Dopo un lunghissimo periodo di quasi completa invisibilità, quest’anno – nel giro di poche settimane – sono addirittura tre i libri di Massimo Mattioli ad arrivare sugli scaffali: Bazooly Gazooly per Comicon Edizioni, Superwest per Panini Comics e Squeak the Mouse per Coconino Press. Considerato quanto fosse difficile – e costoso – reperire questo materiale, si tratta di un’enorme fortuna per chiunque voglia scoprire l’arte di una delle figure più peculiari e debordanti del fumetto mondiale.
Per chi non lo sapesse stiamo parlando della mente che, dopo aver creato il fotoreporter Pinky per le Edizioni San Paolo, passò poi a fondare Cannibale assieme a Stefano Tamburini e a seminare il panico – persino oltreoceano – con Squeak the Mouse, ovvero la sua nerissima versione di Tom & Jerry.
Il tutto senza farsi mancare collaborazioni con magazine patinati come Vogue, Vanity Fair e con lo sfavillante mondo della pubblicità, oltre che esperienze fuori da ogni contesto come il folle video di Change His Ways di Roger Palmer, una sorta di Cool World di Ralph Bakshi realizzato con quattro anni di anticipo. Una carriera inclassificabile, poliedrica e insofferente a ogni sovrastruttura e schema mentale.
Nel 1965, a poco più di vent’anni, Massimo Mattioli esordisce sulle pagine de Il Vittorioso con una serie di strisce – Il Vermetto Sigh, Il Ragnetto Gigi e Ipo, Rita e Pino – che contengono in potenza tutta la sua poetica: un tratto semplice e ridotto all’osso, animali parlanti e un umorismo leggero e surreale. Tutti aspetti che troveranno la loro consacrazione nel 1968, quando scriverà e disegnerà per la rivista francese Pif Gadget le avventure di M le magicien.
Protagonista della sua nuova creazione è un minuscolo mago, abitante di un altrettanto minuto castello. I meccanismi comici si fanno ancora più poetici e surreali, spesso vertono sulla resa grafica di giochi di parole o sul sabotaggio del disegno, per esempio sovvertendo le prospettive in puro stile Krazy Kat, mentre le pagine acquistano colori vivacissimi.
La striscia si conferma una miniera di trovate messe su carta con foga rara e finisce ben presto per diventare un classico. Sebbene il contesto sia delicato e i disegni siano asciugati da ogni tratto non necessario, è evidente come la tendenza sia quella di buttare sul piatto più idee possibili, senza nessun timore di spaesare il lettore.
Così l’autore preferisce esplorare il linguaggio del fumetto in maniera approfondita e mai banale. L’andamento è rapidissimo – cifra di tutta la poetica dell’autore – e bastano strisce di quattro o cinque vignette per sviluppare e mettere su carta intuizioni sempre nuove.
Cinque dopo anni il fumettista romano dà vita a un nuovo personaggio, destinato a durare per decenni e essere letto e amato da generazioni di italiani. Nel 1973 sulle pagine de Il Giornalino, rivista di ispirazione cattolica edita dalle Edizioni San Paolo, esordisce infatti il fotoreporter Pinky. Un lisergico coniglio rosa, sempre sospettosamente su di giri, impegnato nella ricerca della foto più clamorosa da vendere al proprio giornale.
Su queste pagine Massimo Mattioli potrà dare libero sfogo al suo lato più sfrenato ed eccentrico, nella narrazione come nel disegno. L’umorismo si fa ancora più fulmineo, spesso tangente al nonsense. Fa capolino anche una cattiveria che con il senno di poi lascia intendere cosa sarebbe arrivato da lì a poco. Alla stessa maniera, con il passare del tempo, il tratto si fa via via più astratto, come a voler tornare agli esordi di M le magicien.
Se nelle prime storie di Pinky i personaggi hanno infatti tratti morbidi e concilianti, come ci si aspetterebbe da un prodotto destinato alla fascia d’età per cui è stato concepito, mano a mano le linee si fanno sempre più asciutte e ruvide. Come se da un fumetto per bambini ci si stesse avvicinando a un fumetto disegnato da bambini.
Massimo Mattioli riesce a svuotare le sue vignette in maniera straordinaria, senza perdere un grammo di espressività dei personaggi e al contempo arrivando a una potenza iconica difficile da ignorare. Le influenze di George Harriman e Carl Barks non vengono mai nascoste, e quella che arriva al lettore è l’impressione di un prodotto per l’infanzia lanciato alla velocità della luce.
