbiò con Janson perché stava usando degli assistenti per gli sfondi (tra cui Todd McFarlane e il futuro galeotto Greg Brooks) e non dava la massima priorità al progetto. Per Janson si trattava, a parole sue, di fare fronte alle scadenze e in seguito ha ammesso che, pur non essendo il suo miglior lavoro, «non è neanche la cosa peggiore che abbia mai fatto. Lui voleva che mi tirassi indietro, io non ho voluto farlo, perché non pensavo che ce ne fossero le ragioni.»
Tra umanesimo ed espressionismo: Devil
I due si erano incontrati durante i loro anni in Marvel, dove Miller era arrivato per disegnare storie brevi dell’Uomo Ragno sulla testata Spectacular Spider-Man. In uno degli episodi compariva anche Devil, il vigilante cieco che stava attraversando un periodo di stanca. Frank ebbe un’epifania: «Vidi Devil e d’un tratto mi accorsi che avrei potuto fare tutte le mie storie poliziesche attraverso questo tizio». L’occasione arrivò quando il neoassunto disegnatore della testata, il sessantenne Frank Robbins, mollò tutto per andare in pensione in Messico. Frank fu chiamato per sostituirlo, entrò subito in disaccordo con lo sceneggiatore Roger McKenzie e poco dopo gli subentrò ai testi.
Il materiale di base c’era: il personaggio era caratterizzato da una menomazione e non da un potere superomistico e faceva l’avvocato in una grande città. Bastava solo aggiustarlo un attimo. Frank eliminò gli avversari sopra le righe, li modificò o ne creò di nuovi e sfruttò il cast di comprimari. Sperimentò con dialoghi taglienti e una composizione cinematografica delle tavole. A differenza di ogni altro disegnatore di fumetti mainstream dei tempi, Miller preferiva l’espressionismo al realismo; i suoi modelli erano Will Eisner e disegnatori della EC come Harvey Kurtzman e Bernie Krigstein. Nelle sue mani, Devil passò dall’essere un personaggio di second’ordine a giocatore di serie A, e le storie diventarono polizieschi d’atmosfera.
Tra tutti, a conquistare i lettori è la memorabile Elektra. Per creare la ninja amata da Matt Murdock, Miller mischia Sand Saref, la femme fatale dello Spirit di Will Eisner, la modella Lisa Lyon, una bodybuilder professionista già musa del fotografo Robert Mapplethorpe, e Katherine Hepburne, i cui zigomi alti ispirarono l’inchiostratore Klaus Janson. «Elektra» scrive Sean Howe «fondeva atletismo e sesso in una miscela alla quale i ragazzi non potevano resistere».
Prima, durante e dopo (Devil)
Attratto dalla gravità di Devil, Miller ci torna più avanti con alcuni progetti che, nella sua mente, sembrano più divertissement che altro. In coppia con Bill Sienkiewicz sforna Elektra: Assassin, «uno scontro tra il cyberpunk e Miami Vice, realizzato con i colori di un tramonto chimico o di una caramella avvelenata» (parole di Alex Pappademas), e Devil: Amore e guerra. Sono graphic novel che mostrano l’irrisolutezza di Frank come sceneggiatore. Le sue parole o sono d’intralcio (vedere qui) o si dissolvono nei segni ora avvolgenti ora tachigrafici di Sienkiewicz. E poi Elektra vive ancora, storia dipinta che Frank ha sempre visto «come un modo per competere con gli europei Moebius e Toppi». Errore, quello di ostacolare i disegni con la parola, che non commetterà in Hard Boiled, storia cyberpunk che Frank scrive per Geof Darrow tra il 1990 e il 1992 e che presenta una dicotomia tra il fraseggio asciutto di Miller e le splash page abbacinanti di Darrow, sempre in bilico sull’andare in cortocircuito informativo, tanto sono dettagliate. Nella fragile trama – un agente assicurativo che si scopre essere un cyborg difettoso – Hard Boiled racchiude una critica ai nuovi valori culturali dell’America, il consumismo e lo sfruttamento commerciale, alla borghesia che vive nella suburbia anni Cinquanta in uno stato di negazionismo totale riguardo l’esistenza di un mondo altro, la Los Angeles del futuro vessata da ogni putridume immaginabile dove i poveri annegano le loro sofferenze in colossei del sesso.
