A Washington girano i fotografi migliori, in Florida quelli più fortunati. Jonathan Ernst, che lavora come fotoreporter per Reuters, deve aver pensato questo mentre scopriva di aver confinato nello spazio di una foto uno dei magnati più elusivi di sempre. Gli occhiali scuri, il tono bronzeo della pelle e la faccia tirata in un’espressione di fastidio avrebbero fatto pensare a un cattivo di James Bond, invece il profilo corrispondeva a quello di Ike Perlmutter, l’inaccessibile patron della Marvel.
Nell’immagine, scattata nella penombra, con vetri e colonne a schermare la scena, si vede Perlmutter in compagnia del presidente Donald Trump. Ma gli sceneggiatori di James Bond non avrebbero potuto inventarselo nemmeno nei loro sogni più lucrativi, un personaggio come Perlmutter.
Ernst non era a Washington, dove i reporter politici si contendono la palma dei più bravi fotogiornalisti d’America, ma nella Florida dei pensionati che svernano tra partitelle di golf e pasti iposodici. Per la precisione a Mar-a-Lago, la residenza di Trump usata da quest’ultimo come alternativa a Camp David, considerato un luogo «troppo rustico». Perlmutter è un suo amico di lungo corso e a Mar-a-Lago i due hanno trascorso con le famiglie più di una festività.
La foto di Ernst è diventata solo la prima di una serie di scatti che hanno svelato Perlmutter al mondo. Colpa dei suoi rapporti con Trump e dei contenziosi legali in cui è rimasto invischiato negli ultimi anni. Il New York Times, inserendolo nel cerchio magico di Trump, ha scritto che Perlmutter consiglia il presidente su questioni riguardanti i veterani. Egli stesso lo è, avendo combattuto nella Guerra dei sei giorni, e in passato ha elargito diverse donazioni a favore dei reduci di guerra.
Il patrimonio di Perlmutter si aggirerebbe intorno ai quattro miliardi di dollari. Secondo la più recente lista stilata da Forbes, è il 453° uomo più ricco del mondo e il 162° più ricco degli Stati Uniti, ma il potere vero che ha detenuto in questi decenni è stato non doversi compromettere su nulla, mai.
Fino a poco tempo fa il nome di Ike Perlmutter era associato alle compagnie che aveva fondato, gestito o rilevato: Coleco, Remington, Toy Biz e Marvel Comics. Era famoso per la sua riservatezza, di lui circolava una sola foto (che, secondo alcuni, ritraeva un sosia) e non aveva concesso alcuna intervista nel corso della sua carriera. Limitava al massimo le uscite pubbliche e, quando lo faceva, usava camuffarsi.
Alla premiere di Iron Man era nascosto tra la folla. Come la notizia sia trapelata, non è dato saperlo. Non compare nemmeno nell’organigramma del sito Disney. Perlmutter sa bene che la Marvel non ha bisogno di un’altra faccia pubblica, la terza dopo Stan Lee e Kevin Feige, le uniche due persone che la Marvel ha concesso di essere conosciute al grande pubblico. Su carta, solo un paio di libri gli dedicano dello spazio significativo, Marvel Comics: Una storia di eroi e supereroi e Comic Wars: Marvel’s Battle For Survival. Quest’ultimo, in particolare, è l’unica fonte di informazioni sulla giovinezza del magnate.
Ventiquattro anni e 250 dollari in tasca, Perlmutter si trasferisce in America, dove dimostra un senso spiccato per il mercato. Si piazza all’entrata del cimitero ebraico di Brooklyn, kippah calcata in testa e libello di preghiere in mano. Recita il Kaddish sulle tombe, a pagamento, inizia a farsi chiamare Ike, meno marcato del giudeissimo Isaac, anche se gli basta aprire bocca perché il pesante accento ebraico ne sveli le origini. Il resto dei suoi vent’anni li passa a praticare, come scrive Dan Raviv in Comic Wars: Marvel’s Battle For Survival, «il passatempo preferito degli americani»: trasformare piccole quantità di denaro in enormi quantità di denaro.