Pinky diventa ben presto un classico del fumetto italiano senza che l’autore perda l’abitudine di inserire qua e la provocazioni quasi impercettibili. Infilando, per esempio, un personaggio sullo sfondo che canta I Wanna Be Your Dog degli Stooges (Il giorno ideale, 1 febbraio 1995). Altro che le stupide canzoncine di Teletubbies e compagnia.
Questa carica eversiva – fino a ora sublimata malmenando i limiti del fumetto per ragazzi – trova piena espressione quando, nel 1977, Mattioli fonda con Stefano Tamburini la rivista Cannibale. Un laboratorio creativo privo di ogni freno inibitore dove, da lì a poco, avrebbero trovato spazio Andrea Pazienza, Tanino Liberatore e Filippo Scòzzari.
La completa libertà di quegli anni si manifesta in maniera cristallina nella sua produzione a fumetti. Sfogliare il volume Bazooly Gazooly, che raccoglie la sua produzione del periodo Cannibale/Frigidaire, è l’equivalente di uno zapping epilettico su un televisore collegato direttamente al suo cervello.
Continui cambi di stile, umorismo ferocissimo, pornografia, un fiume di rimandi al cinema e ad altri fumetti, personaggi che durano lo spazio di una striscia e che per loro ammissione “non valgono un cazzo”. Dentro ci sono Moebius, Roy Lichtenstein, Robert Crumb, il clamoroso noir a sfondo musicale Il caso Joy Division, fantascienza vintage, personaggi a un passo dal nonsense come Gatto Gattivo, Lucertola la Lucertola, Microcefalus, sperimentazioni grafiche di ogni sorta e tonnellate di idee.
Su quelle stesse pagine esordisce anche Joe Galaxy. Memorabile personaggio a cui, nel corso degli anni, farà vivere avventure sempre più disarmanti. Ancora una volta si tratta di un animale antropomorfo – c’è chi dice sia una cornacchia, chi un’aquila – immerso in un universo che pare composto dai ritagli di locandine di migliaia di b-movie fantascientifici.
Mattioli è sempre stato un fine cinefilo – vedi L’invasione dei baccelloni o Star Trok sulle pagine de Il Giornalino – e con Joe Galaxy dà sfogo a tutta la sua voglia di rileggere il genere sci-fi. Eccolo quindi inventarsi una specie di avventuriero spaziale perennemente inguainato nella sua tutina azzurra dotata di guanti e stivali bianchi. Alla sua cintola trova posto una colt ionica che non esita a usare appena le cose si mettono male. In questa divisa viaggia per la galassia, sempre alla ricerca di qualche lavoretto sporco da portare a termine per un mucchio di soldi.
«Ho girato mezza galassia e un bel pò di universi paralleli, ho visto meraviglie e schifezze di mille pianeti, ho lottato contro mostri pelosi dall’alito puzzolente e frigidaires arrugginiti, ho amato bambole di tutte le razze, ho ucciso gangster e stilisti, chiacchierato con buchi neri, giocato a football altairiano e altro ancora», ci racconta lui stesso nell’episodio An Idea Is Only a Idea.
Ogni storia di Joe Galaxy è la rilettura in chiave “100% Mattioli” di qualche cliché della fantascienza. Pensate a una specie di Rick e Morty, solo con più tette e con protagonista una specie di Han Solo che avrebbe venduto la Ribellione alla prima occasione utile. Con 36 anni di anticipo sulla serie di Dan Harmon e con una resa grafica strepitosa, sospesa tra Looney Tunes, Tex Avery e una spiccata propensione al pop più abbagliante. A dispetto del suo aspetto quasi infantile Joe ruba, uccide, stupra, frega, si incazza, va a donne, picchia bambini. Non è legato a nessuna controcultura e non è lo specchio di nulla, è solo un egomaniaco pigro e indolente.
Nella storia Do Canaries Dream of Electric Sheep? – ennesima citazione di un classico della fantascienza irriso senza troppi problemi – addirittura de-evolve un’intera cultura, quella dei canarini. Prima della cura Galaxy si trattava di «una razzaccia di terribili-figli-di-puttana cacacazzi e cercarogne gialli che seminava il panico anche sui pianeti più coriacei con la sua ferocia senza limiti». Ora invece, grazie al nostro eroe, li conosciamo come allegri e innocui animali da compagnia con la buffa abitudine di dormire su una zampa sola abbarbicati al loro trespolo.