L’unico lavoro Marvel che si rivela essere altro dal semplice impiego remunerato è Devil: Rinascita, una parabola tragica che Miller accetta per sanare i debiti del suo trasferimento sulla East Coast. L’idea per la storia gli viene mentre è seduto nella vasca da bagno, senza un soldo e a 5.000 km di distanza da New York. «Pensai: e se tutto questo fosse successo a Matt Murdock? Se avesse perduto tutto?».
Disegnato da David Mazzucchelli, Rinascita è intessuto con i fili della religione. Anche se non è granché praticante, Miller è cresciuto nello stesso humus culturale di Matt Murdock, discendenza irlandese di matrice cristiana. Madre quacchera, padre cattolico, Frank passa l’adolescenza a Montpellier, nel Vermont. Incontra la città solo quando nel 1976 si trasferisce a New York per fare carriera e aprendo l’elenco del telefono ci trova dentro il numero di Neal Adams.
Nel solco di Neal Adams
Adams aveva fondato lo studio Continuity. Frank ottiene un appuntamento per mostragli il suo portfolio, messo insieme con poliestere, cartone e spago – di quelli per tenere insieme le balle di fieno. Dentro doveva averci messo Call It Karma, una striscia apparsa sulla fanzine APA-5, quando era appena quindicenne. «Di dov’è che sei?» gli chiede Adams. «Vermont», risponde Frank. «Ecco, allora tornaci perché non sarai mai in grado di disegnare bene».
In effetti è così, Frank non sa disegnare bene. Commette talmente tanti errori che Adams fa prima a correggerli ridisegnando con un foglio trasparente sopra che a spiegarglieli uno a uno. Ma è testardo e continua a ripresentarsi finché i suoi lavori non raggiungono la soglia dell’accettabile. Tramite Neal Adams ottiene i suoi primi due ingaggi: Royal Feast, una storia di tre pagine sulla testata Twilight Zone (adattamento dell’omonima serie tv), e Deliver Me from D-Day, tratta dalla serie DC Weird War Tales, entrambe pubblicate nel marzo 1978. «Per quelle tre pagine mi ci vollero tre settimane intere». Nei suoi primi sforzi professionali, Frank non farà altro che tentare di imitare il tratto del maestro – l’unico che abbia mai avuto, essendo un autodidatta – e quando dovrà trovarsi uno stile suo, la ricerca gli costerà ore di agonia al tavolo da disegno.
La città del peccato
Marvel e DC: alla prima incolpava il modo in cui l’azienda aveva trattato Jack Kirby in materia di diritti sulle opere; della seconda non digeriva la creazione di un sistema di controllo morale che a Frank puzza tanto di censura. Fu quindi la Dark Horse a pubblicare Sin City. L’antologia di storie noir rappresenta il Frank Miller più primordiale (sono, in nuce, le prime storie proposte a Neal Adams), e più narcisista: «Dissi a Mike Richardson, l’editore della Dark Horse, che sarei stato disposto a dividere le perdite con loro se il fumetto si fosse rivelato un fiasco. Gli dissi “Senti, l’ho creato solo per me, è il fumetto che avrei sempre voluto fare”. Non mi importava se piaceva agli altri o no, e invece ebbe un successo che superò le mie aspettative.»
L’influenza dei scrittori di detective story è talmente forte che quando si ritrova Mickey Spillane di fianco a una convention teme che lo possa picchiare, perché ha appena annunciato che il suo prossimo fumetto si chiamerà The Big Fat Kill, una citazione al libro The Big Kill (da noi Il colpo gobbo). Marv, uno dei personaggi che popolano Sin City, non è poi così diverso da Mike Hammer, il detective di Spillane che Miller una volta descrisse come «Conan il barbaro se fosse un investigatore privato».
Sin City costituisce un nuovo inizio per Miller, libero di fare ciò che gli pare con la sua creatura (comprese dieci pagine di un personaggio che non fa altro che camminare sotto la pioggia) ma ironicamente limitato da paletti autoimposti: solo storie noir, solo uomini cattivi che picchiano uomini più cattivi, solo ragazze indifese o prostitute. Perfino il bianco e nero gli viene, in un certo senso, imposto dalla moglie. In quel periodo Lynn non aveva voglia di colorare, «e io ho colto l’occasione per vedere se riuscivo a fare un fumetto da solo, dall’inizio alla fine. Per questo l’ho anche letterato». «Sono parametri estetici tanto limitanti quanto quelli di Batman. Sembra quasi che sia uscito di galera per finire in un’altra prigione, leggermente meno dorata» ha scritto a proposito Alex Pappademas.