Grazie a un prestito dei suoceri e al partner Bernard Marden, fa partire la sua attività: svuotare magazzini comprando merce a prezzi stracciati e rivenderla a rigattieri e negozi. A forza di saponette comprate a un nichelino e rivendute a 75 centesimi risale la propria sorte. Flashfoward a trent’anni dopo: nel 1993 entra nel Consiglio di Amministrazione di Marvel Comics. Nel 1996, quando l’azienda arriva a dichiarare bancarotta, Perlmutter riesce a prenderne il controllo, dopo aver vinto una serie di battaglie finanziarie e legali contro protagonisti primari di Wall Street quali Carl Icahn e Ron Perelman. Nel 2005 diventa CEO della Marvel, ruolo che mantiene anche dopo l’acquisto dell’azienda da parte di Walt Disney Company, nel 2009, fino al 2016.
Il pezzo del Financial Times del 2012 e il profilo del 2014 di Kim Masters sono le altre due, uniche, letture consigliabili, anche se quello di Masters si limita a cucire assieme storielle salaci e aneddoti raccontati a mezza bocca da fonti anonime, voci di corridoio o insider senza nome.
Dato che il suo profilo pubblico latitava, la costruzione del personaggio è avvenuta in absentia, attraverso dichiarazioni riportate, frasi di seconda mano, gesti e decisioni prese in altri luoghi. “Frugale” è la parola che si associa più spesso a Perlmutter e alle sue scelte aziendali. Jeff Dunetz, nel marketing Marvel tra il 2002 e il 2003, ha raccontato di aver gettato una volta nel cestino un foglio a cui era attaccata una graffetta. Perlmutter ha notato l’oggetto e lo ha recuperato, ammonendo l’uomo: «Se la butti via poi te ne devo ricomprare un’altra».
Frugali sono i contratti siglati da attori e maestranze dei film Marvel (con opzioni multi-film, comparsate obbligatorie in altri franchise e quasi nessuna partecipazione agli incassi delle pellicole, il che rende i film Marvel i più remunerativi tra i grandi marchi, visto che la torta non deve essere tagliata in tante fette sottili), frugale è l’ospitalità riservata ai giornalisti (buffet spartani alle anteprime, non più di una bottiglietta di soda a persona), la cura degli impiegati (veto sul rinnovo della vecchia mobilia, luci spente se un ufficio resta vuoto per più di cinque minuti) e l’elenco potrebbe continuare a lungo (ancora una: è stato lui a caldeggiare la sostituzione dell’esoso Terrence Howard nei panni di James Rhodes perché «nessuno se ne accorgerà, tanto i neri sono tutti uguali»).
Perfino Sean Howe, autore di Marvel Comics: Una storia di eroi e supereroi, non riesce che a profilare l’immagine di uno Zio Paperone ebreo che riutilizza le bustine da tè e consuma le ghette finché non sono lise. Ne ricava però un dato: tra tutti gli amministratori della Marvel, Perlmutter è stato quello più pressante. Seguiva da vicino la vita dell’azienda (fu lui a nominare Bill Jemas editore e, successivamente, ad accusarlo di «voler rubare dalla mie tasche», quando Jemas gli propose il reboot del cowboy Rawhide Kid), passava in rassegna gli uffici.
E odiava Stan Lee, un peso morto che alla fine degli anni Novanta drenava più di un milione di dollari l’anno di vitalizio. Oltre – e questa era probabilmente la ciliegia che fece strozzare Perlmutter – a uno scandaloso 10% su tutti i guadagni di ogni produzione cinematografica e televisiva targata Marvel. Era, in fondo, una piccola penale per tenersi buono il volto pubblico della compagnia, ma l’aura di intoccabile di Lee lo indisponeva da morire. Era una cosa che non poteva controllare. Era, ancora una volta, una perdita di potere.