Da notare come, sempre nella stessa storia, mentre l’avventuriero ci racconta di come abbia perseguito tale mirabile risultato, contemporaneamente si sollazzi torturando una inerte coppia di uccellini sottoponendoli a un ciclo giorno-notte piuttosto brutale. La scelta è perfetta per rendere la totale disumanizzazione del personaggio, senza dubbio pessimo e sgradevole. Tra gli altri grandi risultati di questa creazione di Mattioli va ricordato inoltre l’aver battuto sul tempo il film Atto di forza nella mirabile intuizione dell’aliena/mutante a tre tette. Sono risultati che in pochi possono vantare.
L’avventura d’esordio di questo lestofante, Joe Galaxy e le perfide lucertole di Callisto IV, è una sorta di Intrigo internazionale intergalattico condito con la giusta dose di sesso, humor nero e assurdità assortite. La trama parte in maniera quasi tradizionale, ma ben presto comincia a farsi sempre più folle e convulsa. Vengono introdotte sbavature dimensionali e fili di reversibilità, come se più narrazioni si stessero affastellando una sopra l’altra. Il ritmo si alza sempre di più, come la frequenza di inserzioni (anche grafiche) fuoriposto.
Quando ormai tutto sembra essere andato a gambe all’aria ecco una serie di contro-finali in grado non solo di chiudere la vicenda in maniera del tutto logica e coerente, ma anche di dare una dimensione definitiva – come dicevamo poco sopra, un egoista pigro e indolente – al protagonista della storia. Il tutto calato in un mondo che non lesina sugli omaggi alla grande fantascienza, passando dal Fahrenheit 451 di Truffaut al Doctor Who fino a Ultimatum alla Terra.
In realtà, se per un attimo non facciamo caso all’irriverenza e a tutti i vezzi di Massimo Mattioli, quello che rimane è un gran racconto di fantascienza. La dimostrazione più palese di che narratore capace e consapevole sia il fumettista romano, nonostante la sua propensione alla gag fulminante o ai ritmi da striscia comica. Un’attitudine che si era già palesata sulle pagine di Cannibale, a esempio con il già citato Il caso Joy Division, ma che con la prima avventura di Joe Galaxy raggiunge il suo picco.
Eppure la sua creazione più famosa, forse non quella meglio riuscita ma sicuramente la più iconica, deve ancora arrivare. Tornando per un istante indietro nel tempo e rileggendo Pinky alla luce di quello che sarebbe arrivato, è palese come quelle pagine contenessero con diversi anni di anticipo l’embrione del Mattioli più iconoclasta. Oltre alla fantascienza e all’hard-boiled, anche lo splatter cominciava a fare capolino.
Graficamente si era vicini a un qualsiasi cartone di Hanna & Barbera, eppure in quelle storie così spensierate non si lesinava certo sulle crudeltà: piedi inchiodati a terra, esplosioni, corpi carbonizzati – tanto per fare tre esempi – non mancavano. Tutte trovate che non aspettavano altro se non di essere reinterpretate in una chiave ancora più sopra le righe.
Nel 1984 prende così vita, sulle pagine di Frigidaire, Squeak the Mouse. Sorta di Tom & Jerry ossessionato da sesso e violenza, capace di ridefinire lo splatter a fumetti in maniera tanto forte e significativa da andare a influenzare, anche a distanza di anni, una marea di prodotti infinitamente più di successo rispetto al prototipo. Forse perché nessuno di questi contiene scene di sesso esplicito che sfociano in corpi divelti e geyser di sangue.
Dai Simpson – con il celeberrimo Grattachecca e Fichetto – a tutta un’estetica che per molto tempo rimarrà legata a MTV (il classico Celebrity Deathmatch, con i suoi smembramenti in plastilina) passando poi a una serie di canali televisivi alla Adult Swim, la lezione è stata assimilata, digerita e rigurgitata già ben masticata sul piatto del pubblico. E infatti nessuno di questi esempi raggiunge le vette di sgradevolezza e crudeltà del prototipo di Mattioli.
Il primo volume si apre in maniera clamorosa. The Big Game si svolge in tutto per tutto come un episodio di qualsiasi vecchio cartone animato. Squeak è il classico topo scaltro e strafottente inseguito dall’altrettanto consueto gattaccio nero. Come da copione si susseguono gag a base di esplosioni e cadute, poi il colpo di genio finale. Seppur stremato il felino riesce ad afferrare il roditore, gli stacca la testa e la scaglia con rabbia contro un muro maciullandola completamente. Poi, in tutta tranquillità, si allontana sgranocchiando soddisfatto il resto del cadavere.
