Era il 1945 quando, in un’Italia ancora ferita dalla guerra, il Corriere dei Piccoli pubblicava a puntate quella che sarebbe diventata La famosa invasione degli orsi in Sicilia, la fiaba di Dino Buzzati in cui si narra lo scontro-incontro tra orsi e umani. A invadere quel mondo è ora il fumettista e illustratore Lorenzo Mattotti, che ne ha diretto l’adattamento cinematografico.
Mattotti è al suo debutto come regista di un lungometraggio, dopo aver collaborato a varie produzioni e aver diretto alcuni corti. L’animazione, un mix tra 2D e 3D, è stata affidata allo studio francese Prima Linea, già dietro a La tartaruga rossa, che con Mattotti aveva collaborato ai film Peur(s) du noir – Paure del buio e Il Etait une fois… Peut–être pas di Charles Nemes.
In una Sicilia remota e fuori dal tempo, il re degli orsi, Leonzio, da tempo alla ricerca del figlio Tonio, rapito da ignoti, conduce il suo popolo dalle montagne fino alla pianura, dove risiedono gli uomini, nel tentativo di sopravvivere ai rigori di un terribile inverno. Le due specie vivranno scontri e riappacificazioni, in uno sviluppo che, come le migliori fiabe, non si esimerà dall’affrontare la tragedia.
La parabola degli orsi è anche quella dell’età dell’uomo. Il cucciolo strappato con violenza dal fiume (il suo liquido amniotico), le speranze e la disillusione della maturità, il ritorno allo stadio primordiale. Se il libro di Buzzati era figlio dei tempi post-bellici in cui era stato concepito, il film di Mattotti non può non evocare il racconto di migranti (gli orsi che si avvicinano alle città per mancanza di cibo) attaccati perché potenziali usurpatori dello status quo.
In una scena molto buffa gli orsi si presentano ai cancelli del granducato per chiedere ospitalità e le vedette si arrovellano sul significato della richiesta dell’orso, incapaci di individuarlo in quanto tale («c’è qualcuno che dice qualcosa ma io non capisco niente»). Con questi piccoli tocchi il cartone enuclea il problema dell’incomunicabilità, delle barriere. E anche tutti gli altri temi – il potere delle storie, la corruzione umana – sono presentati a un pubblico anche bambinesco e non ingombrano la materia del racconto, mantenendo invece cristallini gli intenti narrativi.
Mattotti trova la quadra insieme ai due co-sceneggiatori, Thomas Bidegain (Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, I fratelli Sisters) e Jean-Luc Fromental, autore di libri e film per bambini (Trecentosessantacinque pinguini, Tenebrossa, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene). I tre restano fedeli alla fonte e mantengono l’uso che fa Buzzati del narratore eterodiegetico e allo stesso tempo inaffidabile, trasformandolo in una cornice in cui a raccontare la storia sono due saltimbanchi, padre e figlia.
Viene rispettata perfino la cesura a metà della trama, figlia della bipartizione originale dell’opera. La fiaba, infatti, era uscita originariamente a puntate, in due tronconi (La famosa invasione degli orsi e Vecchi orsi addio!). Il film eredita perciò un senso interlocutorio in cui sembra finire e poi ricominciare, producendo un paio di momenti di stanca. Ciononostante, Mattotti e i suoi bilanciano bene le incombenze narrative con i passaggi più suggestivi e onirici, trovano alcune gag molto buffe e rimangono nel radar di un pubblico il più trasversale possibile, senza instupidire troppo i dialoghi ma evitando i sofismi.
C’è grande leggerezza, non si cerca la drammaticità e gli eventi sono messi in scena senza sbrodolarsi in rivoli melodrammatici. Il rapimento del figlio che apre il film in altre mani sarebbe potuta diventare una scena madre, invece tutto succede con un gesto definito ma tenero, come i pastelli degli sfondi. La vicenda ha il nerbo morbido delle cere.
C’è molto Mattotti in questo film. Banalmente, negli sfondi (a volte debitori di Henri Rousseau), nell’uso dei colori e nel design. Ma anche negli aspetti più dimessi: la carrellata iniziale tra rovi neri che sembrano usciti dalle opere in bianco e nero (Il corvo, Hänsel e Gretel, Oltremai), i circensi (Eugenio), le fantasie caleidoscopiche (Il Sole lunatico), la natura contro l’uomo, la morte (Il santo coccodrillo).
Il disegnatore, che con il colore è riuscito, nei suoi fumetti, a restituire la dimensione e il volume di ogni soggetto, sembra trovarsi a suo agio in questo ibrido tra animazione tradizionale e digitale. Squadra i musi degli orsi, che nel libro erano forme semplici viste quasi sempre di profilo, e assottiglia i corpi degli uomini, lunghi e rigidi come insetti stecchi, linee fragili, come quelle che davano il titolo a uno suo libro in cui si apriva una stagione di ricerca per uno stile più rarefatto.
De Ambrosiis (il mago di corte co-protagonista della storia) e gli umani sembrano quasi automi che hanno perso il controllo del proprio corpo e lo muovono in balia di un burattinaio ubriaco. L’unica umana disegnata con garbo è la ragazza di cui si innamora il giovane Tonio, a rimarcare la differenza tra lei e gli oppressori.
È proprio sui corpi che si concentra La famosa invasione degli orsi in Sicilia. La recitazione punta sull’espressività essenziale dei volti e preferisce giocare con la fisicità delle masse corporee. Rarefacendo i primi piani, la cinepresa indugia sui totali degli orsi, cicciotti e massicci, che si muovono, ballano e scuotono i loro morbidi sederi.
Le sequenze migliori sono quelle in cui la parola cede il posto all’azione («Non ti mando parole, ma segni» faceva dire Mattotti al tenente Assenzio di Fuochi). Il regista si diverte a riempire gli occhi dello spettatore con le forme familiari ai suoi lettori, richiamando ciò che descriveva Francesco Boille come «un organismo denso e leggero, fisico ed ectoplasmico», liquido e denso a seconda dei momenti. La danza degli orsi con i fantasmi di Rocca Demona, lo scontro con il gatto mammone, la battaglia tra orsi e uomini, in cui i primi sono creature errabonde sul campo mentre i secondi marciano seguendo geometrie ineluttabili, sono tutti grandi momenti di animazione ben congegnati.
In particolare, il finale colpisce perché mostra quanto comodamente a Mattotti calzi il ruolo di regista: per design dei personaggi, uso del sonoro, montaggio serrato e sempre chiaro nel tenere dritta la rotta dell’azione, il climax inquieta e coinvolge. In quegli ultimi attimi, anche grazie alle musiche cariche di percussioni di René Aubry, l’atmosfera incantata cede le redini a una costruzione viscerale.
Sarà che, per un pregiudizio personale, non mi aspettavo grande vitalità, eppure La famosa invasione degli orsi in Sicilia si muove con trasporto e calore. Certo, alcune relazioni tra i personaggi avrebbero giovato di maggiore affinamento, ma le lacune sono compensate da grande inventiva, un sentimento onesto e notevole fattura.
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