Avete mai incontrato Adriano Carnevali? È un uomo gentile, timido, modesto e cordiale. No, non è una frase di circostanza: Carnevali è una persona amabile al punto da rasentare il caso umano. Ed è inoltre scherzoso, curioso e preparato (oggi non usa più dire ‘colto’, dunque non lo diremo).
In Carnevali c’è solo un particolare che non torna, e che emerge nell’ironia costante della sua parlata sommessa: com’è lui, così i sono i suoi fumetti. E viceversa. Nei suoi lavori, infatti, la grassa risata lascia il posto al sorriso disteso, la comicità istantanea all’umorismo sottile. I personaggi, anche quando sono infuriati, sembrano più paciosi rispetto a come li disegnerebbe chiunque altro. Il divertimento e lo scherno attraversano ogni vignetta. Non c’è nulla di serio nelle sue storie, e questo è davvero un segno di quanto sia serio.
La creazione per cui è più noto sono i Ronfi, roditori pigri e tonti apparsi per una decina d’anni sul Corriere dei Piccoli, a partire dal 1981, e poi migrati sulle pagine di Giocolandia, mensile dedicato interamente a loro e ancora in edicola. Le loro storielle semplici non raccontano però idee facili. Dietro all’apologia della pigrizia come antidoto all’operosità – forzata – dei nostri tempi, c’è il discorso di un mansueto, ma non per questo pacificato, autore di satira camuffata da avventure di funny animals.
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Prima dei Ronfi, verso una Contea
Prima di ideare quei Ronfi che lo avrebbero reso un cult per i piccoli lettori degli anni Ottanta, Carnevali aveva già avviato una carriera da vignettista umoristico. I suoi omini con il nasone comparivano su Relax, La Settimana Enigmistica e altre riviste. Vignette che mostravano già un filo rosso, segno di un interesse che lo avrebbe portato fino a Colbrino: l’ambientazione storica o fantastica, con cavalieri, uomini preistorici, antichi romani, napoleoni invece dei canonici naufraghi, carcerati e suocere tanto frequentati dalle testate di enigmistica.
In questi interventi disegnati, per quanto ‘piccoli’, il suo umorismo è già chiaro: lieve, dolciastro e un filo paradossale. Segue uno sguardo che, se ogni tanto si tinge di nero, porta con sé anche un senso di pietà e di fratellanza. Non c’è crudeltà nelle vignette di Carnevali, semmai uno sguardo di disapprovazione. Quello di chi deve sforzarsi di fare la faccia seria invece di ridere sotto ai baffi.
L’amore per la storia, le arti e la letteratura traspare soprattutto nei primi fumetti che pubblica sul Corriere dei Piccoli e sul Corriere dei Ragazzi: le strisce Il drago e il cavaliere e SPQR sul primo, L’astuto Ulisse sul secondo. L’oggetto di scherno sono qui i capisaldi della cultura occidentale, che tradiscono un affetto sincero, una familiarità e una volontà di ribaltamento verso i passi omerici ed i simboli eroici repubblicani o imperiali.
La Contea di Colbrino, quindi, è l’esempio perfetto della poetica di Adriano Carnevali. Si tratta di una serie umoristica apparsa sul Corriere dei Ragazzi tra il 1975 e il 1976 che mette in scena le avventure degli abitanti di un fittizio borgo rinascimentale, una signoria minore governata da un principe piccolino che vorrebbe poter trattare alla pari con i duchi e i dogi. Protagonista è il letterato di corte, il messer Temistio, e con lui una schiera di personaggi bizzarri tra contadini bifolchi, armigeri scalcagnati e comandanti di ventura, con comparsate di Leonardo da Vinci e altri personaggi del tardo ‘400.
Su Fumettologica, per concessione dell’autore, pubblicheremo gli episodi di Colbrino, al ritmo di uno ogni due settimane. Storie che non hanno purtroppo mai goduto di raccolte in 40 anni e che, ciononostante, sono ancora un must del fumetto umoristico italiano: un ricordo vivo nella memoria dei giovani lettori dell’epoca, e uno dei grandi cult del fumetto comico nazionale.