Da quanti anni stavamo aspettando una cosa simile? Probabilmente dal primo giorno in cui abbiamo visto il povero Wile E. Coyote finire in un crepaccio all’ennesimo tentativo di catturare quell’odioso Beep Beep. The End, quindi? No, perchè il topo tornerà dall’aldilà assetato di vendetta. Riuscirà a introdursi in una festa di gatti – di quelle classiche da film americano, dove si beve e si finisce ben presto al piano di sopra alla ricerca di qualche camera libera – e a portare a termine una mattanza inimmaginabile.
Folgorazioni, decapitazioni, teste sciolte dal vapore bollente. Mattioli non ci risparmia nulla. Il terzo capitolo del primo volume è un autentico film d’assedio a tema zombie, dove a tornare dalla morte sono tutti i caduti del party da slasher movie delle pagine precedenti. Fa la sua apparizione anche Squeak, che questa volta finisce in un frullatore e ridotto in poltiglia. E via così, fino alla sua morte definitiva.
Nel secondo numero del fumetto, grazie a un escamotage metalinguisitico, i ruoli del cacciatore e della preda saranno ribaltati. Quello che rimarrà costante sarà il livello di crudeltà – in questo caso c’è perfino un aereo dirottato e affondato con tutti i passeggeri a bordo – e di sguaiataggine. Nella violenza come nel sesso.
Squeak the Mouse è una fucina di idee e di trovate con ben pochi pari persino nella bibliografia – dove trovano posto altre perle come le B-Stories o Awop Bop Aloobop Alop Bam Boom – di un autore che definire vulcanico è un eufemismo. Privo di qualsiasi forma di controllo o di remora nel mettere su carta tutto quello che gli passa per la testa, Mattioli riesce a creare un classico che non riesce a invecchiare di un giorno e che indirettamente continua a influenzare generazioni di fumettisti.
Da troppo tempo era impossibile recuperare – se non a prezzi folli – i primi due volumi di questa gemma grondante sangue e interiora. Ora, grazie a Coconino, possiamo addirittura godere di un intero capitolo inedito. A cui va aggiunta anche la macabra ironia dei supereroi di Superwest, altro concentrato di poetica 100% Mattioli edito in questo caso da Panini.
In un momento storico in cui la definizione di politicamente scorretto viene troppo spesso travisata a favore di una disumanità indegna e repellente, l’arrivo in libreria di tre volumi del fumettista romano è più che mai importante. Quando il magazine Charlie Hebdo pubblicò la famosa vignetta sul terremoto in Centro Italia, furono in molti a ricordare come la vera satira non deve strappare un sorriso ma colpire direttamente alla bocca dello stomaco. Sebbene in toni più divertiti e meno feroci si potrebbe dire lo stesso della foga iconoclasta di Massimo Mattioli.
Nonostante l’aspetto giocoso e il ritmo da striscia comica, è davvero difficile trovare un aspetto positivo nei suoi personaggi, equamente divisi tra mostri e assolute mediocrità. Le bassezze si susseguono con un ritmo vertiginoso e non si riesce mai a provare autentica simpatia per i vari Squeak o Joe Galaxy. Non c’è pericolo che qualcuno finisca per identificarcisi, in quella sorta di perversa glorificazione capovolta che spesso investe opere narrative incentrate intorno a qualche cattivo. Le prime vittime dei suoi fumetti siamo noi lettori, presi di mira in ogni modo e senza nessuna remora.
Massimo Mattioli è la controparte fumettistica di uno di quegli stand-up comedian che, con un bel sorriso stampato in faccia, ti riversano addosso monologhi pieni di punch line terrificanti costringendoti a ridere di cose che altrimenti troveresti disgustose.
A differenza di tanti emulatori che hanno provato a imitarlo nel corso degli anni, la sua opera non si è mai limitata a un paio di trucchetti a effetto. Se la scelta più banale si sarebbe limitata allo splatter, lui ci infila anche un sacco di sesso, cattiveria pura, nonsense e una continua e incontenibile ricerca grafica. Dai tanto amati animaletti antropomorfi ai lavori in stile più realistico, seppur sempre graziato da una stilizzazione immediatamente riconoscibile. Evitando sempre e comunque ogni forma di banalità o faciloneria.
Se si prende in analisi tutta la sua opera è chiaro come tale ricchezza e vivacità derivi da un percorso già di suo fuori dal comune, capace di passare da periodi più poetici e naïf alla ferocia assoluta di Cannibale. Una carriera unica e impossibile, sufficiente già di per sé a definire uno dei protagonisti assoluti del fumetto in Italia.