Ci fu un momento, a metà anni Ottanta, in cui negli Stati Uniti si diffuse la convinzione che a rendere più pregiati i fumetti di supereroi dovesse essere la forma, più che il contenuto. Marvel Comics inaugurò una collana di grande formato, Marvel Graphic Novel, in cui inserire storie spesso al di fuori della continuity, magari affidate ad autori con una voce più autoriale. DC Comics rispose creando il formato “prestige” – a partire da Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller –, ovvero albi brossurati e più curati graficamente, dalla foliazione superiore a quella di un normale comic book.
Un altro espediente attuato per nobilitare il fumetto supereroistico fu quello di pubblicare storie dall’aspetto pittorico, quasi a voler trovare una dimensione più alta utilizzando una tecnica di disegno ricercata. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta ci fu così un notevole proliferare di fumetti pittorici, fino a raggiungere l’apice a metà anni Novanta soprattutto grazie all’affermazione di Alex Ross, il primo tra i grandi illustratori a essere riuscito a coniugare supereroi e pittura, portando il risultato nel mainstream.
Il successo di questo tipo di storie portò alla pubblicazione di tanti prodotti narrativamente superficiali – giustificabili solo per l’aspetto – o, al contrario, una serie di prodotti visivamente scarsi ma pubblicati in formati di lusso. Tra i tanti, però, ci furono anche diversi gioielli più o meno noti, appartenenti un’epoca quasi dimenticata in cui si lavorava soprattutto con pennello e acquerello e il digitale non era ancora così diffuso come oggi. Tra questi, ne abbiamo selezionati e commentati dieci, quelli da noi considerati i più rappresentativi.
Dottor Strange: Shamballa, di J.M. DeMatteis e Dan Green (Marvel Comics, settembre 1986)
Shamballa è una storia poco supereroistica, in cui Doctor Strange non affronta nessuno dei suoi canonici avversari ma semplicemente intraprende un viaggio metaforico attraverso se stesso, passando per Shamballa, regno mistico ispirato alla tradizione del buddismo tibetano. La storia fu cucita su misura per le esigenze artistiche di Dan Green, già disegnatore di un ciclo di storie – più canoniche – dello stesso personaggio, che qui figura anche come co-autore del soggetto insieme a J.M. DeMatteis.
Sebbene la prosa dello sceneggiatore – noto soprattutto per le sue storie di Spider-Man – sia a tratti ammaliante, Shamballa è più un racconto illustrato che un fumetto. I dialoghi sono rari, e la quasi totalità dei testi è racchiusa all’interno di didascalie, come per non ricoprire con dei balloon le illustrazioni di Green. Gli acquerelli di quest’ultimo donano alla storia delle atmosfere particolarmente rarefatte e risultano a loro agio sia nelle scene più riflessive che in quelle psichedeliche, anche se il risultato visivo finale fornisce una forte impressione di staticità.
Dopo questa storia, Dan Green avrebbe realizzato anche le illustrazioni per una raccolta di racconti di Edgar Allan Poe, ma sarebbe diventato noto soprattutto come inchiostratore per altri disegnatori, da John Byrne a Marc Silvestri, passando per John Romita Jr.
Nonostante il successo del recente film dedicato al Doctor Strange, una nuova edizione di Shamballa manca da molti anni negli Stati Uniti e, di conseguenza, anche in Italia (l’ultima versione risale al giugno 1992, quando fu ripubblicata da Play Press).
Daredevil: Amore e guerra, di Frank Miller e Bill Sienkiewicz (Marvel Comics, dicembre 1986)
Dopo aver seguito studi artistici di impostazione classica, Bill Sienkiewicz iniziò fin da giovanissimo a disegnare fumetti, prima per DC e poi per Marvel Comics. Il suo primo lavoro importante, con il quale abbandonò il tratto alla Neal Adams degli esordi per passare a uno stile più avanguardistico, fu proprio questo graphic novel sceneggiato da Frank Miller, che giunse dopo la pubblicazione di Born Again e quasi in contemporanea con una miniserie della stessa coppia artistica, Elektra: Assassin.