Abbiamo quindi intervistato Adriano Carnevali per introdurre e ripercorrere insieme questo “classico dimenticato”, facendoci raccontare qualcosa di più su come è nata la bizzarra contea di Colbrino – e sui suoi rapporti con i Ronfi, naturalmente.
Colbrino segnò davvero la fine della tua carriera di insegnante?
Sì. Va detto che era una carriera appena avviata. Insegnavo italiano e storia in un istituto tecnico e l’attività di insegnante mi piaceva molto, però la passione per il disegno e il racconto umoristico, che coltivavo fin da bambino (senza neppure osare sperare che potesse tradursi nel mio vero lavoro) erano talmente forti che quando la magia si avverò e mi si offrirono, una dopo l’altra, meravigliose (per me) possibilità di cominciare a operare professionalmente (come vignettista, grazie all’entrata nella prestigiosa agenzia Disegnatori Riuniti di Cassio Morosetti; come autore di strip, con la pubblicazione sul “mitico” Corriere dei Ragazzi della mia prima serie L’astuto Ulisse; e soprattutto, per l’appunto, con Colbrino, che avevo presentato ma senza illudermi che potesse essere accolto), sentii che non sarei stato capace di svolgere al meglio due attività tanto diverse e feci la mia scelta. In quella scelta non mancò certamente una buona dose di giovanile incoscienza, ma non me ne sono mai dovuto pentire: la carica di entusiasmo di quel “Big Bang” iniziale, pur con tante inevitabili delusioni e voglie creative represse, a più di quarant’anni di distanza non si è ancora esaurita.
Qualcosa di quel mestiere forse rimase, però. Come nel precedente L’astuto Ulisse, Colbrino è infatti ricco di riferimenti storici e letterari. Un aspetto non comune in un fumetto umoristico, almeno all’epoca: il fumetto pedagogico doveva essere “serio” e, viceversa, quello comico doveva essere di pura evasione. Questo mix insolito fu una tua scelta o una richiesta della redazione?
Era una mia scelta, o meglio, un modo di raccontare che mi viene naturale. Il direttore che accolse Colbrino (Alfredo Barberis, cui devo molto) e i suoi collaboratori nella redazione (principalmente il grande Mino Milani, che del CdR era l’anima) non indirizzavano (credo) nessuno degli autori: sceglievano quelli che preferivano e che ritenevano più adatti al giornale, ma poi li lasciavano del tutto liberi di esprimersi. E ciò contribuiva a conferire al CdR una personalità ricca e varia.
Perché scegliere un’ambientazione rinascimentale? Cosa ti affascinava di quell’epoca?
Il Rinascimento mi ha sempre appassionato, soprattutto per la coscienza, viva (e magari per molti aspetti anche illusoria) in tanti personaggi di quell’epoca straordinaria, di partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di avventurarsi in territori fino ad allora inesplorati e per molti versi proibiti. Ma qui mi fermo perché rischio di dire delle ovvietà. Aggiungo solo che mi ero laureato, pochi anni prima, in storia dell’arte con Anna Maria Brizio, illustre e appassionata studiosa di Leonardo (che credo si infurierebbe se lo sentisse citare, secondo una sciagurata usanza attuale, come “il Da Vinci”).
Come fu accolta dai lettori? Ricordo un diario scolastico 1975/1976 dedicato alla tua serie, e penso fosse un segno di interesse… Che riscontri avevi? Lettere?
La contea di Colbrino venne accolta molto bene. In un sondaggio svolto all’epoca dal CdR, risultò non in pole position, ma comunque tra i fumetti preferiti dai lettori, a pari merito con Michel Vaillant (che alle pole position era comunque abituato…). Ancora oggi trovo fan di Colbrino, alcuni dei quali, veramente sfegatati, mi citano brani di quelle lontane storie.
