Nel 2013 Hayao Miyazaki, gigante dell’animazione giapponese ma anche del cinema tout court nonché padre fondatore assieme a Isao Takahata dello Studio Ghibli, ha annunciato il suo ufficiale ritiro in veste di regista. Per farlo ha realizzato un film, Si alza il vento, che è la summa della sua poetica, un addio nostalgico e commovente a ciò che ha più amato e che lo ha spinto a realizzare quanto fatto fino ad allora.
Miyazaki non era nuovo a questo genere di dichiarazioni. A metà anni Novanta, la lavorazione di Principessa Mononoke – un capolavoro mastodontico per aspirazione e respiro – fu talmente stressante che Miyazaki decise che sarebbe stato il suo ultimo film. Lo Studio era ben avviato e Yoshifumi Kondō, storico collaboratore di Miyazaki, animatore di lungo corso e regista di I sospiri del mio cuore, sembrava ormai pronto a raccogliere l’eredità del maestro.
Ma nel 1998, un anno dopo l’uscita al cinema di Mononoke, Kondō morì improvvisamente per aneurisma celebrale. Ecco quindi il ritorno di Miyazaki in veste di autore con La città incantata, un successo mondiale, il primo film animato ad aver vinto l’Orso d’oro a Berlino. Tutto però sembrava pronto per il fatidico addio.
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E invece no. John Lasseter della Pixar spinse molto la promozione di La città incantata e contribuì all’importazione dell’intero catalogo Ghibli – tramite una distribuzione gestita da Buena Vista – negli Stati Uniti. Da allora, lo Studio Ghibli ha vissuto un periodo di incredibile vivacità e di un’esposizione mediatica come mai prima, costringendo il duo fondatore a ripensare le strategie future.
Il punto è che sussiste una differenza colossale fra Miyazaki e il suo maestro-collega Takahata. Isao Takahata è un uomo di cinema che non è direttamente coinvolto in ogni singola fase del progetto, almeno non in prima persona, ed è trasparente nel rendersi conto che l’impegno di un film animato a quei livelli richieda una concentrazione e una salute che forse non possiede più. Per realizzare La storia della principessa splendente, la sua opera di addio, hanno dovuto convincerlo a fatica, e la lavorazione ha richiesto ben otto anni. Viceversa, Miyazaki è un uomo ossessionato dal suo lavoro. È un workaholic, un artista che vive della propria arte, una figura la cui sopravvivenza è strettamente legata a quello che fa.
Così non mi ha stupito scoprire che, nonostante il ritiro ufficiale, Miyazaki sia nuovamente al lavoro su un lungometraggio. Il documentario distribuito nei cinema da Nexo Digital in collaborazione con Dynit si intitola Never-Ending Man e segue le vicende comprese tra l’annunciato ritiro e il ritorno al lavoro, per la realizzazione in particolare di un cortometraggio in CGI intitolato Boro (Boro il bruco, in italiano). È davvero utile un documentario del genere, vista e considerata l’esistenza di un altro ben più interessante, Nel regno dei sogni e della follia? Probabilmente no.
È evidente sin dalla prima inquadratura come Miyazaki stesso sia ormai parte di un sistema di cui è parzialmente vittima, quello del mercato. Hayao Miyazaki si è trasformato suo malgrado in una figura chiave che Toshio Suzuki, il produttore storico dello Studio Ghibli, sfrutta a dovere per oliare gli ingranaggi di una macchina ormai troppo grande per essere semplicemente bloccata. Eppure, quando si tratta di Miyazaki, è impossibile ridurre tutto a un discorso così semplicistico.
Da questo punto di vista, Never-Ending Man diventa l’occasione perfetta per analizzare l’approccio creativo del maestro. Il suo difficile rapporto con l’animazione tridimensionale computerizzata, per esempio, è indicativo di un modo di intendere l’animazione che sta lentamente diventando obsolescente. L’animazione, per Miyazaki, ha bisogno di persone, di una mano che si occupi del disegno che ne è alla base, un legame che ha a che fare con il modo che l’uomo ha di iniettare umanità nell’immagine animata, qualcosa che un computer non può (ancora) fare.
Forse si tratta solo della concezione di un uomo che fatica ad accettare il tramonto di un determinato modo di intendere e realizzare prodotti animati. In un’intervista durante il programma televisivo Splendor, Lorenzo Ceccotti (in arte LRNZ), che è figlio di quell’animazione ma che al tempo stesso è evidentemente proteso verso nuovi orizzonti tecnologici applicati al suo lavoro, ha ammesso che è importante non abbandonare quel modo di fare animazione..
Miyazaki è un regista che cura personalmente tutti gli ekonte (storyboard) dei suoi film ed è solo in questo aspetto, così strano e un po’ vintage, che si dimostra facilmente la totale incompatibilità fra l’autore di Il mio vicino Totoro e la CGI. La verità forse sta a metà strada. Nel documentario Miyazaki prova a disegnare in digitale: un disastro. Lui giustifica la scelta di un’animazione “artigianale” con una filosofia che probabilmente è effettiva solo in parte, ma che ha un suo innegabile fondo di verità.
E riguardo allo Studio Ghibli, ha senso guardare Never-Ending Man? Assolutamente. In tanti non si capacitano del fatto che lo Studio Ghibli sia destinato a morire, che non ci siano eredi. Il figlio Goro Miyazaki, autore di I racconti di Terramare e di La collina dei papaveri? Hiromasa Yonebayashi, regista di Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento e dell’ottimo Quando c’era Marnie? È lo stesso Suzuki a risponderci: Miyazaki fagocita chi gli sta intorno, perché la sua opera coincide con la sua persona. Anche Satoshi Kon era così e forse è per questo che non vedremo mai la sua opera postuma The Dreaming Machine.
Persino con autori di tutto rispetto – come quel Mamoru Hosoda defenestrato dalla regia di Il castello errante di Howl e che poi ci ha emozionato con opere come Wolf Children o Summer Wars – Miyazaki non è stato in grado di rapportarsi in un modo nel quale la creatività del singolo potesse emergere. A dimostrazione di questo, pensate al nuovo film di Yonebayashi, Mary to Majo no Hana del neonato Studio Ponoc, che sembra figlio di tutte le suggestioni del cinema miyazakiano. Lo Studio Ghibli morirà con Miyazaki perché lo Studio Ghibli è Miyazaki, e di questo non dobbiamo rattristarci. Anche perché, fortunatamente, ci aspetta un nuovo lungometraggio a cui, instancabilmente, Miyazaki sta già lavorando.