La storia è incentrata su Kingpin – il mastodontico signore del crimine di New York – e in particolare sul suo rapporto con la moglie Vanessa, l’unica persona in grado di fargli perdere lucidità e quindi suo più grande punto debole. Una storia altamente drammatica, che scava nel profondo di un personaggio fino ad allora considerato quasi monolitico, e nella quale Daredevil fa praticamente da comparsa, solo una macchia di colore rosso che ogni tanto entra ed esce dalla scena.
L’approccio visivo di Sienkiewicz è impressionista, nell’utilizzo misto di pittura a olio e collage: la figura di Kingpin è caricaturale nella sua enormità, e i suoi gilet richiamano decorazioni da carta da parati, mentre il sicario da lui assoldato ha la fisionomia di un babbuino. Le illustrazioni dell’autore rendono poi immortali i delicati tratti somatici di Vanessa, raffigurandola come il soggetto di un dipinto classico.
Amore e guerra è però soprattutto un’esplosione di colori, con tinte acide che si alternano a tonalità calde all’interno di una gabbia mai costante fatta di vignette di varie dimensioni, in una struttura narrativa anarchica ma allo stesso tempo elegante.
Batman: Arkham Asylum, di Grant Morrison e Dave McKean (DC Comics, ottobre 1989)
L’Arkham Asylum è il manicomio criminale dove vengono imprigionati e – in teoria – trattati gli avversari di Batman, dal Cappellaio Matto a Poison Ivy, passando per Mr. Freeze, il Pinguino e tutti gli altri. A fine anni Ottanta, un giovane Grant Morrison decise di ambientarvi una storia che fosse in contrasto con i toni più realistici delle storie dell’epoca, influenzate da fumetti come Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Watchmen, e che vedesse gli internati prendere il controllo della struttura, con Batman a cercare di salvare la situazione.
«L’intenzione era quella di creare qualcosa che fosse più un pezzo di musica sperimentale o un film d’avanguardia che una normale storia a fumetti» avrebbe scritto poi lo stesso Morrison in un’edizione del 2014 della storia. Arkham Asylum era stata pensata come storia onirica ed emozionale, e così per illustrarla fu scelto Dave McKean, reduce dalla collaborazione con Neil Gaiman (un altro che di onirismo se ne intendeva) su Black Orchid e dal lavoro come copertinista di Hellblazer. Questa storia fu così, a tutti gli effetti, una storia di Batman realizzata con un approccio alla Vertigo, anche se l’etichetta di DC Comics sarebbe nata solo nel 1993.
Il racconto infatti presentò versioni trasfigurate dei personaggi, più “adulte”, e anche le illustrazioni di McKean si fecero sofisticate, con uno stile che metteva insieme disegno, pittura, fotografia e collage. I principali punti di riferimento furono tanto i disegni di Neal Adams quanto le opere animate surrealiste di Jan Švankmajer e dei fratelli Quay. Nelle tavole di McKean, Batman non era un semplice uomo vestito da pipistrello ma un vero essere per metà umano e per metà animale, una sorta di figura mitologica.
Nonostante non fosse stato pensato come un prodotto popolare – a partire dal formato, un unico volume di oltre 120 pagine – Arkham Asylum ebbe un enorme successo, vendendo quasi 300.000 copie tra l’edizione cartonata e quella brossurata e diventando uno dei longseller della casa editrice. Nel luglio 2017 ne è stato annunciato il seguito, sempre scritto da Morrison, ma con i disegni di Chris Burnham.
Wolverine e Havok: Fusione, di Walter e Louise Simonson, Kent Williams e Jon J. Muth (Marvel Comics, novembre 1988 – febbraio 1989)
Tra il 1982 e il 1996, la Marvel utilizzò l’etichetta Epic per pubblicare fumetti di importazione – come le opere di Moebius o l’Akira di Katsuhiro Otomo – ma anche storie superoistiche più “mature”, come l’Elektra: Assassin di Miller e Sienkiwicz. Visto il grande successo che a fine anni Ottanta stava ottenendo il personaggio di Wolverine, fu così naturale dedicare anche a lui una miniserie da pubblicare sotto questa etichetta, anche se in compagnia dell’altro X-Man Havok.