Con Dark Horse pubblica 300, graphic novel sulla battaglie delle Termopoli, e il meno noto Give Me Liberty, primo capitolo dell’epopea distopica di Martha Washington. Con Give Me Liberty e i successivi capitoli Miller scrive una storia radicata nel suo paese, perché mette al centro delle vicende una nera di nome Martha Washington e ambienta il tutto in un futuro in cui il governo si è mangiato tutte le libertà individuali – una delle questioni che agli americani sta più a cuore. Debitrice delle idee di Ayn Rand, di cui Miller è un fan dichiarato, e di The Ballad of Halo Jones di Alan Moore e Ian Gibson, Give Me Liberty presenta una protagonista distante dalla rappresentazione milleriana dalla donna che risulta più vivida dei suoi migliori sforzi precedenti. Per il resto, mentre seguiamo le gesta eroiche di Martha dalla culla alla tomba, ci sono tutti i marchi di fabbrica dell’autore (esasperazione, satira politica, attacchi al consumismo), con un’unica eccezione: l’elemento postcoloniale che Miller butta nel calderone.
Città ostili
Martha nasce nel complesso di edilizia popolare Cabrini-Green di Chicago, realmente esisto e fonte di ampie discussioni alla fine del secolo scorso. A prevalenza nera, matriarcale – il capofamiglia è spesso una donna perché l’uomo è scappato, in prigione o morto – e ricettacolo per la criminalità, il Cabrini-Green venne usato dal comune tra gli anni Cinquanta e i Novanta non tanto per integrare quanto più per (ri)segregare le minoranze. In Give Me Liberty, Miller e il disegnatore Dave Gibbons portano all’estremo questo ragionamento, facendo diventare il Cabrini-Green un ghetto fisicamente separato dal resto della città. Frank connota sempre lo scenario cittadino per parlare della società che lo abita. Che sia Basin City, Los Angeles, Chicago o New York, con la quale ha maturato la storia d’amore più rabbiosa. Quando ci giunge, giovanissimo, si trova a fare i conti con la faccia più cruda della città: il lavoro come carpentiere in quello che si scopre essere un cantiere in mano alla mafia, le rapine, i borseggiamenti.
Queste brutture gli sono di stimolo: Daredevil diventa il veicolo perfetto per far diventare New York un personaggio a sé. Le sue tavole sono piene di treni sopraelevati, acquedotti, grattacieli di vetro e bar malfamati, stipati all’interno di piccoli, claustrofobici rettangoli. E la scrittura inizia a fare leva sulle paure quotidiane della metropoli. Quando legge di una donna che colpiva con un rompighiaccio le persone sedute davanti a lei al cinema, pensa di far fare lo stesso ad Elektra. Ma i continui furti lo fanno sentire insicuro e, ottenuta la fama, fugge a Los Angeles: «Non ho mai smesso di amare questa città. Però vederti puntato contro un coltello è una cosa che un po’ ti segna. New York non è più un posto adatto alla vita regolare di un uomo».
Miller a Hollywood, e Hollywood da Miller
Ed è lì che Miller avvia un breve flirt con Hollywood, scrivendo la sceneggiatura per Robocop 2, che vorrebbe dirigere. Il processo è logorante, troppe persone coinvolte, troppi parametri da rispettare. Il risultato finale non rispetta la sua visione e il contributo più grande che darà al film è un cameo che inaugurerà la tradizione delle sue apparizioni cinematografiche. In cui finisce sempre ammazzato. Quando ci riprova con Robocop 3 e viene nuovamente ostacolato, getta la spugna.
Se la cotta per il cinema sembra passata, quella del cinema per Miller si intensifica, grazie all’arrivo nell’industria di una generazione di ragazzi cresciuti con i suoi fumetti: Geoff Darrow – nonostante sia lui che Miller, oggi, lo neghino – afferma che i fratelli Wachowski avrebbero voluto realizzare un adattamento animato di Ronin e che Miller si sarebbe rifiutato, poiché desideroso di vedere realizzato un lungometraggio live action con Nicholas Cage.