Un potere che, per Ike, passa anche attraverso il controllo del proprio corpo. Nel 2011 Perlmutter finì in una faida legale con un magnaccia canadese, Harold Peerenboom, che lo portò in tribunale per una disputa riguardante un campo di tennis e delle lettere diffamatorie che secondo Peerenboom erano state inviate da Perlmutter. Il canadese pretese di avere un campione di DNA di Perlmutter per poter dimostrare che l’artefice delle missive fosse il mogul Marvel (il contenzioso si è complicato con l’apparente ritrovamento di tracce di DNA sulle lettere della moglie di Perlmutter). Perlmutter sulla questione è particolarmente paranoico, a ragion veduta, considerando gli spiragli di “maccartismo genetico“, come lo ha definito il The New England Journal of Medicine, che tengono in allarme tante celebrità (più di qualcuno pretende che i camerini in cui risiedono vengano sterilizzati dopo il loro passaggio).
Nel 2015 i Marvel Studios sono stati scorporati dalla casa madre, diventando divisione cinematografica a sé, al pari di Pixar e Lucasfilm. Questo ha comportato la recisione dei rapporti tra Perlmutter e Kevin Feige e lo smantellamento del Marvel Creative Committee, un consiglio comprendente, oltre a Perlmutter, Alan Fine, Brian Michael Bendis, Dan Buckley e Joe Quesada, che aveva contribuito, con le sue direttive asfittiche, all’allontanamento di Joss Whedon e Edgar Wright. La mezza delusione di Age of Ultron, i tentativi di estromettere Iron Man da Civil War (perché Perlmutter non voleva assecondare le richieste contrattuali di Robert Downey Jr.) e le continue lamentele da parte dei creativi hanno portato il CEO Disney Bob Iger a smantellare il gruppo.
A Perlmutter, che nel frattempo ha perso il titolo di CEO in cambio di “Chairman” perché l’unico CEO in Disney può essere Iger (per lo stesso motivo John Lasseter è CCO della Pixar e Kathleen Kennedy è presidente della Lucasfilm), resta solo il braccio televisivo. Il recente fallimento critico di The Inhumans parte da lui: la serie con il gruppo guidato da Freccia Nera avrebbe dovuto inizialmente essere un film che Feige si impegnava a produrre in cambio del via libera a Ms. Marvel. Perlmutter non ha mai visto di buon occhio i prodotti a tema femminile perché più deboli al botteghino (per lo stesso motivo ha vietato la realizzazione delle action figure della Vedova Nera), ma ha accettato il compromesso per avere un film che potesse rivaleggiare con la saga degli X-Men.
La lotta sotterranea che ha ingaggiato con 20th Century Fox, lo studio baluardo in possesso delle ultime licenze Marvel in grado di generare profitti sostanziali, ovvero X-Men e Fantastici Quattro, è stata l’altro grande tema che lo ha portato alla luce delle cronache recenti. Perlmutter malsopporta lo studio, reo di essere il parassita più resistente sulla pelle Marvel. Per questo ha, apparentemente, posto il veto sulla testata del Quartetto (giustificandolo con le vendite stagnanti) e limitato la produzione di merchandising relativo ai FQ e agli X-Men.
Non potendo più avere parola sulle produzione cinematografiche e vedendo il progetto Inhumans in stallo, il boss l’ha preso dalle mani di Feige e, in puro stile Perlmutter, lo ha tramutato in serie tv (i cui primi due episodi però sono usciti al cinema) e lo ha fatto realizzare in tempi strettissimi e con un budget spartano. Le reazioni sono state largamente negative, come non se ne vedevano da tempo per un prodotto griffato Casa delle Idee. Le testate internazionali sono arrivate a definirla una serie tv paragonabile a quelle, infime, degli anni Novanta, per scrittura e taglio visivo. Alla fine, l’uomo che ha salvato la Marvel, ne ha perso il controllo un pezzetto alla volta.