Fusione (in originale Meltdown) fu scritta dai coniugi Walter e Louise Simonson in piena Guerra Fredda e prese in parte spunto dai timori che aveva generato il disastro nucleare di Chernobyl del 1986. I due protagonisti, durante una vacanza in Messico, si ritrovarono così coinvolti in un intrigo internazionale ordito dai russi e contagiati con la peste bubbonica.
La lavorazione delle tavole ad acquerello da parte di Kent Williams e John J. Muth fu particolare: entrambi provenienti da collaborazioni con lo sceneggiatore J.M. DeMatteis – il primo su Blood: Una storia, il secondo su Moonshadow, pubblicati da DC Comics – i due lavorarono letteralmente gomito a gomito, scambiandosi tavole e disegni. In particolare, il primo disegnò tutte le vignette in cui era presente Wolverine, il secondo invece quelle con Havok, realizzando insieme quelle in cui erano presenti entrambi i personaggi.
Sotto i colpi di pennello dei due autori, i due personaggi mantengono dei connotati realistici nelle scene più quotidiane, per poi assumere delle sembianze grottesche – quasi figlie della paura per il nucleare – nelle scene in costume e d’azione. Se la parte visiva risulta notevole ancora oggi, altrettanto non si può dire per la trama, che è parzialmente invecchiata con il mutare della Storia.
Batman: Urla nella notte, di Archie Goodwin e Scott Hampton (DC Comics, agosto 1992)
Grande appassionato di horror, Scott Hampton è forse oggi più famoso come illustratore delle carte di Magic, ma negli anni ha lavorato anche nel mondo del fumetto, seguendo le orme del fratello Bo e realizzando storie di Batman, Sandman e Hellraiser, tra le altre.
Urla nella notte (in originale Night Cries) fu scritta da Archie Goodwin, all’epoca già un veterano del fumetto, con circa trent’anni di carriera alle spalle passati tra Warren Publishing, Marvel Comics e DC Comics. La storia ha un impianto narrativo piuttosto classico, con Batman alle prese con il criminale di turno, da catturare dopo un’accurata indangine in compagnia del commissario Gordon, ma trova importanza prima di tutto nella tematica: la pedofilia.
Un tema all’epoca poco trattato dai fumetti americani, che qui viene tratteggiato dalle tonalità cupe degli acquerelli di Hampton, in grado di tracciare con estremo realismo il dramma sui volti e ngli occhi di bambini e adulti. La morale finale della storia – che non si risparmia un po’ di necessaria retorica – è che il vero orrore risiede nel quotidiano.
Marvels, di Kurt Busiek e Alex Ross (Marvel Comics, gennaio – aprile 1994)
Marvels fu una storia spartiacque per il fumetto americano, sia dal punto di vista narrativo che grafico. Dopo circa un decennio dominato da fumetti di supereroi duri e cupi, la storia di Kurt Busiek propose infatti un approccio più solare e nostalgico alla materia, rinarrando i principali eventi della storia della Marvel da un punto di vista peculiare. Il protagonista della storia è infatti il giornalista Phil Sheldon, che documenta con l’occhio della sua macchina fotografica la nascita delle “Meraviglie”.
A illustrare la storia fu Alex Ross, un ragazzo di Portland che fin da bambino aveva assorbito arte a ogni respiro. Sua madre era stata un’illustratrice pubblicitaria, mentre suo nonno disegnava e costruiva giocattoli. A 12 anni Ross aveva iniziato a disegnare ricalcando i suoi futtisti preferiti, tra i quali Bernie Wrightson, mentre a 16 aveva scoperto il realismo del pittore Norman Rockwell. Dopo il diploma aveva iniziato a lavorare in una agenzia pubblicitaria, prima di conoscere Busiek e iniziare a dare vita a Marvels.