Anche il regista Darren Aronofsky lavora con Miller. I due preparano una bozza per gli adattamenti di Ronin e Batman: Anno Uno. «Frank trovò il processo di sceneggiatura soffocante, tornava a Los Angeles sfinito», dirà Lynn Varley. Bisogna aspettare gli anni Duemila, quando è ormai tornato a New York, per vedere del movimento su quel fronte: nel 2003 Robert Rodriguez si propone di adattare fedelmente (fin troppo) le storie di Sin City. Il risultato, un film che mischia attori dal vivo e ambienti generati al computer, ottiene un buon riscontro e apre la strada a 300, trasposizione dell’omonimo graphic novel che bissa il successo di Sin City. È fatta. Frank Miller si allontana dal mondo del fumetto, separandosi dalla moglie e tagliando ogni rapporto con i colleghi del settore. Si trova una nuova compagna, la studiosa di Shakespeare Kimberly Cox (che verrà poi accusata da una collaboratrice di Miller di molestie: secondo la donna, Cox era solita sprimacciarle la scrivania con le proprie feci). La Varley descriverà quel periodo con parole molto amare: «Frank divenne ancora più famoso di quanto non fosse già. Era tutto fonte di grande distrazione, sia per me che per lui. Non si può tornare a Hell’s Kitchen e pensare solo esclusivamente al cinema. Per me fu una sconfitta.»
Il suo progetto successivo, The Spirit, ispirato alla serie a fumetti creata da Will Eisner, lo vede coinvolto nella triplice veste di regista, sceneggiatore e attore. Il risultato è una forzatura dell’opera di Eisner e quando esce è un flop di critica e incassi. Nel 2014, dopo anni di rinvii, esce Sin City – Una donna per cui uccidere. Co-diretto sempre con Rodriguez, il film presenta un cast di tutto rispetto (tornano Jessica Alba, Bruce Willis, Mickey Rourke, Rosario Dawson, si aggiungono Josh Brolin, Joseph Gordon-Levitt, Eva Green, Lady Gaga). È accolto con freddezza da stampa e pubblico, che hanno a noia l’eccesso di bulli&pupe-ismo della pellicola.
La produzione controversa degli anni Duemila
Se negli anni Ottanta la sequenza di fuoricampo – nel mondo della critica e dei media – che realizza ogni volta che è alla battuta è impressionante, dal 2000 a oggi ogni nuova opera di Miller è accolta con sdegno, parodiata o derisa.
Nel 2011 esce Sacro terrore, per esempio, storia del supereroe Fixer che combatte i terroristi musulmani dopo il loro attacco a Empire City (un’immaginaria New York). Sarebbe dovuta intitolarsi Holy Terror, Batman! e avrebbe dovuto vedere Batman scontrarsi con Al Qaeda. Miller lo ha fatto diventare «un pezzo di propaganda» contro il terrorismo, non dissimile da quelli in cui Superman o Capitan America saccagnavano Hitler. Le recensioni e la risposta dei fan sono pessime. «Quella gente ha attaccato la mia città, ha ucciso i miei vicini, e per questo voglio vederli distrutti […] Se le persone che leggono il mio fumetto credono che sia eccessivamente reazionario, beh, è un loro problema. Vediamo cosa succederebbe se i loro vicini morissero, vorrei sapere come si sentirebbero» dirà Miller.
Da qui ha inizio una campagna anti-Occupy, il movimento di attivisti di estrema sinistra che dal 2011 in avanti ha occupato svariati simboli del potere capitalistico americano. Sul suo sito personale scrive: «Svegliatevi, merde di palude. L’America sta combattendo contro un nemico spietato. Forse avete sentito parlare di Al-Qaeda e dell’islamismo. Questo è il mio nemico, non il vostro a quanto pare, e dobbiamo dedicarci a estirparlo». Il post ricevette in poco tempo più di undicimila commenti, in gran parte dispregiativi, di cui «Per me sei morto» o «Una volta ero un tuo grandissimo fan» sono i più blandi. Quelli che credono che reazionario lo sia diventato solo con l’età, potrebbero rileggere non tanto Il ritorno del cavaliere oscuro – spesso confuso come un attacco satirico di taglio democratico e, in realtà, un mea culpa repubblicano “dal di dentro” – ma anche il ciclo di Devil, in cui la malvagità dei personaggi di contorno faceva sembrare ragionevole la violenza del protagonista. C’è chi ha difeso il suo diritto di opinione (Mark Millar) e chi (Alan Moore) ha commentato dicendo: «Frank Miller è una persona del cui lavoro mi sono interessato veramente poco negli ultimi vent’anni, credo che per molto tempo ci sia stata un’eccessiva quantità di cattiva sensibilizzazione nelle sue opere.»