Il tuo umorismo nasce spesso dalla lingua, e Colbrino non fa eccezione. In particolare qui c’è una presenza esplicita e insistente dei dialetti, per caratterizzare i popoli italiani: milanesi, veneziani, napoletani, toscani… L’effetto è spassoso, ma anche rischioso. Erano anni in cui il dialetto era tornato ad essere un tema dibattuto, da Pasolini e altri, ma in un fumetto per adolescenti non poteva essere un ostacolo alla comprensione?
Non saprei. Il ricorso ai dialetti era dovuto soprattutto all’effetto comico (magari anche superficiale) che in certe situazioni ingenera. Per esempio, in un episodio nel quale il colbrinese ser Temistio veniva mandato in missione in Cina, il Gran Khan parlava nel dialetto veneziano che Marco Polo aveva insegnato al suo antenato Kublai. Inoltre i diversi dialetti sottolineavano le differenze e i contrasti dell’epoca tra le signorie delle diverse città italiane.
Trovo interessante che in Colbrino non utilizzi l’Italia del 1400 per fare satira sugli anni Settanta, ma sulla società dell’epoca. Sembra che ti sia divertito a mostrare i controsensi della situazione politica, sociale e artistica del Rinascimento, quasi all’opposto dell’approccio scolastico di celebrazione del “mito” rinascimentale.
Sì: per capire e apprezzare un periodo storico (in particolare uno straordinario come il Rinascimento) non bisogna ignorare anche i suoi aspetti contradditori e “oscuri” e rifuggire come la peste le celebrazioni retoriche e banalizzanti. Cosa che, nel mio piccolissimo, cercavo di fare. Però qualche riferimento al mondo attuale (degli anni Settanta) non mancava…
L’Italia di fine Quattrocento, il borgo fittizio abitato da persone bizzarre, Leonardo Da Vinci… Possiamo dire che Colbrino abbia anticipato di una decina di anni Non ci resta che piangere di Troisi e Benigni. Che rapporto hai con quel film?
Confesso che non è tra i miei preferiti: amando e ammirando moltissimo i due protagonisti, mi sarei aspettato qualcosa di più. Naturalmente è un giudizio del tutto personale e magari sbagliato.
Com’era lavorare al Corriere dei Ragazzi?
Per me equivaleva a essere ammesso nell’Olimpo del Fumetto. Come ho detto in un’intervista di qualche anno fa, mi limito a qualche immagine-flash di quegli anni per me “formidabili”: il grande Mino Milani che mi accolse nella redazione del CdR (alla quale accedevo ancora in stato di choc dopo che era stato incredibilmente accettato il primo episodio di Colbrino) e, trattandomi da collega, mi aiutò a ridurre di qualche pagina il suddetto episodio; il medesimo Milani che chiacchierava con Dino Battaglia in dialetto veneziano; un neoredattore poco più che bambino, tale Ferruccio De Bortoli, che scherzava con gli altri redattori; un autore di fumetti di belle speranze (anche lui giovanissimo), tale Tiziano Sclavi, che venne a complimentarsi con me dicendomi di ritenere La contea di Colbrino il fumetto umoristico più divertente del momento; Grazia Nidasio (nientemeno!) che creò un episodio della splendida saga di Valentina Mela Verde, in cui il suo personaggio annoverava tra le gioie della vita la lettura delle storie di Colbrino…
I tuoi personaggi più famosi sono certamente i Ronfi, nati sul Corriere dei Piccoli qualche anno dopo Colbrino. Che rapporto c’è tra le due serie? Hai portato qualcosa di Colbrino nelle storie dei roditori?
Credo che i Ronfi se ne stessero nascosti in qualche bosco della Contea. Il tipo di umorismo, il modo di sviluppare le storie sono gli stessi. Ovviamente i personaggi, gli ambienti, i riferimenti sono molto diversi, ma il narratore non cambia e sa raccontare soltanto in quel modo.