Con uno stile iperrealista che rendeva tutto molto umano e credibile pur trattando di supereroi in calzamaglia, Ross fornì un aspetto completamente inedito a personaggi con oltre 30 anni di vissuto. Per ottenere questo risultato, Ross utilizzò come modelli i propri amici, scattando centinaia di foto da ripassare a matita al tavolo luminoso prima di dare ai personaggi volti di divi di Hollywood e aggiungere i colori a olio.
Il lavoro di Ross fu a dir poco seminale, generando una serie di repliche quasi mai all’altezza dell’originale. Fu grazie a lui, inoltre, che molti premi americani aggiunsero la categoria “miglior fumetto dipinto”.
Ruins, di Warren Ellis, Terese Nielsen, Cliff Nielsen e Chris Moeller (Marvel Comics, agosto – settembre 1995)
Il successo di Marvels portò la casa editrice a dare vita a una serie di fumetti dipinti con un taglio profondamente nostalgico, molti dei quali più che dimenticabili. Ruins, invece, in comune con l’opera di Busiek e Ross aveva solo le premesse e il fatto di essere un fumetto dipinto.
Scritta da un giovanissimo Warren Ellis, Ruins capovolgeva del tutto la solarità di Marvels: al centro della vicenda c’era ancora Phil Sheldon, ma là dove nell’opera originaria c’erano state Meraviglie in grado di salvare la Terra, nell’opera di Ellis c’erano solo orrori che l’avevano condannata. Si trattava a tutti gli effetti di una versione alternativa – distopica – di Marvels.
Anche lo stile pittorico dei coniugi illustratori Terese e Cliff Nielsen rappresentò una versione distorta dell’iperrealismo di Ross: le figure divennero scontornate e poco rassicuranti, mentre le tinte si fecero estremamente cupe, a caratterizzare un mondo divenuto l’ombra di se stesso. A causa della lentezza dei due, le ultime pagine della storia furono invece illustrate da Chris Moeller, con uno stile a metà tra il disegno a matita e il pittorico a olio poco riuscito e che stonava molto con il resto dell’opera.
Mai più ripubblicata negli Stati Uniti dopo la prima edizione, Ruins fu tradotta da noi nel 1997 da Marvel Italia in due albi della singolare collana da fumetteria Marvels Presenta, che presentò una serie di fumetti tutti caratterizzati dallo stile pittorico.
Batman: Manbat, di Jamie Delano e John Bolton (DC Comics, ottobre 1995)
Storia dalle forti tinte horror, Manbat era incentrata sull’omonimo avversario di Batman, figura tragica di scienziato trasformato da un siero in un essere per metà uomo e per metà pipistrello, una sorta di riflesso distorto dell’eroe di Gotham City.
La storia però è ambientata nel sud degli Stati Uniti, nel covo sotterraneo di bizzarre creature simili a pipistrelli, nella quale Batman si ritrova durante le indagini su un misterioso composto genetico.
Manbat fu realizzata da una coppia di autori completamente british: lo sceneggiatore Jamie Delano e il disegnatore John Bolton. Quest’ultimo – all’epoca noto soprattutto per alcune storie brevi scritte da Chris Claremont e pubblicate su Classic X-Men – realizzò il suo capolavoro pittorico, con uno stile fortemente fotorealistico che metteva in risalto le mostruosità di Manbat e delle altre creature e la tensione del corpo di Batman nelle scene d’azione, pur peccando di staticità all’interno delle singole vignette.
Per fornire ai disegni un’atmosfera fortemente urbana, l’autore scelse di utilizzare la pittura acrilica, che diedero alla storia la densità e l’opacità necessarie. Il risultato finale dava l’idea dell’approccio maniacale di Bolton all’illustrazione, emerso più volte nelle interviste da lui concesse: «Per me è importante che ciò che produco duri nel tempo» ha raccontato a Comic Radio Show. «Devi fare tutto con la giusta mentalità, devi cercare di produrre qualità. Non puoi realizzare fumetti pittorici solo per il semplice gusto di farlo. Ci deve essere una buona ragione per sedersi lì a dipingere un fumetto.»