Frank Miller, nonostante tutto
Perché alla fine a Frank si perdona un po’ tutto (altri autori hanno sbroccato molto prima) e pure con i suoi lavori meno stimati, riesce a farsi apprezzare. James Harvey (fumettista di We Are Robin, Masterplasty) ammette che Frank «Ha un ritmo innato. Sacro terrore presenta una visione dell’Islam imbarazzante e credo che abbia disegnato ogni pagina con non meno di cinque whisky in corpo, ciononostante come opera di pulp fiction da due soldi intrattiene. Penso ci sia un sacco da imparare dalle sue ultime cose». Quando è uscita la prima immagine disegnata da Frank Miller per The Master Race, la rete lo ha subissato di critiche, e Kurt Busiek e Erik Larsen hanno dovuto difendere il suo percorso artistico, segnato da un’incessante stilizzazione.
Il critico R.C. Harvey ha scritto nell’introduzione a The Art of Sin City che lo stile del fumettista è teso alla semplificazione, alla purificazione della parola e della forma, perché sia l’omissione a veicolare il significato narrativo. Vedi una silhouette e la mente la fa diventare un personaggio a tutto tondo. A furia di semplificare, però, i ritratti rischiano di diventare caricature e il minimalismo si può capovolgere in lacuna. Ecco perché, negli ultimi anni, il lavoro dell’autore è parso spesso sul filo della parodia (involontaria?). Non è più chiaro, insomma, se Miller, in qualità di provocatore, sia serio o stia trollando tutti quanti. Sacro terrore non potrebbe essere il prodotto di qualcuno che sta prendendo in giro un certo modo di pensare? Da come lui stesso ha inquadrato i suoi lavori, a dire il vero questa posizione pare soprattutto quella di alcuni critici e lettori particolarmente accondiscendenti. Ma DK III: The Master Race non è finito; la sua carriera nemmeno; e il dibattito sul Miller anni Duemila resta aperto.
Una cosa non è mai cambiata nella sua poetica: l’eroe milleriano, che è «qualcuno definito dalle proprie virtù. Può venire torturato, può odiare se stesso, ma fa sempre la cosa giusta. Dopo aver visto L’Eroe di Sparta chiesi ai miei genitori se i buoni morissero. ‘Temo di sì’, rispose mio padre. Da quel momento, la mia unica idea di eroe era quella di qualcuno che faceva perché era giusto, non perché avrebbe ottenuto una medaglia. Luke Skywalker, che alla fine del film viene premiato, è un momento un po’ fasullo. Quando poi perde la mano alla fine de L’Impero colpisce ancora, allora lì inizia il suo percorso verso il vero eroismo».
L’eroe di Miller è ottimista. È strano dirlo, perché Frank è passato alla storia come quello violento, duro e puro, sigaretta spenta sul dorso della mano pelosa e pacca sul culo. Eppure i suoi personaggi non smettono di lottare contro una società fallata e incapace di risolvere le criticità – e qui sta il suo debito verso l’oggettivismo di Ayn Rand. In Elektra: Assassin la protagonista riesce a salvare il mondo, consegnando un presidente degno di questo nome, nonostante gli apparati politici e militari incompetenti; ne Il ritorno del cavaliere oscuro Batman salva Gotham con l’aiuto dei cittadini, mentre l’esercito americano non riesce a contenere l’anarchia; di fronte a un governo che cade a pezzi, Martha Washington è «un’ispirazione per la gente. Tutta la sua vita ha un’integrità che funge da esempio per chiunque» (parole del disegnatore Dave Gibbons). Anche quando il finale è negativo riesce a nasconderci una coda di giustizia, come quando il sacrificio di John Hartigan si rivela una vittoria: «Un vecchio muore, e una ragazzina vive. Uno scambio equo».
Ma se c’è un momento soltanto che posso portarmi a casa di Frank Miller, deve essere per forza questo video del 2013 in cui visita la casa del regista Robert Rodriguez e osserva, incantato, la collezione di dipinti di Frank Frazetta. A un certo punto succede qualcosa di inedito per l’autore. Si ferma davanti a The Moon Maid e sussurra con voce rotta: «Frazetta sapeva cosa sono i sogni. Ho sempre ammirato quello che ha fatto, la sua maestria nel fare quello che faceva. Vorrei poter essere come lui». Che poi è un po’ la dimostrazione di quanto vicini gli siano i suoi personaggi: tipi spacconi ed egomaniaci che, dopo tutte le vittorie e le batoste, conservano un fondo di umano stupore per le cose.