Kiki – Consegne a domicilio, lungometraggio di Hayao Miyazaki uscito nel luglio del 1989, compie trent’anni ed è il caso di capire, a distanza di tempo, quanto è rimasto di un film che da molti è considerato “minore” nella filmografia miyazakiana.
La storia racconta di Kiki, una strega di appena tredici anni che è pronta per lasciare casa e affrontare un anno intero da sola, in una città diversa, senza l’aiuto di nessuno, men che meno dei suoi amati genitori. Kiki sceglie una città di mare e, a parte qualche iniziale difficoltà, riesce a trovare un lavoro e un alloggio. Ma ambientarsi non è facile e gli ostacoli che dovrà superare saranno i passi necessari per una completa maturazione.
Il contesto storico in cui il film viene presentato è molto particolare. Lo Studio Ghibli è in attività da appena quattro anni, sono usciti lungometraggi come Laputa – Il Castello nel cielo, Il mio vicino Totoro e La tomba delle lucciole. Tutte opere di altissimo valore ma che hanno incassato relativamente poco, soprattutto rispetto alle laute spese richieste dallo Studio per il notevole livello tecnico che Miyazaki e Takahata hanno da sempre adottato come standard per i loro lavori.
La situazione è (quasi) critica. Il contesto, inoltre, è quello di un Giappone immerso economicamente nel pieno della sua bolla economica, che presto, dopo pochi anni, sarebbe esplosa facendo crollare l’illusione di un progresso e un benessere irrefrenabile. A Gennaio si è conclusa l’era Shōwa ed è iniziata l’era Heisei. Il momento per il Sol Levante è di transizione e lo è anche per lo Studio Ghibli.
Kiki – Consegne a domicilio è tratto dall’omonimo romanzo di Eiko Kadono, di qualche anno prima, e ha un tono leggero, come il precedente Totoro. Rispetto ad altri film dello Studio è meno legato a certe dinamiche prettamente orientali e ha uno sguardo complice verso l’occidente, a partire dall’ambientazione che si ispira prevalentemente a Stoccolma ma che è un connubio di diverse città europee, tra cui Lisbona e Napoli.
Miyazaki opta per un duplice approccio. Da una parte sceglie deliberatamente una storia semplice, di formazione, in cui tutto potrebbe apparire come “leggero” e prevedibile. Dall’altra realizza un incrocio di contesti, anche furbescamente, per rendere il prodotto finale più appetibile a un pubblico locale ma anche e soprattutto internazionale. E il botteghino ripaga.
Questo è il primo elemento da tenere in considerazione: gli incassi di Kiki sono strabilianti, il primo vero grande successo targato Studio Ghibli. Da questo punto di vista si può dire che Kiki – Consegne a domicilio ha rappresentato l’incipit del percorso strabiliante di Miyazaki & co.
Rivisto oggi quello che è subito chiaro è che questo film, come tutti quelli prodotti da Ghibli, non è invecchiato per niente. Merito del reparto tecnico? Dell’ossessivo perfezionismo del Maestro? Molto probabilmente è così. L’animazione tradizionale, fatta a livelli così alti, non può invecchiare come ha fatto, per esempio, il primo Toy Story, un film in cui si era agli albori di un linguaggio che, con il tempo, sarebbe divenuto lo strumento primo per l’animazione. Ma c’è dell’altro.
Kiki è un’eroina che vive di contraddizioni, perfetta nella sua imperfezione. E qui sta la grande abilità di un autore come Miyazaki: mettere in un contesto favolistico e metaforico un personaggio del tutto reale nel suo porsi nei confronti del mondo. Kiki è una bambina che deve compiere il fatidico passaggio all’età adulta. Quindi, per sottolineare la difficoltà di questo passaggio, Kiki si tramuta in icona, in simbolo. Kiki è un po’ viziata, ingenua, irascibile, diffidente nei confronti dei suoi coetanei e un pizzico moralista. Ma è anche di una dolcezza unica, trasparente e mossa da giusti propositi. C’è un’immaturità di fondo ben descritta da Miyazaki, che emerge nei passaggi funzionali e che, come si diceva, rende il personaggio vero, sentito.
La difficoltà più grande che Kiki deve affrontare è quando perde speranza e fiducia in se stessa e, di conseguenza, i poteri. Non riesce più a volare con la scopa. Non riesce più a comunicare con il gatto Jiji. È sola, senza amici e senza famiglia. Qui, in un film che appare solare e semplice, prende corpo un’oscurità, il male di vivere, sfumature di un grigiore esistenziale che, a ben pensarci, sono sempre presenti nella filmografia di Miyazaki. E, dopo questo momento critico, avviene il riscatto: sorprendente, puro, strumentale.
A trent’anni dalla sua uscita originaria, Kiki conferma le direttrici principali del corpus autoriale miyazakiano. C’è l’amore per il volo, simbolo di libertà poiché rompe le regole scientifiche a cui l’uomo è legato (la gravità che ci costringe a terra). È un elemento costante: già in Conan, il ragazzo del futuro, in Nausicaa della Valle del vento, con l’aliante della protagonista che solca i cieli malati di un mondo morente; in Laputa, in Porco Rosso diventa assunto di vita, e così via, fino ad arrivare a Si alza il vento. C’è la ricerca di un legame vero, che si costruisce attraverso la comunione di esperienze più o meno traumatiche. C’è la costruzione di sé, per mezzo di incontri con altre persone che sono veri e propri passi di crescita.
Nella sua dimensione favolistica, Kiki – Consegne a domicilio riesce a essere complesso e coinvolgente. Alterna momenti di estasi poetica ad altri di pura action, come la sequenza finale del dirigibile in cui l’amico Tombo rischia la vita. E, con una semplicità disarmante, Miyazaki riesce a creare atmosfere dense di pathos, dal volo iniziale verso la nuova città alla pioggia di un temporale in cui Kiki perde, per un attimo, la speranza nei confronti del genere umano dopo la delusione per una consegna.
La linearità e la trasparenza, che ben nascondono un universo stratificato e complesso, sono la forza di un film che, a trent’anni dalla sua uscita, stupisce ancora per la sua forza etica e strettamente cinematografica, che è anche la forza che contraddistingue la magnificenza autoriale di Hayao Miyazaki.
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