In occasione della recente riedizione di Silver Surfer – Parabola (Panini Comics), proponiamo un’intervista a Moebius condotta da Andrea Plazzi e pubblicata nel 1996 all’interno della prima edizione italiana in volume dell’opera, edita da Marvel Italia-Panini.
Leggi un estratto dalla nuova riedizione di Silver Surfer – Parabola
Come conobbe Stan Lee?
Fu alla Convention di San Diego del 1988. In quel periodo lavoravo già per la Marvel, che stava pubblicando una serie di volumi con i miei lavori passati. Fu naturale conoscere Stan, che aveva e ha tutt’oggi un ruolo molto importante nella casa editrice.
Conosceva già la Marvel e i suoi personaggi?
Naturalmente. Avevo letto le edizioni francesi degli anni Settanta, e in particolare le storie di Stan, che mi piacevano particolarmente.
Come arrivaste a decidere il soggetto della storia?
Avevo sempre avuto un debole per Silver Surfer e lo dissi a Stan. È un personaggio straordinario, una figura di extraterrestre assolutamente affascinante.
Tra tutti i personaggi Marvel è forse il più vicino alla sua sensibilità fantastica e onirica.
Si, è vero, e forse è anche per questo che l’idea iniziale si è sviluppata così facilmente. In fondo non era assolutamente scontato, visto che io e Stan veniamo da culture e da generi fumettistici molto diversi. Inoltre, dal punto di vista pratico, io amo molto fantasticare, fare progetti che poi non partono o partono molto tempo dopo. Stan invece è un uomo d’azione e pochi giorni dopo quella chiacchierata il soggetto era già pronto.
In che modo avete lavorato?
A partire dal soggetto di Stan ho suddiviso le tavole in scene e vignette prive di testo. Poi Stan ha rivisto il tutto aggiungendo testo e dialoghi. Tutto bel più classico stile “americano”, quindi.
Come erano i rapporti con lo staff Marvel, durante il periodo di produzione di Parabola?
So che può sembrare una risposta diplomatica ma… il punto è che in questo mestiere c’è un’alta percentuale di gente molto simpatica e intelligente e alla Marvel non facevano eccezione. Ci siamo sempre intesi benissimo e non è mai sorto il minimo problema.
Negli ultimi anni i supereroi sono divenuti quasi l’unico tipo di fumetto presente nel mercato americano. Lei ha lavorato praticamente su tutti i generi del fumetto e dell’illustrazione e recentemente, in alcune interviste, è stato abbastanza critico verso questa mancanza di varietà.
Non ho nulla contro un genere in particolare. Ciascun genere è interessante in sé e ha un suo modo particolare di esprimere il talento degli autori. Ciascuno mette a disposizione certi strumenti (narrativi e illustrativi) e tutti concorrono alla formazione della sensibilità artistica collettiva. Negli Stati Uniti l’aspetto commerciale prevale su quello artistico e la pressione degli editori sugli autori può diventare davvero enorme, arrivando a uno sfruttamento selvaggio. Ma lo sfruttamento esclusivamente commerciale di un genere significa la morte del genere stesso e in questo senso la vitalità del fumetto americano è davvero formidabile e continua a sorprendermi. Personalmente, una delle cose che trovo irritanti nei “comics” [termine che per Mœbius indica i soli fumetti di supereroi; N.d.T.] è la puerilità di molti di essi, che rischia di uccidere e di screditare l’intero genere. Ma negli USA non ci sono solo i comics: esistono tantissimi tipi di fumetto, tutti estremamente interessanti. E il lettore americano, dovendo scegliere, ha imparato o imparerà molto presto a essere selettivo.
Alcuni dei suoi autori preferiti di sempre sono comunque dei classici del fumetto statunitense, come Milton Caniff o Alex Raymond.
Si, li ho amati moltissimo per la loro grandissima lezione di stile, ma nelle mie letture sono arrivati relativamente tardi. Prima ci sono stati i fumetti italiani del dopoguerra, una produzione enorme che un Francia era molto popolare: Pecos Bill, Miki, Blek, Gim Toro, Amok, Il Piccolo Sceriffo.
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Negli USA lei è un autore di culto, conosciuto e apprezzato da colleghi, operatori e dal pubblico più attento. Una delle cose che colpisce maggiormente gli autori americani (tra cui John Romita Junior, che è un suo grandissimo ammiratore) è – ai loro occhi – la totale originalità delle sue opere, in cui non riescono a riconoscere alcuna influenza.
Be’, in realtà ce ne sono parecchie, anche se molte sono inconsce e neppure per me è facile individuarle con precisione. Alcune sono musicali, come il Jazz e ogni musica che metta in relazione le persone. In ambito più strettamente artistico c’è sicuramente Gustave Doré, ma anche Robert Crumb, gli artisti del rinascimento, Giorgio De Chirico e i surrealisti italiani. E naturalmente il fumetto italiano, come dicevo prima, quello della mia infanzia, che assieme al cinema e alla passione per il West ha segnato i miei primi anni. In tempi più recenti è stato molto importante il mio incontro con Alejandro Jodorowsky, che ha un approccio alle storie molto forte, molto visionario. E, naturalmente, il periodo negli Stati Uniti, dove sia a Hollywood che in campo editoriale ho incontrato una grande professionalità e una grande dedizione al lavoro.
L’ambiente del cinema le è sembrato particolarmente difficile rispetto a quello editoriale?
Quando si è già conosciuti e si ha un bravo agente non è difficile trovare un regista che ti assegni un po’ di lavoro. I registi sono gente strana, sempre alla ricerca di immagini nuove o di idee per immagini nuove, almeno quando si tratta di film ad alta spettacolarità. In questo settore credo che chiunque, con qualche idea e un agente, prima o poi possa trovare lavoro negli USA e farsi un nome. L’unico problema è essere sul posto. Agli americani piace lavorare con persone di culture diverse, e le accolgono sempre molto bene, purché poi restino lì.
Un ricordo personale di Stan Lee.
Amichevole, simpaticissimo. Un personaggio eccezionale.
Lavorerebbe ancora per la Marvel?
Si, ma non con Stan Lee. Parabola deve restare qualcosa di unico.
*Andrea Plazzi (Bologna, 1962) è un traduttore, saggista ed editor. Inoltre, è curatore delle opere di Leo Ortolani.