Il tuo umorismo è più vicino a quello di autori americani (penso al Wizard of Id di Brant Parker e Johnny Hart, o a B.C., sempre di Hart, o ancora alle strip di Mort Walker e Dik Browne) più che al fumetto comico nostrano. È distante tanto da Jacovitti quanto da Topolino o dai fumetti Alpe e Bianconi. Quali sono stati i tuoi maestri, reali o ideali, e le tue letture?
Ho iniziato con il Corriere dei Piccoli, sul quale però, ai tempi, non c’erano fumetti veri e propri: mi appassionavano le storie del “Principe Coraggioso” (ovvero Prince Valiant italianizzato) e avevo un debole per Alibella di Grazia Nidasio (la firma “Nidasio”, oltre tutto, mi sembrava evocare un personaggio immaginario, da mondo delle fiabe). Poi, da ragazzino, fui anch’io, come tanti miei coetanei, folgorato dai fumetti di Jacovitti sull’inserto de Il Giorno per i ragazzi: il suo modo di raccontare, surreale e per la nostra generazione decisamente “trasgressivo”, ci attraeva irresistibilmente. Ma la mia vera grande passione era Topolino, con una predilezione per le papero-avventure. Adoravo le storie che anni dopo ho scoperto essere di Carl Barks e di Romano Scarpa. Le staccavo dai fascicoli e le raccoglievo a parte: mitiche certe avventure che tuttora continuo a considerare dei capolavori della narrativa non solo “fumettistica”, come Le lenticchie di Babilonia, Il colosso del Nilo, L’uomo di Ula-Ula, L’Olandese volante, L’unghia di Kalì. In seguito, sì, sono stato un cultore di B.C. e di Wizard of Id e, naturalmente, dei Peanuts, con un’adorazione speciale per Snoopy, al quale confesso di essermi ispirato non poco per il carattere dei Ronfi.
Di recente hai dato alle stampe un volumone autoprodotto, dal titolo Autobiographic Novel, in cui hai raccolto e ‘remixato’ varie opere realizzate nella tua carriera, tra cui un episodio di Colbrino, inserite in una lunga e surreale riflessione sull’essere un autore. Com’è nato questo progetto?
Era nato come una breve narrazione, poi mi ha preso la mano e ho cercato di farne un racconto in cui riassumere non tanto la mia attività quanto lo spirito che l’ha animata, attraverso sentieri che apparentemente seguivano direzioni diverse ma invece non erano che piccoli frammenti di un’unica storia dipanatasi (o intricatasi?) negli anni. Se ho raggiunto lo scopo non so, ma, indipendentemente dal risultato, è già tanto essere riuscito a portare a termine un’impresa per me colossale, che sentivo quasi doverosa perché nelle mie intenzioni Autobiographic Novel vuol essere anche e soprattutto una dichiarazione d’amore per il fumetto e per l’espressione artistica in generale (i Ronfi mi rivolgono uno sguardo di riprovazione, convinti che mi sia montato la testa, e forse non hanno torto).
I tuoi fumetti sono diventati un piccolo cult, nonostante non siano mai stati ristampati in modo organico. Le storie de I Ronfi, soprattutto, sono spesso indicati come letture fondamentali dalla generazione di autori e critici diciamo quarantenni. Mi è capitato di parlare di Ronfi non solo qui a Fumettologica ma anche con LRNZ, Tuono Pettinato, Dr Pira, Davide Barzi, Maicol & Mirco, Ratigher, Zerocalcare… Che sensazione hai dal sapere di essere un autore “di culto”, formativo per tanti fumettisti di talento?
Mi fa un enorme piacere, perché mi sembra che tutti questi autori abbiano colto nelle mie storielle quel tanto di ironia e autoironia, di trasgressione e di capacità di guardare il mondo da angolazioni non consuete. O forse di incapacità di guardarlo dalle angolazioni normali. Creatività o disadattamento? Questo è il problema (dei Ronfi e, soprattutto, mio…).