Kingdom Come, di Mark Waid e Alex Ross (DC Comics, maggio – agosto 1996)
Quando DC Comics decise di pubblicare una propria versione di Marvels, in modo da sfruttarne il successo, lo fece nel proprio stile, creando una storia alternativa ambientata in un futuro distopico in cui i supereroi classici sono stati sostituiti da superesseri violenti ed estremi: Kingdom Come. Là dove Marvels era l’alfa, Kingdom Come rappresentava l’omega, uno era l’inizio, l’altro la fine di una ideale parabola della figura del supereroe. Non a caso, a illustrarla fu lo stesso disegnatore di Marvels: Alex Ross, che quasi volle chiudere un cerchio.
Kingdom Come racconta con una forte impronta meta-testuale lo scontro generazionale fra gli eroi degli anni Quaranta e Cinquanta – ormai irreparabilmente invecchiati – e quelli degli anni Novanta (versioni idealizzate dei personaggi di Image Comics, ma non solo), mantenendo il punto di vista dal basso introdotto da Marvels, questa volta con al centro delle vicende un predicatore, Norman McCay. Per aumentare il senso di intimità con la storia, Ross utilizzò suo padre come modello per il personaggio.
Per il resto, i dipinti a olio di Ross si fecero più cupi, in linea con le atmosfere delineate da Mark Waid: Captain Marvel/Shazam non era più l’eroe solare e fanciullesco di un tempo, l’industruttibile Batman era ormai costretto a indossare un esoscheletro per tenersi in piedi, mentre Superman era ingrigito dal tempo e aveva sostituito il giallo del costume e del simbolo sul petto con un più programmatico nero.
Il lavoro di Ross, se vogliamo, fu ancora più notevole rispetto a quello svolto per Marvels, vista la presenza contemporanea in molte scene di decine e decine di personaggi, tanto che, per sintetizzare l’atmosfera da lui ricreata, AV Club l’ha descritta come «Norman-Rockwell-incontra-George-Pérez». Quest’ultimo, infatti, è noto per le sue tavole fitte di personaggi, soprattutto in lavori come Crisi sulle Terre Infinite e Avengers.
Superman: Il dio di Krypton, di Walter Simonson, Greg e Tim Hildebrandt (DC Comics, gennaio 1999)
Superman: Il dio di Krypton è una storia interessante soprattutto perché si tratta di uno dei rarissimi lavori a fumetti (insieme a una storia degli X-Men 2099 sulla quale si può facilmente soprassedere) dei due fratelli gemelli Greg e Tim Hildebrandt noti come illustratori per le serie di romanzi fantasy Il signore degli anelli e Shannara e per i film di Star Wars.
L’avversaria di Superman in questa storia, sceneggiata da Walt Simonson, è un’aliena di nome Cythonna – qui alla sua prima e ultima apparizione –, che giunge sulla Terra dopo aver scoperto della distruzione di Krypton per uccidere l’eroe, da lei ritenuto una divinità. Curiosamente, la storia alterna diversi scenari, passando da quello urbano di Metropolis a quello polare della Fortezza della Solitudine, per concludersi in un ambiente fiammeggiante. Ogni scena ha così una diversa tonalità di colore predominante, dando una grande varietà cromatica alla storia nel complesso.
Lo stile dei fratelli Hildebrandt rivela anche alcune infuenze curiose: i due non hanno mai nascosto la loro passione per i film animati di Disney e la loro ambizione giovanile di lavorare come animatori. Il risultato è uno strato ibrido, con un Superman che si ferma a metà strada tra quello iconico di Joe Shuster e quello decisamente più cartoonesco di Bruce Timm per la serie animata Superman: The Animated Series, di poco precedente a questo lavoro.